Libri, intervista a Paolo Di Stefano autore de "La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956"

Sono passati 60 anni dalla tragedia di Marcinelle, in Belgio, dove, nella miniera del Bois du Cazier, persero la vita 262 persone. E' la mattina dell' 8 agosto 1956: un errore umano, una scintilla e poi l'incendio divampa, condannando a morte gli uomini e gli animali che lavorano nei pozzi, profondi oltre 900 metri.
Per la maggior parte le vittime sono italiane, 136 uomini, emigrati in cerca di lavoro e dignità, arrivati per estrarre carbone in Vallonia dopo l'accordo che Belgio e Italia avevano stipulato nel 1946. Oggi, il sito di Bois du Cazier è iscritto nella lista Unesco, per il suo alto valore simbolico. Molte le commemorazioni nei due Paesi. Eugenio Murrali ha intervistato Paolo Di Stefano, giornalista del Corriere della Sera e autore del libro "La catastròfa. Marcinelle 8 agosto 1956": 
R. – Sono stato come “invaso” da queste voci di vedove, di orfani e di sopravvissuti che mi parlavano dell’8 agosto 1956. Volevano farsi ascoltare, volevano raccontare la loro storia. Avevano questa percezione di un oblio.
D. – Chi erano gli italiani che lavoravano al Bois du Cazier?
R. - Erano giovanissimi – ventenni o poco più – provenienti da tutte le regioni italiane, in maggioranza dal Centro. Molti partivano dall’Abruzzo, perché avevano esperienza di miniera. Erano, naturalmente, figli di contadini, gente che al paese non aveva quasi nulla e che vedendo questi manifestini – che allora venivano appesi in tutti i comuni e ai portoni delle chiese dei piccoli paesi italiani – partivano, prendevano il treno, arrivavano a Milano, dove effettuavano le visite mediche nei sotterranei della stazione e poi da lì prendevano il treno per andare a Charleroi. Quando arrivavano lì, in realtà venivano mandati subito in miniera. Erano ragazzi spesso sposati che avevano famiglia, avevano figli. La famiglia in un primo momento rimaneva al paese, poi  raggiungeva chi era partito in modo che potesse ricostituirsi un nucleo familiare più o meno solido e felice. Vivevano perlopiù nelle baracche, anche se questi manifestini promettevano degli appartamenti veri e propri. In realtà i nostri minatori, una volta arrivati in Belgio, andavano a finire nelle baracche che un tempo erano abitate dai prigionieri di guerra. Quindi, avevano una vita molto difficile, non solo per il lavoro, ma anche per la qualità dell’alloggio, la qualità esistenziale.
D. – Lei ha studiato i documenti relativi alla tragedia, le testimonianze dei famigliari, il comportamento delle autorità italiane e belghe. Cosa ne è emerso?
R. – Ne è emerso che, per quanto riguarda le autorità italiane, c‘è questo grande buco nero, questo risentimento molto forte da parte dei sopravvissuti e delle vedove per quel famoso accordo-capestro e scellerato che fu fatto nel 1946 tra il governo italiano e il governo belga. Prevedeva uno scambio tra uomini e merci: per mille minatori italiani che fossero partiti per il Belgio, sarebbero arrivate in Italia due tonnellate e mezzo di carbone. Quindi, un vero e proprio scambio tra uomini e merci. Poi, ci sono i fatti che hanno fatto seguito la catastrofe: mentre Re Baldovino si è recato lì immediatamente, le autorità italiane non si sono fatte vedere, forse per questo grande senso di colpa che riguardava proprio l’accordo del 1946, in quanto sapevano che in realtà era un accordo piuttosto scellerato. Quindi, da questo punto di vista la rabbia, il risentimento delle persone colpite è anche molto comprensibile. Per quanto riguarda il Belgio, loro hanno vissuto con la gogna di un razzismo molto forte che hanno dovuto subire per circa un decennio, cioè dal 1946 al 1956. Poi, con la tragedia tutto è cambiato e questo lo dicono molti dei testimoni, nel senso che i belgi, a quel punto, hanno capito che gli italiani davvero erano andati lì a lavorare, sì per guadagnare, per conquistare un certo benessere per sé, ma anche per tirare su le sorti di un Paese, il Belgio, ma dell’Europa direi, che in quel momento aveva bisogno di loro.
D. – Nei giorni seguenti alla tragedia, c’è stato un sentimento di attesa: i parenti erano lì che speravano di poter rivedere i loro cari. Lei ha potuto registrare questi racconti?
R. – Ho registrato soprattutto le testimonianze dei parenti, degli orfani, che allora erano proprio dei bambini o dei ragazzini e anche quelle dei soccorritori che sono spesso agghiaccianti. Le vittime sono morte bruciate. Nel giro di qualche ora, poi, sono arrivati i pompieri che hanno buttato giù una tale quantità di acqua, che i pochi minatori che si erano salvati dal fuoco sono rimasti vittime dell’acqua. Sono stati trovati animali, cavalli, a 400, 500, 975 metri sotto terra, dove è accaduto l’incidente. Sono rimasti anche loro coinvolti nell’incidente e sono morti lì sotto. Erano delle carcasse gonfie d’acqua. I soccorritori hanno raccontato persino alcuni aspetti purtroppo lugubri della dinamica dell’incidente. Io ho raccolto tutte le testimonianze di coloro che si trovavano in superficie e dei pochi che, invece, hanno avuto il coraggio incredibile di scendere per cercare di salvare il salvabile. Eugenio Murrali, Radio Vaticana, Radiogiornale dell'8 agosto 2016
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