L’AQUILA
- Lunedì 13 agosto, alle ore 18,
presso il Municipio di Navelli, verrà presentato il volume “Quelli che hanno dato - Storia
del Meridione dal 1860 a oggi” di Antonio
Galeota, Verdone Editore.
La presentazione del volume, dopo gli interventi
di saluto del Sindaco di Navelli, Paolo
Federico, e del Presidente della Pro Loco Giuseppe Giampietri, che hanno patrocinato la pubblicazione
dell’opera, prevede gli interventi dello studioso di storia locale Giuseppe Lalli, dello scrittore Goffredo Palmerini, del giornalista e
moderatore Erminio Cavalli, e dell’autore
Antonio Galeota.
Il
libro, un interessante saggio storico sul nostro Meridione dall’Unità d’Italia
ai giorni nostri - con significativi focus sull’Emigrazione italiana, sul
Brigantaggio e sulla storia di Navelli -, reca la Presentazione di Walter Capezzali, Presidente della
Deputazione Abruzzese di Storia Patria, la Prefazione di Goffredo Palmerini, l’Introduzione dell’autore, la Postfazione di Giorgio Spezzaferri e un contributo di Giustino Parisse in quarta di copertina.
Qui di seguito si riporta la Prefazione al volume, che dà un quadro analitico degli
argomenti e la cornice temporale dell’opera, un libro di cui si consiglia la
lettura sia per l’interesse che per la scorrevolezza della scrittura.
***
PREFAZIONE
“Da Navelli
partirono in tanti, sì che in ogni famiglia c’era almeno un emigrante.
Tra i primi,
nel 1871 partì Loreto Comitis, nato a Navelli ma di stirpe sulmonese,
lattoniere.”
Potrebbe essere questo, almeno per me e per il taglio che intendo
dare alla Prefazione di questo bel lavoro di Antonio Galeota, l’incipit del libro “Quelli che hanno dato – Storia del Meridione dal 1860 a oggi”. Ho infatti riflettuto molto prima di scrivere queste
annotazioni, dopo aver letto e ripassato più volte il testo del volume. Che,
anche in ragione delle conversazioni e gli approfondimenti con l’Autore, notavo
s’andava man mano arricchendo di nuovi spunti ed integrazioni. Insomma, un
lavoro in progressione che partendo dalla piccola storia di Navelli, stupendo centro dell’omonimo
acrocoro che produce il migliore zafferano del mondo, allarga poi la visuale
alla Grande Storia dell’Italia, dall’Unità fino ai giorni nostri. Compreso un
focus appassionato sul Mezzogiorno, sugli attuali malanni del Paese ma anche
sulle sue straordinarie opportunità, proprio partendo dalla soluzione della
secolare questione meridionale. Una storia locale, quella di Navelli appunto,
che dimostra quanto sia vero che la Grande Storia altro non sia che il mosaico
completo delle piccole storie, capaci talvolta di dare inattese risposte, più
late, proprio seguendo l’analisi dei dettagli, delle fonti orali oltre che dei
documenti, degli aneddoti e delle tradizioni, di quel complesso di elementi
morali e materiali, insomma, che costituiscono la cifra d’un luogo, di una
comunità e del suo retaggio culturale.
Dunque, anche questo interessante lavoro di Antonio Galeota si configura - nella sua ricca articolazione tra
fatti storici locali e vicende nazionali - come un significativo esempio di
concezione della “nuova storia”, della quale Jacques Le Goff, è stato uno degli esponenti di punta. Ovvero una
Storia che non abbia come fondamenta solo le fonti documentarie, ma anche
quelle orali, le tradizioni, la memoria collettiva. Insomma, etnostoria ed
antropologia storica diventano elementi importanti di sviluppo della scienza
storica. Come l’analisi linguistica, demografica, economica, culturale. Come lo
studio dei luoghi della memoria collettiva: archivi, musei e biblioteche,
insieme a monumenti, cimiteri e architetture urbane. Ma anche altri elementi
“simbolici” - commemorazioni, pellegrinaggi, ricorrenze e tradizioni popolari -
e “funzionali”, quali le autobiografie, i manuali, le storie delle
associazioni.
L’Autore, a mio parere, propone un’opera di forte interesse. Un
lavoro che conferma, qualora ce ne fosse bisogno, il valore della “storia
locale” come elemento essenziale della grande Storia. Questa, come altre opere
di storici locali, sono infatti preziose tessere d’un mosaico che
ricostruiscono con rara efficacia la memoria collettiva d’una comunità, quella
di Navelli ma non solo, nell’ultimo secolo e oltre. La società attuale è troppo
distratta da occupazioni effimere, domina sempre più frequentemente il pensiero
volatile, mentre sempre meno c’è chi si sofferma, con spirito critico, a
riflettere sulle vicende vissute dalla comunità di cui è parte, affrontando la
fatica dell’analisi e della ricerca per definirne il contesto e lasciarne poi
traccia duratura per le generazioni che seguiranno. Per paradosso, in un tempo
dominato dai mezzi d’informazione di massa, si rischia davvero di smarrire la
memoria d’una comunità, di perderne il senso della storia.
Ora questo non potrà più accadere, per Navelli e per la sua comunità, grazie al pregevole lavoro di
ricerca condotto da Antonio Galeota.
Almeno per l’arco del secolo e mezzo precedente all’attualità, l’Autore
illustra con ampiezza di riferimenti le vicende che hanno interessato la
comunità navellese, ne descrive situazioni economiche e sociali, annota fatti
grandi e piccoli che hanno interessato personaggi e famiglie del luogo. Con una
feconda capacità narrativa l’Autore offre al lettore una densa cornucopia di
personaggi e di biografie, da Pasquale
Papaoli in giù, in grado di rendere stimolante e piacevole la lettura dei
fatti che racconta e del relativo contesto storico. Quasi a dar ragione a Karl Popper, quando asseriva che “In realtà non c’è nessuna storia
dell’umanità. C’è soltanto un numero illimitato di storie, che riguardano tutti
i possibili aspetti della vita umana”.
Piccola storia locale, dunque, come componente della grande Storia
nazionale. Qui l’aggancio all’inizio di questa mia nota, al valore di questo
volume. Perché l’Autore, peraltro, va oltre la piccola storia di Navelli, già di per sé preziosa. La
contestualizza nelle vicende e nei fenomeni nazionali, partendo dal 1860.
Dell’inizio dello Stato unitario egli propone una lettura attenta, non
agiografica, delle vicende, soffermandosi su fatti rimossi dalla memoria
nazionale e persino dai libri di storia. Come il caso, avvenuto nell’agosto
1861, del massacro di migliaia di cittadini inermi a Pontelandolfo e Casalduni,
con sevizie saccheggi e stupri, da parte dei Bersaglieri al comando del colonnello Negri, poi premiato con Medaglia
d’oro al valore, che ordinò l’assalto e la carneficina dei “briganti” in quei
due paesi del beneventano. Solo nel 2011, nel 150° anniversario dell’Unità,
l’Italia ha riconosciuto le sue responsabilità per quegli orribili fatti,
portando con Giuliano Amato le scuse
del Presidente della Repubblica.
L’Autore dà ampio conto del fenomeno del brigantaggio, nell’analisi sociale che lo generò, con una lettura
critica non sempre facilmente rinvenibile, specie riguardo la spietatezza della
repressione che l’esercito e i tribunali militari condussero grazie alle norme
di giustizia sommaria approvate dal Parlamento su proposta del deputato
aquilano Giovanni Pica. Interessante
quanto viene narrato sui briganti che operarono tra Popoli e Navelli. Al
brigantaggio fece da pendant l’emigrazione. Le gravi condizioni
economiche e sociali del meridione d’Italia, seguite alla nascita dello Stato
unitario e alla sua politica
fiscale, oltre all’accaparramento delle terre pubbliche da parte
delle classi dominanti, sottratte ai ceti popolari, e il depotenziamento fino
alla scomparsa delle numerose iniziative industriali create dai Borbone, determinarono l’altro
fenomeno nazionale dell’emigrazione di massa verso il nord e sud America. Due
capitoli Galeota dedica
all’emigrazione, trattandone gli aspetti essenziali con particolare
accuratezza, anche riguardo la nuova emigrazione di quest’ultimo periodo, che
vede espatriare ogni anno 90 mila italiani, sopra tutto giovani. Intento assai
commendevole, se si pensa che quel processo di rimozione della memoria,
presente il larga parte della classe dirigente, confina ai margini della nostra
storia nazionale un fenomeno così cospicuo per il Paese (30 milioni di emigrati
in un secolo, diventati ora 80 milioni di oriundi nel mondo, dunque un’altra
Italia ben più grande).
Anche sotto tale aspetto il volume è davvero apprezzabile, perché
contribuisce ad alimentare interesse e a diffondere la conoscenza della storia
nostra emigrazione. Oggi di questa storia si conosce - ma neanche poi tanto approfonditamente
- la parte gloriosa: i successi e il prestigio che gli italiani delle
generazioni successive alla prima emigrazione hanno conquistato in tutti i
campi nel corso di questa vera e propria epopea. Molto meno si conosce la parte
dolorosa. L’esercito
di braccia che partì dall’Italia verso le terre d’emigrazione, infatti, si
trovò a dover affrontare inimmaginabili e drammatiche vicende umane, a lottare
ogni giorno contro sospetti e pregiudizi, a subire spesso angherie d’ogni
sorta, a doversi confrontare in competizioni durissime con sistemi sociali
sconosciuti e condizioni di lavoro altrettanto precarie. Basti appena ricordare
a mo’ d’esempio le tragedie nelle miniere degli Stati Uniti, che stroncarono la vita a migliaia di persone,
moltissimi italiani tra loro: a Winter
Quarters nello Utah (1900), a Fraterville
in Tennessee (1902), ad Hanna nel
Wyoming (1903), ad Harwick in
Pennsylvania (1904), a Monongah in
West Virginia (1907) - la più tragica -, a Cherry
in Illinois (1909), a Dawson nel New
Mexico (1913), ad Eccles nel West
Virginia (1914), solo per citare quelle con il maggior numero di vittime. Dei
morti molti erano adolescenti e ragazzi di pochi anni, sepolti nelle viscere
della terra. E come non citare la tragedia nella miniera di carbone di Bois du
Cazier, a Marcinelle (Belgio), dove
l’8 agosto 1956 persero la vita 262 minatori, 136 erano italiani, di cui ben 60
abruzzesi. A queste tragedie andrebbero aggiunte quelle nell’oceano, i naufragi
di piroscafi e bastimenti, talvolta autentiche carrette del mare cariche di
emigrati nelle loro stive, partiti dai porti di Genova, Napoli, Trieste, Palermo per le Americhe, e inabissati con migliaia dei morti. Sirio, Utopia, Arandora Star, Principessa Mafalda, nomi di navi che
subito evocano alcune immani tragedie in mare.
Da
qualche anno, finalmente, studiosi e scrittori stanno illuminando con i loro
lavori la Grande Emigrazione italiana,
favorendo efficacemente la conoscenza del fenomeno migratorio verso lettori e
opinione pubblica. Taluni di questi importanti autori Galeota cita
opportunamente in questo suo libro. Sono opere, le loro, che segnalano a costo
di quali enormi sacrifici i nostri emigrati abbiano conseguito conquiste
civili, economiche e sociali nei paesi d’emigrazione. Di quali terribili
pregiudizi essi siano stati vittime, perfino nella “civilissima” Svizzera, dove
verso gli emigrati italiani è stato tenuto persino qualche referendum dagli
evidenti contorni xenofobi. Ma non dobbiamo neanche tacere che un atteggiamento
simile ha interessato pure nostri connazionali delle città industriali del nord
Italia a danno degli emigrati meridionali. Al riguardo Galeota non fa sconti di
sorta e il tema del pregiudizio xenofobo trova icastica espressione nella
davvero meritoria trattazione dell’eccidio per linciaggio di 11 emigrati
“siciliani” a New Orleans, nel 1891.
L’Autore
ripercorre giorno per giorno i gravi fatti che sfociarono nel linciaggio dei
nostri connazionali, dieci di essi siciliani e l’undicesimo di Navelli. Appunto quel Loreto Comitis, lattoniere, emigrato
nel 1871 alla volta di New York e da
lì in Louisiana. Una vicenda
terribile che, sulla scorta d’un libro di Richard
Gambino - “Vendetta”, pubblicato
nel 1978 da Sperling & Kupfer -, Galeota
riferisce puntualmente, mettendo bene in luce ogni aspetto della vicenda
seguita all’assassinio del capo della Polizia di New Orleans. Di quel fatto di sangue, avvenuto il 16 ottobre 1890,
furono subdolamente accusati 19 nostri connazionali. Finito il processo con
l’assoluzione di sei imputati dall’accusa dell’omicidio, il 14 marzo 1891 la
folla, istigata da caporioni, mosse verso il carcere provvedendo al linciaggio
in cui persero la vita 11 italiani. Con un’evidente responsabilità delle
autorità che, pur a conoscenza del progetto delittuoso e nonostante le
sollecitazioni del Console d’Italia
a proteggere i nostri connazionali, non fecero nulla per impedire l’eccidio.
Non vi erano prove di colpevolezza nei confronti degli accusati, come dimostrò
la sentenza, ma furono tuttavia trattenuti nel carcere della Contea “per
tutelare la loro sicurezza”. E proprio là migliaia di persone, aizzate anche
dalla stampa locale, andarono ad operare il linciaggio. Galeota del fatto
analizza le cause, tra le quali ebbero sicuramente rilievo il pregiudizio e l’odio
xenofobo verso i nostri emigrati, troppo in gamba per essere stati capaci in
Louisiana di trasformare terreni in orti fertilissimi, ma sopra tutto per aver
saputo conquistare il mercato e la distribuzione della frutta nel porto di New Orleans, soppiantando
l’imprenditoria yankee. Anche questo un fatto della storia della nostra
emigrazione totalmente negletto, sconosciuto, che ora anche attraverso questo
volume può tornare all’attenzione dei lettori.
Giova
qui richiamare come l’Autore, attraverso ricerche nell’archivio comunale di Navelli, con grande merito abbia
chiarito l’origine e raccontato per intero la vicenda giudiziaria di Loreto Comitis, cinquantenne quando fu
assassinato. Egli non era stato ancora sottoposto a giudizio, come confermò la Corte di New Orleans in una relazione
inviata al Ministro degli Esteri italiano qualche giorno dopo il linciaggio. Ma
dei dettagli di questa storia tragica è opportuno far rinvio alla lettura del
volume, sicuramente avvincente, anche per l’esposizione di altri casi di
linciaggio dei nostri emigrati, in Francia,
Australia e in Alabama (Usa). Pagine dolorose della nostra emigrazione, che vanno
assolutamente conosciute. Lungo, difficile e impegnativo è stato infatti il
percorso dei nostri emigrati per affrancarsi dal pregiudizio e conquistare
considerazione e stima, per affermarsi in ogni settore di attività nei Paesi
d’accoglienza, al cui sviluppo hanno fortemente contribuito. Nondimeno essi
hanno conquistato sul campo, in condizioni assai difficili, ragguardevoli risultati
grazie alla loro laboriosità, all’ingegno e all’intraprendenza creativa, come
pure alla correttezza dei loro comportamenti - nella stragrande maggioranza dei
casi - tanto da guadagnarsi il rispetto grazie a testimonianze di vita
esemplari.
Hanno
così reso un ulteriore servizio all’Italia, persino più importante d’aver
contribuito con le proprie rimesse alla sua ricostruzione e al suo progresso,
nell’aver dimostrato in ogni angolo del mondo quali siano le qualità e le doti
della gente italiana, in Paesi dove la considerazione verso l’Italia talvolta è
misurata più sui nostri difetti in Patria che non sulle nostre virtù. Non è un
mistero che in Italia le nostre abitudini risentano di antichi vizi e si stenti
ancora ad affermare uno Stato con autentiche pari opportunità per tutti, nei
diritti ma anche nei doveri, dove leggi e regole dell’organizzazione sociale
presiedano rigorosamente al comportamento individuale come pure nella coscienza
diffusa di tutti i cittadini. Quando questo non avviene - e talvolta cattivi
esempi vengono proprio dalla classe dirigente - di noi all’estero invale un
concetto non certo edificante e con severità siamo giudicati come l’Italietta,
piuttosto che il grande e moderno Paese che potremmo essere con comportamenti
più virtuosi, ammirato per la nostra cultura e per le nostre bellezze. Queste
criticità non riguardano i nostri connazionali all’estero, perché con il loro
comportamento offrono dell’Italia un’immagine seria ed affidabile,
dimostrandosi i nostri migliori ambasciatori nel mondo.
E tuttavia in Italia, nella mentalità di larga parte
della classe dirigente, persistono stereotipi e paternalismi verso gli italiani
nel mondo, rivelando un grave deficit di conoscenza del fenomeno migratorio,
tanto da limitare le opportunità di valorizzarlo come preziosa realtà sulla
quale investire. Per chi abbia un minimo d’interesse e d’umiltà, l’avvicinarsi
alle nostre comunità all’estero consente di scoprire un patrimonio
inimmaginabile di risorse umane, professionali ed imprenditoriali, così ben
inserite in quelle società, che porta ai nostri connazionali, e quindi
all’Italia, una messe di riconoscimenti e di prestigio, conquistati in decenni
d’impegno, talvolta contro supponenze e pregiudizi. Oggi gli italiani
all’estero sono considerati per il loro valore umano, sociale, creativo ed
intellettuale. Hanno raggiunto risultati di rilievo in ogni campo di attività e
nei ruoli di responsabilità assunti nei Paesi in cui vivono.
Le generazioni seguite alla prima emigrazione
esprimono attualmente una schiera di personalità emergenti in ogni settore
della vita sociale e civile, dall’imprenditoria alle professioni, dall’economia
alle università, dalla ricerca alla politica, persino nei Parlamenti, nei
Governi e nelle massime espressioni degli Stati, come dimostra la recente
elezione di Mauricio Macri,
d’origini calabresi, alla presidenza dell’Argentina.
O al vertice della Chiesa cattolica, come il figlio d’emigrati piemontesi
diventato Papa Francesco. Per gli
Abruzzesi è persino più evidente. Riscattando le condizioni di dignitosa
povertà che furono alla base della loro emigrazione in ogni angolo del mondo,
lasciando sperduti paesi sulle montagne grame o i villaggi delle pianure ancora
soggiogate dal latifondo, gli Abruzzesi si sono guadagnati dovunque rispetto e
considerazione, specie nell’ultimo mezzo secolo. Una constatazione che riempie
di legittimo orgoglio. Basti solo rilevare come figli della nostra emigrazione
sono diventati ministri in Canada o Speaker del Congresso degli Stati Uniti. O
come Elio Di Rupo, figlio d’un
emigrato abruzzese minatore in Belgio, sia diventato Primo Ministro di quel
Paese. Di questa storia dobbiamo assolutamente avere memoria. L’Italia e le sue
nuove generazioni dovranno conoscerla, tenerne conto. Perché “il futuro appartiene a chi ha la memoria più
lunga”, diceva Friedrich Nietzsche.
La Memoria,
dunque. L’epopea dell’emigrazione italiana, infatti, oltre ai valori sociali e
culturali che incarna, è anche un patrimonio ingente di solidarietà e
d’umanità, oggi più che mai necessario per poter comprendere i drammi del
nostro tempo, la grande migrazione che approda sulle nostre coste e bussa alle
porte dell’Europa. E l’Italia non può fare a meno della Memoria delle sue
migrazioni, interne e verso altri continenti, se vuole essere all’altezza delle
sfide di questo secolo, nell’accogliere quell’umanità che mentre fugge da
guerre, fame e persecuzioni cerca nel continente culla della civiltà il proprio
avvenire. Perché di fronte a eventi epocali come quelli che stiamo vivendo
possa germogliare un nuovo umanesimo.
L’Autore chiude infine il volume con un capitolo
dedicato al Mezzogiorno. L’analisi
dei mali italiani è impietosa, per il senso etico kantiano che la
contraddistingue. Una critica a tutto campo sui privilegi di vecchie e nuove
caste. La vera zavorra dell’Italia nel diventare una democrazia evoluta, un
Paese davvero moderno ed europeo dove il culto della civiltà sociale si coniuga
dapprima nell’esercizio rigoroso dei propri doveri e poi dei diritti. Ma Antonio Galeota non solo denuncia.
Offre anche spunti di soluzione ai problemi, mostrando quella sensibilità
politica e quella competenza amministrativa che lo hanno fatto distinguere come
amministratore, funzionario pubblico e Sindaco. Della questione meridionale,
trattata a conclusione del volume, dell’Autore s’avverte la dimestichezza
culturale, la conoscenza di quel ricco filone di sensibilità che attinge alle
intuizioni di Gaetano Salvemini e Giustino Fortunato, ma anche più
recenti di Pasquale Saraceno e Paolo Sylos Labini. In definitiva, di
quella sana cultura del riformismo italiano che nella soluzione della secolare
questione meridionale individua la svolta dello sviluppo del Paese, puntando
sulle straordinarie potenzialità del Meridione: in campo turistico, culturale,
ambientale, agricolo ed enogastronomico, nella ricerca scientifica,
nell’innovazione, nell’alta formazione e nella valorizzazione dell’eccezionale
giacimento artistico ed architettonico che questa porzione d’Italia detiene.
Un’ultima considerazione. L’Autore rifugge dagli
equilibrismi dialettici. La trattazione trasuda estrema franchezza di giudizio,
a merito di chi non ha timore d’assumere posizioni nette, in un’etica delle
responsabilità talvolta sconosciuta dalla nostra politica. E che Antonio Galeota sia un “politico” - nel
senso più nobile del termine - di vaglia, si comprende a distanza. Anche quando
le sue argomentazioni possono non essere del tutto o in parte condivisibili,
restano tuttavia lievito di discussione, contributo rilevante per un dibattito
consapevole e maturo. Pure sotto questo profilo il presente volume è
rimarchevole. Utile. Generosamente fecondo. Ben scritto, con una prosa ricca,
persino incastonata di qualche incursione nel vernacolo, che ne avvalora la
leggibilità, lineare e piacevole, connotando ancor più la qualità di
quest’opera.
Goffredo Palmerini