Chiara Rapisarda, regista, sceneggiatrice e fotografa: un viaggio tra visione, parola e immagine

 


Chiara Rapisarda, regista, sceneggiatrice e fotografa, si racconta. INTERVISTA di Andrea Giostra.

Autrice dalla sensibilità profonda e dalla formazione eclettica, Chiara Rapisarda si muove con naturalezza tra fotografia, cinema e scrittura, intrecciando i linguaggi artistici in un dialogo continuo. Regista, sceneggiatrice e fotografa, la sua ricerca si nutre di riferimenti colti e visionari: dal cinema di Bergman e Tarkovskij, all’estetica romantica e simbolica, fino alla riflessione contemporanea sull’immagine e sulla memoria.

Nata in Sicilia, con una formazione tra Roma e Parigi, Chiara ha costruito un percorso personale che unisce rigore tecnico e libertà poetica. Il suo sguardo si posa sui dettagli, sui silenzi e sulle emozioni interiori, trasformandoli in immagini dense e suggestive.

In questa conversazione, Chiara Rapisarda si racconta in prima persona: dalle origini della sua passione per il cinema e la fotografia, alla sua idea di bellezza e responsabilità artistica; dal rapporto tra arte e vita, fino ai progetti cinematografici e fotografici attualmente in corso. Un viaggio nel suo universo creativo, tra memoria, sogno e ricerca.

Ciao Chiara, benvenuta e grazie per aver accettato il nostro invito. Come ti vuoi presentare ai nostri lettori? Chi è Chiara fotografa, sceneggiatrice e regista di cinema?

Grazie a voi per questo spazio di dialogo: in realtà non esiste una separazione netta tra le esperienze artistiche, l’una confluisce nell’altra e a sua volta se ne alimenta per nuovi percorsi, come in un continuum perpetuo. La mia esigenza nasce, difatti, da una dimensione fortemente visiva, in cui le parole sono sempre più scarne e si offrono piuttosto alla sottrazione e ai silenzi. 

…chi è invece Chiara Donna nella sua quotidianità, al di fuori dal lavoro e dalla sua passione per l’arte della fotografia, della scrittura e del cinema? Cosa puoi raccontarci di te?

Rivendico una natura fortemente legata all’epoca del primo Romanticismo europeo, in cui Arte e Vita appaiono pressoché inscindibili e si articolano intorno all’opera totale. Tutto è potenzialmente arte attorno a me e la mia quotidianità è intrisa di pre-testi di creatività. Due città sono comunque centrali per la mia formazione tecnica e umanistica, Roma, dove ho studiato storia del cinema e Parigi che mi ha offerto la magnifica opportunità degli incontri con Richard Kalvar e la Magnum con un reportage sulla rappresentazione distopica dei manichini. La Sicilia, invece, è il luogo del cuore e dell’ispirazione, con i suoi paesaggi ossimorici e i suoi ruderi colmi di Storia e di storie.

Come e quando è nata la tua passione per la fotografia, il cinema e le arti visive in generale?

La porta di ingresso al cinema è stata la visione del film Il posto delle Fragole, di Bergman, che mi ha lasciata come folgorata per la forza evocativa delle immagini oniriche. Poi è stata la volta dei film ungheresi (come il cinema di Béla Tarr) o russi, penso innanzi tutto a A. Sokurov e A. Tarkovskij con la straordinaria potenza delle visioni interiori, in grado di scavare nella memoria e riportare alla luce emozioni sepolte.

Qual è il tuo percorso accademico, formativo, professionale ed esperienziale che hai seguito e che ti ha portato a fare quello che fai oggi nella tua professione artistica?

La formazione teorica è uno snodo determinante, percorrere la storia del cinema italiano, europeo e dell’Est mi ha permesso di vedere l’Architettura registica dalle fondamenta e guardare alle problematiche estetiche e sociali. Il DAMS di Roma Tre e i master di specializzazione mi hanno fornito molti strumenti di decodificazione ma il vero apprendistato è scendere in campo e mettersi in gioco, a tutti i livelli: come manovalanza, aiuto regia, sceneggiatrice, fotografa di backstage e regia vera e propria. Ogni esperienza mi ha insegnato una prospettiva importante e imprescindibile.

A proposito dell'arte della fotografia Alberto Moravia sosteneva che: «Il fotografo non guarda la realtà, ma la fotografa. Poi va in camera oscura, sviluppa il rullino e solo allora la guarda.» A quel punto la realtà non c'è più, ma c'è la rappresentazione della realtà che ne ha fatto il fotografo. Se è vero quello che disse Moravia, è come se il fotografo alterasse la realtà creandone una tutta sua, una realtà parallela, virtuale per certi versi, il fotografo in questo modo diventa artista che crea arte. Qual è il tuo pensiero in proposito riprendendo le parole di Moravia?

Io sono una fautrice del pensiero di Barthes de La Chambre claire, in cui la camera, focalizzata nella sua origine etimologica latina, diventa il luogo della percezione precisa del reale ma per trovare l’evidenza di quello che chiamiamo reale, l’artista è costretto a scendere nel più profondo di sé. Lentamente ma inesorabilmente il registro allora si altera e dal livello scientifico e colto scende verso quello intimo e personale, autobiografico ed esistenziale. Così intendo l’atto del fotografare, un incontro folgorante tra metodo e intuizione, tra tecnica e immaginazione, mestiere e ricerca di sé, attraverso la realtà esterna.

Conoscerai certamente un’antica credenza secondo la quale “la fotografia ruba l’anima”. Oliviero Toscani, che di fotografia se ne intendeva parecchio, in una intervista rilasciata diversi anni fa ad Assisi presso il Convento di San Francesco dov’era per visitarlo, disse che «Forse è per questo che tante persone che sono troppo fotografate rischiano di diventare vuote dentro. Tante top model, tanti uomini famosi sono vuoti … la fotografia di fatto ruba il luogo della libertà, l’energia che ci fa vivere e andare avanti … e quindi, da questa prospettiva, chi scatta una foto deve sentirsi addosso una responsabilità pesante come un macigno … la responsabilità è nel capire che la fotografia ritrae le persone per quello che sono. Per questo bisogna stare attenti a documentare con serietà. Io posso dire che mi domando sempre se ho sufficienti cultura e capacità per raccontare e testimoniare il tempo che sto vivendo». Tu da artista della fotografia e da regista cinematografico, che avrai fotografato e filmato tantissimi artisti, cosa ne pensi delle parole di Toscani? Davvero essere tanto fotografati può rubare l’anima tanto da diventare vuoti dentro? Che riflessione faresti, alla luce della tua esperienza, rispetto a quello che disse Toscani in proposito?

Mi fa pensare che l’arte della fotografia può solo restituire senso e mai toglierlo, i ritratti magnifici di Felix Nadar ne sono una testimonianza, con le gallerie dei più grandi artisti e scrittori del suo tempo. I ritratti sono delle vere e proprie narrazioni di vita e di pensiero. Ciò che è già vuoto può riflettere solo la superficie, i Portraits di Nadar, di Sarah Bernhardt ad esempio per restare in tema di spettacolo, ci aprono un universo prismatico sull’invisibile attraverso la forma.

«… mi sono trovato più volte a riflettere sul concetto di bellezza, e mi sono accorto che potrei benissimo (…) ripetere in proposito quanto rispondeva Agostino alla domanda su cosa fosse il tempo: “Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so.”» (Umberto Eco, “La bellezza”, GEDI gruppo editoriale ed., 2021, pp. 5-6). Per te cos’è la bellezza? Prova a definire la bellezza dal tuo punto di vista. Come si fa a riconoscere la bellezza secondo te?

Direi che mi trovo a mio agio nel solco di Sant’Agostino per il quale bellezza, pulchritudo, è un insieme inscindibile di armonia, equilibrio e grazia. Poi il concetto è stato ripreso nella cultura moderna, traducendolo in vari aspetti e penso a Dostoevskij, Baudelaire, Thomas Mann, a seconda della prospettiva dalla quale si guarda ma la bellezza agostiniana unisce mirabilmente il senso estetico e quello mistico, esterno e interno combaciano ed emanano la stessa luce. Cerco sempre di ritrovarla, anche se a volte sembra solo una fiammella… speranza di luce.

«Io vivo in una specie di fornace di affetti, amori, desideri, invenzioni, creazioni, attività e sogni. Non posso descrivere la mia vita in base ai fatti perché l’estasi non risiede nei fatti, in quello che succede o in quello che faccio, ma in ciò che viene suscitato in me e in ciò che viene creato grazie a tutto questo… Quello che voglio dire è che vivo una realtà al tempo stesso fisica e metafisica…» (Anaïs Nin, “Fuoco” in “Diari d’amore” terzo volume, 1986). Cosa pensi di queste parole della grandissima scrittrice Anaïs Nin? E quanto l’amore e i sentimenti così poderosi sono importanti per te e incidono nella tua arte?

Prendiamo Tarkovskij come esempio. Nei suoi film non è la storia in sé a colpirci, ma tutto ciò che ci fa sentire. Ogni immagine, il suono dell’acqua, il vento tra gli alberi… tutto contribuisce a trasmettere emozioni. È la sensorialità che ci mette in contatto con linteriorità dei personaggi e, insieme, con i nostri sentimenti.

E credo che sia questo il motivo per cui facciamo arte… non per documentare la realtà, ma per dare voce e forma a ciò che sentiamo. Creare significa prendere quello che è dentro di noi e renderlo tangibile, far sì che qualcun altro possa provare, anche solo in parte, quello che abbiamo vissuto. Senza questa dimensione emotiva, larte non sarebbe completa.

Charles Bukowski, grandissimo poeta e scrittore del Novecento, artista tanto geniale quanto dissacratore, in una bella intervista del 1967 disse… «A cosa serve l’Arte se non ad aiutare gli uomini a vivere?» (Intervista a Michael Perkins, Charles Bukowski: the Angry Poet, “In New York”, New York, vol 1, n. 17, 1967, pp. 15-18). Tu cosa ne pensi in proposito. Secondo te a cosa serve l’Arte della recitazione, del teatro, del cinema, ma anche della narrazione, del raccontare, dello scrivere?

A vedere le cose di ogni giorno in modo sempre nuovo per trovarne l’intima ragione, l’essenza fuggevole, il passaggio impercettibile del tempo o la minima variazione nello spazio. Aggiungerei che l’arte aiuta a vivere in modo più consapevole.

«… facendo dei film non mi propongo altro che di seguire questa naturale inclinazione, raccontare cioè col cinema delle storie, storie che mi sono congeniali e che mi piace raccontare in un’inestricabile mescolanza di sincerità e di invenzione, di voglia di stupire, di confessarsi, di assolversi, di desiderio spudorato di piacere, di interesse, di far la morale, il profeta, il testimone, il clown… di far ridere e commuovere.» (Federico Fellini, “Fare un film”, Einaudi ed., Torino, 1980, p.48). Cosa ne pensi di queste parole di Fellini? Cos’è per te fare un film, partecipare ad una produzione cinematografica? Cosa arriva allo spettatore secondo te? Dicci il tuo pensiero a partire dalle parole di Federico Fellini…

A Fellini ho dedicato una parte essenziale dei miei studi, confluiti poi nella tesi di laurea dove ho cercato di capire la sua eredità attuale, parcellizzata in diversi modi, attraverso i vari registi. L’elemento che mi unisce fortemente alla sua poetica è certamente il sogno, sia in stato di veglia che a livello onirico, ossia la rielaborazione di immagini interiori, apparentemente senza collegamento logico. Mi viene in mente soprattutto 8 e mezzo. Quando ritorno a quelle visioni, penso sempre di interpretarle attraverso i magistrali testi di Bachelard sugli elementi, in particolare la poetica della rêverie e Psicanalisi dell’aria, con la rappresentazione dell’ascesa ad altissima frequenza collegata alla dinamica del sonno.

La costruzione filmica appare sempre in verticale, come se la paura della caduta (nel reale, della realtà?) fosse tenuta a distanza grazie al materiale onirico.

«Ti criticheranno sempre, parleranno male di te e sarà difficile che incontri qualcuno al quale tu possa piacere così come sei! Quindi vivi, fai quello che ti dice il cuore, la vita è come un'opera di teatro, ma non ha prove iniziali: canta, balla, ridi e vivi intensamente ogni giorno della tua vita prima che l'opera finisca priva di applausi.» Fu Charlie Chaplin (1889-1977) a dire queste parole. Tu cosa ne pensi?

Credo che la fedeltà a noi stessi sia la misura più alta della nostra esistenza. Ciò che conta non è lapprovazione altrui, ma lautenticità con cui siamo presenti a noi stessi e al mondo. Vivere con questa consapevolezza significa accettare il rischio, confrontarsi con il fallimento e, al tempo stesso, dare voce a ciò che sentiamo nel profondo.

Raccontaci di qualcuno dei tuoi recenti lavori da regista e sceneggiatrice. Come ne parleresti ai nostri lettori? Quali sono quelli che vuoi ricordare in questa intervista e perché proprio questi? Raccontaci qualche aneddoto di questi lavori che faccia incuriosire i nostri lettori.

Tra i miei lavori recenti, ricordo con particolare affetto il cortometraggio La Veglia”, ispirato al Decalogo 4 di Kieślowski e reinterpretato secondo la mia visione personale. Ho voluto creare unatmosfera di intimità ed empatia con i personaggi, ambientando la storia all’interno di una veglia funebre. La trama segue due fratelli, Anna e Franco, costretti a confrontarsi con tensioni familiari mai risolte durante la veglia della madre. Lapertura di un vecchio diario scatena rivelazioni e conflitti, mentre io stessa utilizzavo la macchina da presa per indagare ed esplorare i loro sentimenti. È una storia di rapporti privati e dinamiche nascoste, in cui il non detto emerge con forza. Mi piace molto utilizzare la macchina da presa come strumento di ricerca: il cinema è tante cose, di sicuro non solo sceneggiatura, e spesso è utile distaccarsene per dare spazio alla visione e all’immagine. Prediligo la camera a mano proprio per valorizzare quest’idea di esplorazione. Mi interessano le dinamiche estreme che mettono i personaggi all’angolo, perché è in quei momenti che emerge con più forza la verità.

… e di qualcuno dei tuoi Reportage fotografici in giro per il mondo? Parlaci di qualcuno di questi lavori.

Ho realizzato diversi reportage sulle tradizioni in Francia, Portogallo e Marocco. Questultimo in particolare è stato difficile ma anche molto interessante, perché cercavo somiglianze con lentroterra della Sicilia: i carretti per le vie, gli asini, le donne ricoperte fino al capo … è una realtà che conosco bene e che, in alcune zone dell’entroterra siciliano , sembra restare ferma nel tempo. La raccolta si intitola Maroc en route. Sono poi tornata altre volte, anche in Tunisia, per raccontare il processo di modernizzazione, ma adesso mi muovo su unaltra direzione: mi concentro sulla forma astratta e sulla sperimentazione fotografica, usando tecniche di sovrimpressione. Mi piace giocare con le immagini per cercare qualcosa di personale.

Se dovessi immaginare tre grandi registi del passato con i quali lavorare a chi penseresti e perché proprio loro?

Ingmar Bergman in primis, il suo cinema mi attrae visceralmente; la capacità di costruire tensioni invisibili, di far emergere fragilità, colpe, desideri repressi attraverso i volti e gli sguardi dei suoi attori. Lavorare con lui significherebbe imparare a trasformare il silenzio in racconto.

Andrej Tarkovskij è il mentore della poesia sensoriale che imprime magistralmente ad ogni scena. Utilizza la macchina da presa come estensione dei personaggi, dei loro pensieri, delle loro emozioni. I suoi film sono un viaggio nel tempo, nella memoria, nei sogni. Il cinema che ha realizzato è unesperienza di contemplazione e ricerca universale, dove il senso di ogni cosa diventa percezione totale, fisica e spirituale.

E Robert Bresson… con lui vorrei confrontarmi con lessenzialità, far emergere la verità dei personaggi. Ogni gesto conta, niente è superfluo. Ti costringe a guardare oltre la superficie e a cogliere ciò che è essenziale.

Chi sono i tuoi autori preferiti, gli scrittori, i saggisti che hai amato leggere e che leggi ancora oggi? Consiglia ai nostri lettori almeno tre libri    da leggere nei prossimi mesi dicendoci il motivo della tua scelta.

Sono tanti i maestri che ho in mente, ma tra gli autori che amo di più ci sono sicuramente Cormac McCarthy, con la sua scrittura asciutta e poetica che ti avvolge in una morsa di bellezza e violenza insieme. Raymond Carver osserva i dettagli quotidiani, apparentemente ordinari, e ne sgretola le regole, mostrando ciò che si nasconde dietro i gesti più piccoli. Calvino continua a sorprendermi: leggerlo significa aprire la mente a mondi possibili, giocare con il fantastico senza perdere il senso della realtà. Sciascia ha questa lucidità morale che ti fa osservare le contraddizioni umane in modo nitido e implacabile. E Philip K. Dick… beh, è il mio primo punto di riferimento per il film che sto scrivendo, di carattere fantascientifico e psicologico. Andiamo molto daccordo sulla scelta di dialoghi serrati, e mi interessa soprattutto il modo in cui spinge il lettore a interrogarsi su ciò che è reale e ciò che è artificiale.

Carver mi ha insegnato la forza delle parole essenziali; con poche frasi riesce a far emergere tutta lintimità e le tensioni nascoste nelle vite comuni.

… e tre film da vedere assolutamente? Quali e perché proprio questi?

Difficile sceglierne solo tre. Ho parlato di autori per me fondamentali come Bergman, Tarkovskij, Sokurov, ma c’è anche una contemporaneità molto interessante. Penso al cinema di Paul Thomas Anderson con The Master o Il filo nascosto, a Céline Sciamma con Portrait de la jeune fille en feu o Petite Maman, e a Christian Petzold con Undine. Molti film così non arrivano facilmente al grande pubblico, e trovo che sia un peccato che le nuove generazioni vadano poco al cinema e scelgano i contenuti solo tramite piattaforme, dove non è sempre semplice trovare opere così intense e potenti.

A cosa stai lavorando in questo momento e cosa puoi dirci dei tuoi lavori fotografici e cinematografici in corso?

In questo momento sto lavorando al mio lungometraggio d’esordio, un progetto a cui sono profondamente legata. La storia si sviluppa in una dimensione distopica e mi permette di affrontare temi delicati e universali come la maternità e il dialogo tra antico e moderno. Non si tratta soltanto di un racconto, ma di una visione sperimentale: un intreccio di immagini e simboli che punta a mettere in relazione l’universo sensoriale e la ricerca formale, per aprire spazi di riflessione sul senso della vita. 

Come vuoi concludere questa chiacchierata e cosa vuoi dire a chi leggerà questa intervista?

Con una citazione da Les Fleurs du Mal: “custodisci i tuoi sogni, i saggi non ne hanno di così belli come i pazzi”.

Chiara Rapisarda

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https://www.cinemaitaliano.info/pers/111375/chiara-rapisarda.html

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