Fantascienza e Mito: Un viaggio con Alfonso Siracusa Orlando, l’artista che vede l’alieno in tutti noi. L'intervista di Fattitaliani



In un mondo in cui i confini tra realtà e immaginazione si fanno sempre più labili, l’arte di Alfonso Siracusa Orlando offre una prospettiva unica e provocatoria. Le sue opere, che spaziano dalla pittura all’installazione site specific, esplorano un universo in cui la fantascienza incontra la politica, e il mito si fonde con la cronaca. Attraverso figure aliene, portali dimensionali e cieli drammatici, l’artista ci invita a riflettere sulla nostra identità e sulla nostra capacità di accogliere l’altro.

Abbiamo avuto il piacere di intervistare l’artista in occasione della sua mostra MEGAGALATTICO: The Sky Above Siculiana (2025), un’esposizione che promette di essere un’esperienza sensoriale e intellettuale. Nato nel 1963, Siracusa Orlando vive e lavora a Siculiana, in bilico tra radici e visioni cosmiche.


Alfonso, la sua ricerca artistica si muove sin dal 1989 tra fantascienza, politica e mito. Come sono nate queste tre direttrici?

Sono elementi che si sono fusi naturalmente nel mio lavoro. La fantascienza mi ha sempre affascinato perché, in fondo, non parla del futuro, ma del presente. Le figure aliene e le astronavi non sono altro che proiezioni delle nostre paure e delle nostre speranze.

Il mito, invece, mi permette di attingere a un immaginario collettivo profondo, come quello degli Anunnaki, per creare ponti tra passato e futuro.

E la politica, beh, è inevitabile. L’arte non può e non deve essere avulsa dalla realtà. Il mio lavoro, in un certo senso, è una risposta visiva e installativa alle tensioni del nostro tempo.


Tra le sue opere più iconiche c’è Landscape (1990), un’opera che sembra anticipare molti temi attuali. Come è nata l’idea di sovvertire un genere classico come il paesaggio con elementi fantascientifici?

Landscape è stata una delle prime opere in cui ho capito di voler andare oltre i confini della pittura tradizionale. All’epoca, l’ufologia era ancora un tema di nicchia nell’arte, ma io sentivo che quei cieli drammatici, quelle luci verticali e quei dischi volanti erano la mia risposta al romanticismo di Caspar David Friedrich, per esempio.

Non volevo dipingere un paesaggio idilliaco, ma una soglia, un punto di contatto tra il mondo che conosciamo e quello che ci osserva. Le finestre circolari, i piccoli dipinti inseriti nell’installazione, sono una metafora di questa apertura, di questa visione.


In opere come Anunnaki (2012) e Puberty (2025) emerge un interesse per la trasformazione e l’identità. L’alieno, in questo senso, diventa un simbolo del cambiamento?

Assolutamente sì. In Anunnaki, attingo alla mitologia sumera e alle teorie degli “antichi astronauti” per rappresentare un’installazione che è un viaggio cosmico e interiore. I portali, la ciclicità, sono elementi che mi accompagnano da sempre e che qui diventano visibili.

In Puberty, invece, mi diverto a ironizzare sul tema della trasformazione corporea e identitaria. Attorno alla figura, ho voluto far fluttuare, come in una danza caotica o in un campo magnetico, delle coppie di gusci di cozze. È una scelta che può sembrare assurda a prima vista, ma per me è carica di significati simbolici e ironici. Le valve bivalvi, con i loro riflessi cangianti, mimano gli occhi alieni: li moltiplicano, li disseminano nello spazio, creando una proliferazione di sguardi, di giudizi, di aspettative. Ma c’è di più. Il riferimento al mollusco — umile, quotidiano, organico — introduce una vena provocatoria. Mi interessava sfidare con garbo le letture più retoriche del corpo e della trasformazione puberale, aggiungendo un elemento che fosse al tempo stesso ironico e disarmante.

L’alieno non è più un visitatore esterno, ma una parte di noi stessi, del nostro processo di crescita. Il riferimento a “Munch” è voluto, ma ribaltato: non c’è pathos, ma gioco e metamorfosi. L’alieno potremmo essere noi, in un processo continuo e instabile di scoperta di sé.

Con My Stepmother is an Alien (2025), il suo lavoro assume una forte connotazione politica. Quali riflessioni intende stimolare con un’opera così densa di simboli?

Questa è un’opera che mi sta molto a cuore. Ho voluto unire la memoria, rappresentata dall’abito da sposa degli anni ’50, con la fantascienza e la politica del nostro tempo. La figura femminile con il volto alieno diventa l’emblema di una doppia alterità: quella di genere e quella d’origine. L’aggiunta della coperta termica dorata richiama in modo esplicito le crisi migratorie, mentre la cassa di legno simboleggia il controllo patriarcale. L’opera è una critica potente, una rilettura della figura femminile come corpo migrante, simbolo tra celebrazione e crisi. È una domanda aperta su come gestiamo l’incontro con chi arriva da lontano, con chi è diverso.


Infine, l’installazione che dà il titolo alla mostra, The Sky Above Siculiana (2025), è un omaggio a Wim Wenders. Quale legame c’è tra il cielo di Berlino e quello del borgo siciliano?

Il legame è profondo e intimo. Il cielo sopra Berlino (1987) è un film straordinario, Wim Wenders l’ho conosciuto proprio qui, a Siculiana, un luogo che per me è sempre stato un crocevia tra cinema, memoria e Mediterraneo.

L'opera nasce dal desiderio di espandere la mia ricerca nel paesaggio urbano e atmosferico. Ho immaginato un’installazione luminosa, site-specific, capace di attivare lo sguardo e allo stesso tempo di sorprendere, come un incontro inaspettato.

Per me è importante che l’opera non sia chiusa in uno spazio museale, ma che accada nel mondo. Il cielo sopra Siculiana è un evento sospeso, una visione che si manifesta nel quotidiano. Mi interessa ciò che succede quando un simbolo della cultura pop — come un UFO — entra nella realtà, nel vissuto collettivo, e genera domande: cosa stiamo guardando? È reale? È arte?

In questo senso, l’installazione diventa un dispositivo relazionale: non chiede di essere contemplata, ma semplicemente incontrata. È un’opera che appartiene al paesaggio e a chi lo attraversa.

Siculiana, come margine d’Europa e punto d’approdo, diventa il palcoscenico ideale per questa riflessione.

L’opera si ricollega a miei lavori precedenti come Extra (2014) e Il Cristo Nero (2021), che pongono la stessa domanda radicale allo spettatore: siamo ancora capaci di riconoscere l’altro?

È una domanda che oggi, più che mai, ha bisogno di una risposta


L'artista con Peppe Zambito, Sindaco di Siculiana (AG)

Fattitaliani

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