«Come in un cerchio
tutto ritorna./Mi ritrovo dentro una tempesta improvvisa,/annaspo
inconsapevole smarrendomi/nell'oscurità profonda di una fitta
foresta./Mi specchio in una pozza/e vedo il volto di chi ha
girato/nello stesso cerchio prima di me./Fino in fondo ho percorso/il
tragitto del dolore,/immersa in un panico intenso,/purificando e
sanando ciò che/mi è stato concesso vedere./L'occhio interiore
torna a luccicare/con nuova luce/rivolto verso l'orizzonte
dell'intuito».
Nel precipitato poetico testé riportato c'è molto
di Giovanna Ferraro, della sua ontogenesi, delle sue opere e dei suoi
giorni, di certo però non vi è tutto. Abraham Joshua Heschel, con
arguzia tutta ebraica e saggezza di spirito, affermava: «Il corso
della vita è imprevedibile nessuno può scrivere la sua
autobiografia in anticipo». È difficile, al meno per noi,
imbrigliare Alla vita così com'è nel genere letterario
dell'autobiografia. Giovanna Ferraro, che ne è autrice e
protagonista, alla pari con altri: la vita, grande maestra; Mikhael,
suo figlio; la madre, Virginia; la nonna napoletana, Rachele; Ciro,
il cugino siciliano; Artù, il suo micio; Cristina, Giuseppe… si
tiene a distanza da tale pretesa. Di primo acchito nondimeno il
pensiero della Ferraro sembra non tenersi alla larga dall'eclettismo,
ma nello scorrere delle righe dei suoi scritti e nell'immergersi nei
contenuti che comunicano il suo pensiero attraverso vicende
biografiche, ci si rende conto che il collante di innumerevoli
frammenti è il principio di connessione simultanea. La
«sincronicità», che integra organicamente uomini e parti,
trascendendo il tempo dei cronografi.
Io
non sono più sola nella mia stanchezza, malattia, tristezza o paura,
ma sono insieme con milioni di persone di tanti secoli: anche questo
fa parte della mia vita che pur bella e ricca di significato nella
sua assurdità, se vi si fa posto per tutto e se la si sente come
un'unità indivisibile.
Dà compiutezza
esplicativa all'idea di sincronicità, citandone le parole che sopra
abbiamo voluto riportare, un'autentica maestra, il cuore pensante di
Westerbork, Etty Hillesum. L'itinerario spirituale di Giovanna
Ferraro ha delle sorprendenti affinità con quello di Etty, martire
della barbarie nazista che, nonostante le SS e Auschwitz, si adoperò
per la costruzione di un mondo migliore e si percepì, lei incapace
di inginocchiarsi per moltissimo tempo, responsabile per Dio.
L'unica
cosa che possiamo salvare in questi tempi e anche l'unica che
veramente conti è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E
forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati
di altri uomini. Sì mio Dio sembra che tu non possa far molto per
modificare le circostanze attuali. Io non chiamo in causa la tua
responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E
quasi ad ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: tu non
puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all'ultimo
la tua casa in noi.
Gli aguzzini sono là a
torturare la sua ferialità eppure lei come Giovanna riesce a
sottrarsi al circolo vizioso della logica, intossicante come la
chemio, di vittima e carnefice. La Ferraro, inguaribilmente cuoca,
riflettendo sulle paure dell'anima, sulla rabbia, sulla frustrazione,
sulle delusioni, sui fallimenti del passato, sull'orrore della morte,
perviene ad una conclusione fondamentale che il perdono di sé e
degli altri è «il piatto più prezioso che si possa sfornare… la
vera guarigione».
La nota d'avvio di
questo canto alla vita che è il libro della Ferraro è
paradossalmente funerea. Giovanna è la sua terra.
La Sicilia, bellissima e
melanconica, fiera, eppur piagata dagli eventi che vi si scagliano
con violenza.
La morte precocissima di
mamma Virginia: una ferita sanguinante che le lascia una feritoia
dalla quale furtivo entra il vento della memoria mai sazia di lei:
«il processo dell'elaborazione della morte di una madre -ammette
decisa- è più prolungato in realtà, dura tutta una vita. Io mia
mamma la piango da sempre». A Chinesi, una contrada del paese di
origine Alessandria della Rocca, tra le naturali geometrie dei
mandorli, la maestosità degli olivi e la superba bellezza dei
pistacchi, il racconto e l'ascolto, tra Maria sorella di Virginia, e
Giovanna, nipote e figlia, si tramuta in un sorta di memoriale
liturgico: il dolore si rinnovella e sebbene sia «differente per
ognuno», lega e ripresenta, trasfigurandolo di volta in volta, chi
fisicamente non c'è più.
Come se non fosse già
abbastanza all'incolpevole "abbandono" materno se ne
aggiunge un altro e poi un altro ancora: la dipartita di papà Paolo
ad appena sedici anni e l'allontanamento volontario del compagno di
vita. L'anarchia è talvolta l'esito di dolore inespresso, prepotente
bisogno di rivolta, sfida alla vita e alle sue incostanti dinamiche.
Che la vita sia uguale per tutti è un clamoroso luogo comune, che la
paura metta in linea no, Giovanna ne fa esperienza è il gioco cessa.
«Anche se per tutta la
vita hai giocato a fare l'anarchica, la paura ti mette in riga».
L'adenocarcinoma sieroso
papillare non scherza, ma Giovanna nemmeno. Lo prende sul serio, non
lo isola da sé, non lo esorcizza, ne vuole indagare l'origine che
trascende la genetica e le sue bizzarrie, ne vuole cogliere il
valore, ne cerca il senso e quale messaggio abbia per lei. Inizia un
capovolgimento o se volete un riequilibrio delle parti. Nel giro di
poco tempo molto le appare superfluo. Si rende conto che ognuno di
noi è unico e irrepetibile e pertanto così come non esiste una cura
infallibile, non esiste una cura uguale per tutti. Delle persone, dei
loro sguardi, dei loro abbracci e delle chiacchierate con loro ne
vuole fare il pieno: inizia a riemergere quanto soffocato dalla
consistenza e dal valore economico dei rapporti: «l'amore - scopre
Giovanna- non è possesso». L'impatto con Etty Hillesum, Alda
Merini, Giovanni della Croce, Katherine Mansfield… Le Petit
Prince di Antoine de Saint-Exupéry e il Gabbiano Jonathan di
Livgstone di Richard Bach - solo per ricordarne alcuni - lascia
tracce non trascurabili. L'afflato mistico è innegabile, e la
mistica non è la tangenziale per la fuga mundi, ma esperienza
alta ed altra, spesso indicibile, è estasi e incanto, trafittura
fino alla transverberazione: amalgama tra il divino e l'umano.
In un tempo in cui
latitano padri e maestri, ma anche autentici discenti, al netto
perciò di un'altra delle molte retoriche che è quella del farsi da
sé, Giovanna riconosce nel sorgere della dottoressa Arabella, un
maestro; nella musica, un farmaco per la cura dell'anima; nel gioco,
il valore terapeutico di cui è pregno: «permette di entrare
direttamente a contatto con il dolore da un'altra porta per
sublimarlo». Sublimazione, levitas, ferita interiore,
cammino, cura dell'anima, guarigione, meditazione. Elementi classici
dell'ascesi cristiana, rottamati dalla furia iconoclasta del
neopagano mainstream che ha fatto dell'immediatismo egolatrico
e dell'appiattimento nell'istante presente un altro dei tanti feticci
al quale pagare pegno. Che il tributo pagato non valga la candela è
sotto gli occhi di tanti artatamente e violentemente silenziati, ma
tant'è.
Nel volume c'è un
evidente cesura, segnalata opportunamente. Essa consiste nel fatto
che nella vita di Giovanna esiste un pre e un post, lo spartiacque è
l'ascolto della malattia. La Nostra vi si immerge dentro. La sua non
è una semplice introspezione, ma molto di più, è la consapevole e
sorprendente scoperta della propria interiorità, delle sue intime
iridescenze, delle proprie energie latenti, degli echi prossimi e
remoti che finalmente rompono un'ottusa sordità, dell'autenticità
di una profondità soffocata dalle superficiali stereotipie modaiole
del tutto conformi ai calchi dei mercanti di vuota e banalissima
serialità. Impara come Etty Hillesum a piegare più che le ginocchia
il cuore, non banalizza la preghiera, né la rinchiude in canoni
consuetudinari, tenta di definirla e vacilla, scivolando verso una
sorta di immanentismo che entra in collisione con le sue
sincronicità.
Solo un capovolgimento
di sguardo fa vedere il malato e non solo la malattia, solo un
affinamento dell'anima conduce all'ascolto del proprio dolore e alla
percezione delle sue note che si scrivono sul pentagramma della
sofferenza. Giovanna ha acquisito una forte consapevolezza che la più
subdola e parimenti rischiosa identificazione, è quella del malato
con la sua malattia. La guarigione non è un semplice fatto organico,
da un morbo si può guarire, ma la guarigione integrale è «un
percorso», l'intrapresa di un cammino trasformante «è un'apertura
del cuore». «La malattia -scrive in un linguaggio molto indigesto
la Ferraro- è un'opportunità». Altrove afferma: «guarire non è
sopravvivere alla malattia, ma comprenderne il messaggio e
affrontarla per come deve essere in quel momento». Sorgono
spontaneamente giacché provocati dubbi e obiezioni; il moto di
ribellione verso la fine e il male che corrode i corpi e corrompe gli
spiriti è ancestrale: «e se la sordità superasse la capacità del
medium (la malattia) di trasferire il messaggio? E se ci si chiudesse
alla consegna che reca, e/o non si fosse disposti o predisposti a
comprenderlo?... Di certo ci si consegnerebbe all'assurdo della
disperazione o ci si richiuderebbe a riccio in un inconsolabile e
mortifero dolore». La salute per l'autrice è un fatto olistico: il
ben-essere integrale -da non confondere con il ben avere-
dell'esserci.
Esempio
dell'accoglienza femminile, in grado di custodire e avvolgere come
una coperta calda in una gelida notte passata all'addiaccio. Ricovero
per il naufrago impaurito, fiamma di un fuoco privo di fine pronta a
illuminare e ascoltare senza giudicare, permettendo di riavvicinarsi
alla propria essenza.
Che le donne e la loro
saggezza nel libro della Ferraro abbiano un'importanza di primo piano
emerge fin da subito con chiarezza. L'autrice scrive di una sorta di
'fluido' fatto di «segreti, sguardi, intingoli, saperi e intuizioni»
che le unisce verticalmente tutte. La guarigione è emancipazione,
frantumazione di luoghi comuni, demolizione di meccaniche coazioni a
ripetere, liberazione dalla «necessità di essere accettate e
ascoltate dall'esterno… per avere un'approvazione».
Fin dal sottotitolo dato
al volume è possibile percepire che il detto (pensiero) del dire
(scritto) dell'Autrice è, più che il resoconto di una ricerca di
senso, il rinvenimento di tracce che indirizzano verso la sua
pienezza.
Inizio a legge Alla
vita così com'è il 30 ottobre di buon mattino; alle 7 e 41, il
letto su cui sono adagiato sembra essersi trasformato in una
navicella che attraversa una tempesta spaziale, il sisma ha colpito
nuovamente il centro Italia, e Roma ne ha risentito. Finisco di
scrivere queste note quando ho appena scampato la bomba d'acqua che
si è riversata nell'Agrigentino il 25 novembre: 196 mm di pioggia,
nell'arco di qualche ora, sono state sufficienti a stravolgere il
territorio, a mostrarne le fragilità, a suscitare un esame di
coscienza, ad invocare la capacità di ricominciare. Due eventi
calamitosi terremoto e alluvione che testano la nostra resilienza.
Quello della Ferraro è
anche questo, un libro sulla resilienza: sulla capacità di
fronteggiare le avversità andando oltre, dando slancio nuovo alla
vita e andando verso di essa. A suo modo è anche una interrogazione
sull'uomo: «chi è l'uomo», e una sorta di supplemento per la
meditazione del Salmo 8: «che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e
il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno
degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato».
Il libro è dedicato
alla «Luce» che, pudica, tenta di nascondersi, ma non potendo
oggettivamente realizzare il suo intento, finisce per costituire, suo
malgrado, lo sfondo-orizzonte e il centro delle sincronicità. Quale
consistenza, se ne abbia, credo che l'Autrice ce lo dirà proseguendo
il suo cammino. Crediamo che questa prima resa sia un work in
progress.
È assodata piuttosto la
capacità di sguardo e un modo diverso di vedere la vita.
«Ins Leben» a fronte
del «Zum Tode» è l'esito del capolavoro di Franz Rosenzweig, che
se no fosse per il suo rifiuto della mistica diremmo affine, fatte le
debite differenze, all'esito di Alla vita così com'è di
Giovanna Ferraro, stella danzante che da piccola si trasformava nella
fatina Jenny.
©Alfonso Cacciatore