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"Il cinema non è morto, ha solo cambiato casa." Jean-Luc Godard
In un’epoca in cui i festival rincorrono like e tendenze, la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia si conferma come l’ultimo baluardo di un’idea alta e necessaria di cinema. La 82ª edizione, in programma dal 27 agosto al 6 settembre, si preannuncia densa di visioni potenti, sguardi autoriali, storie che non si piegano al conformismo dell’intrattenimento.
A differenza di Cannes, ormai sempre più ossessionata dalla grandeur e meno attenta al rischio artistico, o di Roma, ancora alla ricerca di una vera identità tra red carpet e streaming, Venezia sembra voler difendere il suo statuto originario: essere una mostra, non una fiera; un confronto, non uno spettacolo; una mappa, non uno specchio.
Una selezione che promette profondità e varietà
L’apertura con La grazia di Paolo Sorrentino – già Premio Oscar – è solo il primo segnale. A rappresentare l’Italia ci saranno anche Duse di Pietro Marcello, biopic sulla diva Eleonora Duse con Valeria Bruni Tedeschi, il nuovo documentario di Gianfranco Rosi Sotto le nuvole, e After the Hunt di Luca Guadagnino, storia in tema #MeToo con Julia Roberts, Andrew Garfield e Ayo Edebiri.
Marco Bellocchio porterà in anteprima una serie su Enzo Tortora, mentre Antonio Capuano sarà fuori concorso con Hungry Bird, legal drama intimo e teso. Il cinema italiano si conferma così radicato nel presente, ma capace di raccontarlo con voce autonoma.
Alle Giornate degli Autori spiccano titoli come Confiteor di Bonifacio Angius, mentre nella sezione Orizzonti arriveranno Un anno di scuola di Laura Samani e Il rapimento di Arabella di Carolina Cavalli. A completare il quadro, film come La valle dei sorrisi di Paolo Strippoli e Elisa di Leonardo Di Costanzo, testimoniano un panorama nazionale vivo, irrequieto, creativo.
Il mondo arriva al Lido, ma non lo travolge
Il Lido accoglierà anche nomi giganteschi della scena internazionale, ma non si lascia travolgere da essi. The Smashing Machine di Benny Safdie con Dwayne Johnson ed Emily Blunt, Bugonia di Yorgos Lanthimos con Emma Stone, Couture di Alice Winocour con Angelina Jolie e Father Mother Sister Brother di Jim Jarmusch con Cate Blanchett e Adam Driver: titoli d’autore con cast da blockbuster, sì, ma tutti accomunati da un’impronta personale e mai derivativa.
Netflix sarà presente ma non dominante, con opere come Jay Kelly di Noah Baumbach, Frankenstein di Guillermo del Toro e A House of Dynamite di Kathryn Bigelow, a dimostrazione che la piattaforma può ancora sostenere cinema di visione, quando sceglie autori veri.
Tra le opere più attese anche The Wizard of the Kremlin di Olivier Assayas, sulla scalata al potere di Putin, e In the Hand of Dante di Julian Schnabel, girato in Italia con un cast che include Al Pacino, Jason Momoa, Martin Scorsese e Oscar Isaac.
Locarno e Toronto: due festival che parlano al futuro
Se Venezia rappresenta l’eccellenza tra i grandi, Locarno e Toronto si impongono come modelli di resistenza culturale. Il festival svizzero è ormai il luogo per eccellenza del cinema che osa, che sperimenta, che cerca. Tra la programmazione coraggiosa e la sua iconica Piazza Grande, Locarno resta un rifugio per chi crede che il cinema debba ancora sorprendere.
Toronto, più grande e strutturato, riesce nell’impresa di tenere insieme industria e qualità. Il TIFF è oggi l’anello di congiunzione tra il cinema indipendente e quello che cerca un pubblico globale. È il festival che guarda al futuro senza rinnegare il presente, che offre visibilità ai film ma non sacrifica la sostanza.
Bellaria, Roseto e i piccoli festival: dove il cinema respira davvero
Non si può dimenticare Bellaria Film Festival, piccolo ma fondamentale, dedicato al documentario e al racconto della realtà. È qui che il cinema si fa ancora gesto, ricerca, testimonianza. In un’Italia sempre più accentrata, Bellaria ricorda che la cultura vive nei margini, nei territori, nei silenzi. E che il documentario non è genere, ma linguaggio politico.
Merita una riflessione anche il caso del Roseto Opera Prima Film Festival, nato con ambizioni importanti e una visione chiara: valorizzare gli esordi cinematografici, scoprire le nuove voci. E per un periodo ci era riuscito: tra i suoi vincitori iniziali nomi come Ferzan Özpetek, Paolo Sorrentino, Daniele Vicari e Giorgio Diritti. Poi, inspiegabilmente, il declino. Dopo un avvio glorioso, dal 2016 il festival si è perso in un silenzio che sa di resa. Una grande occasione mancata per il cinema italiano, soprattutto oggi, quando di nuovi autori c’è più bisogno che mai.
I David di Donatello: l’occasione mancata del cinema italiano
In questo panorama vivo e vitale, spicca invece per immobilismo e autoreferenzialità il David di Donatello, che da anni premia ciò che è già visibile, ciò che è già distribuito, ciò che è già stato deciso altrove. Un premio che dovrebbe rilanciare il cinema italiano si limita a riconfermare le sue rendite di posizione, premiando spesso i soliti noti e dimenticando chi davvero innova e resiste.
Serve un cambiamento radicale: serve che i David si guardino intorno, che vadano a Locarno, che passino da Bellaria, che riscoprano il coraggio di premiare l’invisibile. E magari che si chiedano perché un festival come Roseto, che aveva visto lungo, non sia stato mai davvero sostenuto.
L’auspicio: che Venezia non ceda alla deriva degli altri
Che Venezia resti se stessa. Che non diventi Cannes, fatta di apparenze e compromessi. Che non insegua Roma, festival di facciata ancora alla ricerca di una voce. Che non sacrifichi la selezione alla presenza delle piattaforme. Che resti un luogo di sguardi, di conflitti, di poesia. Che resti fedele al cinema.
E che i suoi fratelli minori — Locarno, Toronto, Bellaria, e un giorno forse di nuovo Roseto — continuino a essere scintille. Perché nel buio del presente, è proprio da quei piccoli fuochi che può rinascere la luce del grande cinema.
Carlo Di Stanislao