Il baritono George Gagnidze a Fattitaliani: “L’Italia è la culla del mio repertorio”. L'intervista

 


di Giovanni Zambito - Il baritono George Gagnidze, tra le voci verdiane più autorevoli della scena lirica internazionale, si prepara a una nuova intensa stagione artistica che lo vedrà protagonista in Italia e all’estero. Dopo quasi 150 recite al Metropolitan di New York, Gagnidze tornerà nel Belpaese per tre appuntamenti di grande rilievo: Francesca da Rimini al Teatro Regio di Torino, Macbeth al Carlo Felice di Genova e Nabucco al Macerata Opera Festival. Parallelamente, sarà impegnato in importanti produzioni in Germania e Spagna, tra cui Der fliegende Holländer.

A Fattitaliani l’artista ripercorre le tappe fondamentali della sua carriera, racconta il legame speciale con l’Italia e offre preziosi consigli ai giovani cantanti.

Maestro Gagnidze, la sua carriera l’ha portata sui palcoscenici più prestigiosi del mondo, dal Metropolitan di New York alla Scala di Milano. Che cosa significa per Lei tornare così spesso in Italia, Paese a cui è legato fin dagli inizi?

L’Italia è la culla dell’opera lirica e ha dato i natali a più compositori di qualsiasi altra nazione, autori delle opere che costituiscono gran parte del mio repertorio, prevalentemente italiano. Per questo motivo l’Italia ha già di per sé un posto speciale nel mio cuore. Se poi aggiungiamo l’altissima qualità che contraddistingue i suoi teatri, è facile capire perché mi senta così legato a questo Paese e perché vi ritorni sempre con grande piacere. Poi la mia carriera internazionale è cominciata qui in Italia, grazie al Concorso Voci Verdiane di Busseto…

...che ha vinto nel 2025: quanto ha contato quell’esperienza come trampolino verso la scena internazionale?

È stata un’esperienza fondamentale: mi ha fatto conoscere a livello internazionale e mi ha aperto le porte dei più importanti teatri. A quel concorso devo davvero moltissimo. Ho vinto il primo premio, che includeva anche una tournée di concerti con l’Orchestra Toscanini di Parma in Giappone, diretta dal Maestro Lorin Maazel. Questo incontro per me fu decisivo: mi ha aperto tante possibilità per costruire la mia carriera internazionale. Il Maestro Maazel mi ha poi voluto per varie produzioni: grazie a lui ho fatto il mio debutto alla Scala nel 2007 con La traviata, il mio debutto al Palau de les Arts di Valencia con Simon Boccanegra, seguito da Luisa Miller, e il mio debutto a New York con una Tosca in forma di concerto con la New York Philharmonic. In quell’occasione il management del MET ha avuto modo di ascoltarmi. Mi hanno scritturato ed è stato l’inizio del mio rapporto con il MET, dove la prossima stagione canterò la mia 150ª recita!

In ottobre inaugurerà la stagione del Teatro Regio di Torino come Gianciotto in Francesca da Rimini. Come si prepara ad affrontare questo debutto in un ruolo così particolare e poco rappresentato?

In realtà non si tratta di un vero debutto, perché l’ho già cantata a Parigi nel 2011, ancora accanto al mio grandissimo amico Roberto Alagna. Tuttavia, essendo passati così tanti anni e avendola interpretata una sola volta, riprenderla oggi è quasi come affrontarla per la prima volta. È un’opera meravigliosa, che non si mette in scena abbastanza a mio avviso. Poi poterla cantare qui a Torino, il luogo della prima mondiale nel 1914, è davvero un grande privilegio.


In primavera La vedremo a Genova come Macbeth. Cosa rende questo personaggio uno dei vertici del repertorio baritonale e in che modo intende interpretarne le sfumature psicologiche?

Macbeth è un ruolo che pone molte sfide a un baritono, come del resto ogni parte verdiana, e il repertorio di Verdi è la base stessa del mio percorso artistico. Richiede un’estensione molto ampia, un legato impeccabile, un fraseggio ricco e sfumato, grandi dinamiche ed espressività. Lo interpreto da molti anni e ogni nuova produzione mi offre l’occasione di approfondirne la complessità, scoprendo aspetti sempre diversi.
Oltre alle difficoltà vocali, Macbeth è uno dei personaggi più intricati di Verdi sul piano psicologico. All’inizio valoroso soldato, rivela presto una natura fragile, segnata da esitazioni, incubi e paure: ogni delitto accresce la sua angoscia invece di rafforzarlo. È ambizioso ma incapace di dominare la propria brama di potere, alimentata e manipolata da Lady Macbeth. Diventa così un tiranno feroce ma mai sicuro di sé, un uomo che agisce spinto dal timore di perdere ciò che ha conquistato, fino a restare solo, schiacciato dai suoi fantasmi interiori. Sono molto felice di tornare a Genova dopo tanto tempo. Le mie ultime recite al Teatro Carlo Felice risalgono al 2013, sempre con Macbeth, insieme a Maria Guleghina e Roberto Scandiuzzi.

In estate sarà di nuovo protagonista in Nabucco, un ruolo che la accompagna da anni. Che cosa rappresenta per Lei questo titolo e come cambia il suo approccio ogni volta che lo porta in scena?

Anche Nabucco fa parte del mio repertorio sin quasi dagli inizi ed è un ruolo che mi ha regalato sempre grandissime soddisfazioni. Una delle interpretazioni più recenti risale a circa un anno e mezzo fa al Metropolitan di New York, in una produzione trasmessa in HD in tutto il mondo; ma conservo un ricordo particolarmente vivo anche della produzione che inaugurò la stagione 2017 dell’Arena di Verona.
Nabucco, come Macbeth, è un re che alterna momenti di potere assoluto ad altri di estrema fragilità, sebbene la sua parabola sia decisamente meno tragica. Anche in questo caso, la mia interpretazione varia di volta in volta, a seconda dei direttori d’orchestra e dei registi con cui mi trovo a collaborare. Per me Nabucco è quasi un ruolo belcantistico, è una delle prime opere di Verdi. Richiede grande cura del legato e delle grandi linee di canto.

Oltre agli impegni italiani, la attendono produzioni importanti in Germania e Spagna, fino al debutto come Der fliegende Holländer. Quale valore ha per Lei la possibilità di spaziare tra repertorio italiano e tedesco?

L’Olandese Volante è un titolo che avevo affrontato soltanto agli inizi della mia carriera, fino a quando quest’estate non è arrivata l’occasione di interpretarlo in un nuovo allestimento al Festival Oper im Steinbruch. Non posso quindi dire di aver diviso in maniera equilibrata la mia attività tra repertorio tedesco e italiano, poiché è quest’ultimo a costituire la vera base del mio percorso artistico. Tuttavia, l’esperienza austriaca è stata entusiasmante: mi ha fatto capire che si tratta di un ruolo perfettamente congeniale alle mie possibilità e che sicuramente riprenderò. Infatti, è già previsto nel mio calendario al Teatre Principal de Palma il prossimo febbraio.

Lei è stato più volte interprete di Scarpia, Rigoletto, Germont, Amonasro e tanti altri ruoli iconici. Come sceglie i personaggi da affrontare e quali criteri guidano oggi le sue decisioni artistiche?

Devo dire che sono stato fortunato: sin dagli inizi della mia carriera i teatri e i miei agenti mi hanno sempre proposto ruoli adatti alla mia vocalità. Non ho mai dovuto affrontare parti non confacenti alle mie caratteristiche, e questo fin dall’inizio, cosa che non accade a tutti. Ho potuto avviare la mia carriera, sia in Germania, negli ensemble di Osnabrück e Weimar, sia a livello internazionale, soprattutto con il repertorio italiano, sempre perfettamente adatto alla mia voce. È vero che a Osnabrück e Weimar ho interpretato anche ruoli del repertorio tedesco, come Der fliegende Holländer o Jochanaan in Salome, ma la mia carriera internazionale si è sviluppata soprattutto con il repertorio italiano, con alcune incursioni in quello russo e francese. Oggi, dopo vent’anni di carriera, sento di essere pronto ad ampliare il mio repertorio con alcuni nuovi ruoli, anche del repertorio tedesco.

Quali qualità ritiene fondamentali per un baritono che voglia affrontare i grandi ruoli verdiani e pucciniani?

Le qualità richieste da Verdi sono indubbiamente diverse da quelle necessarie nei ruoli pucciniani che ho affrontato, Michele ne Il tabarro e soprattutto Scarpia. Verdi rappresenta un vero banco di prova per ogni registro, ma in particolare per il baritono, la corda che egli ha prediletto e alla quale ha dato un contributo senza paragoni. Per interpretarlo servono una tecnica impeccabile e un fraseggio estremamente curato. Mi accosto a lui con la massima venerazione, come a ogni compositore del resto, ma con la consapevolezza che Verdi ha fatto qualcosa di unico per la voce baritonale.
La sua scrittura presenta spesso una tessitura più acuta rispetto a ruoli come Scarpia o Jack Rance. Affrontare Verdi richiede dunque una tecnica solidissima unita a una forte intensità interpretativa: è fondamentale trovare il giusto equilibrio tra rigore tecnico-vocale ed espressività, tra musica e scena. Grazie a questo, per esempio, ho cantato Rigoletto quasi 150 volte. Accanto a questo ruolo, il mio repertorio verdiano comprende anche Macbeth, Simon Boccanegra, Nabucco, Falstaff, Miller in Luisa Miller, Posa in Don Carlo e Renato in Un ballo in maschera.
In Puccini, invece, si può fare maggior affidamento sull’aspetto scenico-drammaturgico, sempre relativamente parlando, perché senza una buona tecnica non si può cantare nulla.


Lei ha cantato con direttori e registi di fama mondiale, da Stein a Zeffirelli. Che cosa ha imparato dalle collaborazioni con grandi maestri e come queste esperienze hanno plasmato la sua arte?

Ogni direttore d’orchestra e regista con cui ho collaborato mi ha lasciato qualcosa. È naturale che con alcuni abbia condiviso maggiormente la lettura scenico-musicale di un ruolo rispetto ad altri, e che con certi mi sia sentito più in sintonia. Ma da ciascuno si impara sempre qualcosa. Alcuni hanno lasciato un’impronta più profonda per la durata della collaborazione, altri perché hanno avuto un ruolo fondamentale nel mio percorso: penso, ad esempio, a Lorin Maazel, che ha creduto profondamente in me e mi ha offerto occasioni preziosissime agli inizi della mia carriera.

Se dovesse lasciare un messaggio ai giovani cantanti che aspirano a una carriera internazionale, quale consiglio darebbe loro?

Non credo di rivelare nulla di inedito dicendo che occorre studiare con grande impegno, acquisire una solida tecnica, individuare il repertorio davvero adatto alla propria voce, anche con l’aiuto di chi ha più esperienza, procedere un passo alla volta, imparare dagli inevitabili errori e, soprattutto, mantenere sempre molta umiltà. Penso che i due consigli più importanti siano di avere pazienza e di non cantare ruoli drammatici troppo presto.

Photos Credit: Dario Acosta

Fattitaliani

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