Il 6
novembre u.s. è stato un giovedì da bollino rosso. I bollettini
meteorologici e l’allerta meteo hanno invaso gli spazi della
comunicazione e guadagnato un’attenzione da guinness dei primati.
Da quel giovedì è passato qualche giorno. Nel frattempo si è
registrata una piccola tregua meteorologica, ma le intemperie
continuano. Anche i “cieli” italiani si ingrigiscono registrando
nuovi episodi di intolleranza verso i migranti, ospiti in alcune
strutture sparse nel territorio nazionale ed inoltre, c’è chi,
sempre a caccia di consenso elettorale rabbioso ed arrabbiato, si
diverte ad alimentare la sensazione di insicurezza percepita e a
reiterare luoghi comuni fondati sul suolo della xenofobia e del
razzismo. Non si peritano questi sinistri individui ad armare poveri
contro poveri ed alimentare conflitti fratricidi.
A Troina, in diocesi di Nicosia, riecheggia il verbo della condivisione solidale. Si intrecciano storie e volti. Si è propensi ad ascoltare le parole del Signore, piuttosto che quelle dei profeti di sventura: «Tra voi però non è così» (Mc 10, 43).
Per l’Oasi
Maria SS. il 6 novembre è un giorno del tutto speciale, le avversità
atmosferiche non possono fermare il ricordo dell’evento fondativo.
Correva l’anno 1952 quando don Luigi Ferlauto, coadiuvato da un
manipolo di volontarie, in una casa presa a pigione, seminava un
piccolo “granello di senape” – il centro di assistenza per
disabili - che oggi, divenuto pianta di dimensioni imprevedibili,
vanta un’attenzione mondiale per quanto concerne lo studio delle
disabilità intellettive. Il 6 novembre 1954 avveniva il
trasferimento da quella prima casa presa in affitto ad una struttura
di proprietà.
Per
celebrare la ricorrenza non si poteva scegliere posto migliore, la
chiesa “Cristo Risorto” dell’Oasi, popolata, nonostante il
tempaccio, da tanti volti trasfigurati (pazienti piccoli e grandi,
volontari, dipendenti, amici dell’Oasi) dalla Bellezza che salva.
Non è occorso molto tempo perché don Stefano Nastasi, chiamato per
l’occasione a rendere testimonianza del suo ministero di parroco a
Lampedusa dal 2007 al 2013, sottolineasse che l’incontro profondo
dei volti è già preludio di accoglienza. Nel rivolgere la parola
all’assemblea, il presbitero agrigentino ha preferito farsi
portatore del messaggio che annunzia. Non ha parlato di sé, né
delle sue opere, ma della comunità di Lampedusa e della Parola che
insieme hanno condiviso. Parola che ha guidato i passi della comunità
isolana nei tempi non facili degli sbarchi del 2011 e del 2013.
Parola che è risuonata nelle tragedie che si sono consumate dal 1994
ad oggi, specialmente il 3 ottobre, giorno in cui annegarono 368
fratelli eritrei. In uno dei passaggi del suo discorso ha affermato:
«Lampedusa dal 2007 al 2013 ha vissuto i momenti più cruciali,
sperimentando per prima i mutamenti geopolitici del Mediterraneo.
Simbolicamente l’isola di Lampedusa e i suoi abitanti scelsero di
stare sulla stessa barca dei migranti, accogliendoli, dandogli da
mangiare, aggiungendo posti nella loro tavola. Tantissimi sbarchi, ma
anche tante tragedie. Il naufragio del 3 ottobre del 2013 dove
persero la vita più di 300 persone è stata un’esperienza atroce,
il risultato di uno scontro di guerra».
Continuando,
ha passato in rassegna alcuni brani biblici che hanno sostenuto e
accompagnato parroco e comunità in quei momenti cruciali. Dapprima
un versetto della Lettera ai Romani: «Noi, che siamo i forti,
abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza
compiacere noi stessi.» (15,1) che è certamente affine ad un
principio che ispira l’opera di don Ferlauto: «Deboli e forti
insieme». Ed ancora il 2° versetto della Lettera ai Galati:
«Portate i pesi gli uni degli altri: così adempirete la legge di
Cristo.». Per poi riflettere, rifacendosi al versetto 7 del capitolo
58 di Isaia, sulla necessità dell’accoglienza di chi chiede pane e
ospitalità senza trascurare le necessità di coloro che sono di
casa. Il testo profetico richiamato verte su digiuno e santificazione
della festa e in questo individua la sua consistenza: «Non consiste
forse nel dividere il pane con l'affamato, nell'introdurre in casa i
miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare
i tuoi parenti?». Un ultima parola richiamata da don Nastasi è
tratta dal vangelo di Matteo (25,40), una parola che in lingua
francese è coniata su una croce che abitualmente porta sul petto: Ce
que vous faites aux plus petits de mes frères c’est à moi que
vous le faites (Quello che avete fatto al più piccolo dei miei
fratelli è a me che lo avete fatto). Una parola che non sopporta
commenti da intellettuali da salotto, piuttosto si pone a guida di
credibili operatori solidali.
La Parola
prima condivisa nella testimonianza, è stata poi celebrata
nell’Eucarestia presieduta da don Silvio Rotondo, infaticabile
collaboratore di don Ferlauto. Non potevano non riecheggiare le
parole pronunziate qualche momento prima da don Stefano: «la carne
martoriata dei quei fratelli morti è la stessa carne di Cristo
sull’altare. La comunione di ogni giorno è quella di poter
condividere la nostra forza con chi è nella debolezza, e dunque la
bellezza dell’incontro tra chi vivendo nella debolezza e nella
sofferenza viene aiutato e sorretto da chi è più forte».
Al termine
della celebrazione l’ultranovantenne fondatore dell’Oasi ha preso
la parola ringraziando e testimoniando come l’opera è il frutto di
un grande atto di fede quotidiano: «Non è un privilegio ciò che ho
fatto, ma un dovere. Trattare gli altri come vorremmo essere trattati
noi. Siamo tutti figli di Dio. Un principio che da sempre vige in
questa casa e poi, non bisogna mai dimenticare che nostro Signore non
si lascia vincere in generosità». Opera della quale, ha tenuto a
sottolineare don Ferlauto, azionista di maggioranza è sempre il
Signore.
Alfonso
Cacciatore