Nel cuore della crisi dell’Europa moderna, quando la civiltà illuminista mostrava le prime crepe e le forze oscure dell’irrazionale si facevano strada tra le macerie della fiducia nella ragione, due pensatori straordinari — Thomas Mann e Sigmund Freud — seppero cogliere, ciascuno a suo modo, la sostanza profonda della malattia europea. Con La montagna incantata (1924) e Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), entrambi offrirono una diagnosi impietosa ma lucidissima della deriva dell’Occidente. Non semplici opere di narrativa o psicoanalisi, ma profetici strumenti di lettura del presente, capaci di svelare il volto nascosto della crisi culturale e politica del Novecento.
Nel raffinato e inquietante sanatorio del Berghof, sulle Alpi svizzere, Thomas Mann ambienta un microcosmo apparentemente estraneo al mondo, ma in realtà più che mai connesso con la realtà storica e culturale del continente. Qui giunge Hans Castorp, giovane borghese tedesco, per una breve visita a un cugino malato. Ma quella che doveva essere una permanenza di tre settimane si trasforma in una reclusione di sette anni. Il tempo, sulla montagna, si dilata, perde significato, diventa una sospensione dell’esistenza, proprio come accade nei momenti di crisi collettiva, quando la storia si arresta e la vita appare in attesa di un evento definitivo, di una catastrofe o di una rivelazione.
Il Berghof non è solo un ambiente romanzesco, ma una metafora dell’Europa stessa: elegante, colta, decadente, paralizzata dalla consapevolezza del proprio tramonto. Mann lo trasforma in un laboratorio della malattia, dove ogni personaggio incarna un’ideologia, un sintomo, un modo diverso di affrontare — o evitare — il dolore, la morte, la verità.
La sua lezione è chiara: non c’è guarigione senza passaggio attraverso la malattia. Ogni “sanità superiore”, scrive Mann, deve attraversare la conoscenza della malattia e della morte. Il giovane Castorp diventa così il simbolo di una generazione chiamata ad affrontare il crollo dei valori, la crisi dell’identità borghese, il fallimento del mito del progresso.
Questa visione si avvicina straordinariamente al pensiero di Freud, che, con Psicologia delle masse e analisi dell’Io, decostruisce l’illusione dell’autonomia dell’individuo moderno. L’essere umano, quando si fonde nel gruppo, cede al fascino dell’identificazione, si abbandona al capo, rinuncia al pensiero critico, diventa docile e pericoloso al tempo stesso. I meccanismi inconsci che Freud descrive - il bisogno di appartenenza, la paura dell’abbandono, l’odio verso il diverso - sono le fondamenta psicologiche dei totalitarismi che insanguineranno il secolo.
La coincidenza temporale non è casuale: La montagna incantata esce pochi anni dopo il saggio di Freud. E sembra metterne in scena le intuizioni, trasfigurandole in racconto. Là dove Freud analizza, Mann narra. Ma il cuore del discorso è lo stesso: la civiltà occidentale, sedotta da sé stessa, sta per essere travolta dal suo lato oscuro.
I personaggi del sanatorio incarnano queste forze in lotta. Settembrini, portavoce dell’umanesimo razionalista, difende la cultura e la libertà. Ma la sua retorica, spesso pedante, risuona vuota. Dall’altro lato c’è Naphta, gesuita fanatico, nichilista, che predica la distruzione come purificazione. Clawdia Chauchat, sensuale e sfuggente, rappresenta la seduzione dell’irrazionale, del tempo perduto, dell’amore come malattia. Tutto si tiene in equilibrio precario, come una coscienza collettiva sull’orlo della follia.
Ed è proprio qui il punto più doloroso, più attuale, più inquietante della lettura che Massimo Recalcati ci propone: l’Europa resta. Non attraversa l’abisso. Rimane prigioniera del proprio cinismo, della propria stanchezza, della propria estetizzazione del dolore. Preferisce il pensiero alla trasformazione, la contemplazione alla scelta, l’analisi alla responsabilità.
Freud lo sapeva: l’uomo moderno, se non affronta le pulsioni rimosse, se non riconosce i propri fantasmi, finisce per esserne dominato. Così è accaduto nel Novecento. E così — forse — sta accadendo ancora.
Perché oggi, anche oggi, l’Europa è su una montagna incantata.
Guarda i conflitti alle sue porte, i fantasmi del passato che ritornano sotto nuove forme, la stanchezza della democrazia, la paura del futuro. Anche oggi è chiamata a decidere: restare o attraversare l’abisso.
Thomas Mann e Sigmund Freud ci indicano la via, ma non possono percorrerla al posto nostro. Ci hanno donato le parole, i simboli, la coscienza. Tocca a noi, ora, decidere se restare nell’incanto sterile o sporcarci nel cammino della verità.
L’Europa, ancora una volta, è davanti al suo specchio. E l’abisso, silenzioso, la osserva.
E questa incapacità europea — o forse meglio: questa sua impotenza — è tutt’altro che una scoperta recente. Se ne erano accorti, ciascuno su un piano diverso, grandi spiriti della storia del pensiero europeo, da Erasmo a Spinoza, da Giordano Bruno fino a Winston Churchill e persino a Joseph Ratzinger.
Già Erasmo da Rotterdam, umanista ironico e pacifista, denunciava il divorzio tra la cultura e la virtù, tra l’intelligenza e l’azione, mostrando un’Europa dotta ma incapace di riconoscere la propria follia. Il suo Elogio della follia è un atto d’amore e insieme una critica spietata: l’Europa pensa, ma non si converte. Intuisce il male, ma non lo affronta.
Spinoza, più tardi, cerca di fondare una nuova etica basata sulla ragione, su un Dio che coincide con la natura, liberando l’uomo dalla superstizione e dalla paura. Ma proprio per questa libertà radicale viene esiliato, maledetto, isolato. Il suo pensiero, pur lucidissimo, è troppo audace per un’Europa ancora prigioniera della propria paura. Anche qui: la verità si affaccia, ma non viene attraversata.
Giordano Bruno spalanca l’universo: lo rende infinito, instabile, privo di un centro. L’uomo, che si credeva misura di tutte le cose, è gettato nel molteplice, nell’ignoto. Ma il mondo, ancora una volta, risponde con il rogo. Bruno non muore solo per eresia, ma perché ha osato guardare l’abisso cosmico e dirne la verità. E l’Europa, ancora una volta, non ascolta, non segue, punisce.
Nel secolo breve, Winston Churchill capisce che l’Europa ha cultura, ha intelligenza, ma non ha volontà. Di fronte al nazismo, alla minaccia, alla violenza, sceglie il disonore, e avrà anche la guerra. Le sue parole sono tra le più drammatiche e chiare che siano mai state pronunciate sulla viltà politica dell’Europa: incapace di scegliere quando il tempo della decisione è l’unico tempo possibile.
E infine Joseph Ratzinger, teologo e papa, che ha parlato con intensità e dolore di un’Europa spiritualmente esausta, disancorata dalle sue radici, tentata dal nichilismo elegante del relativismo, dalla rinuncia a ogni verità forte. In molti suoi interventi, Ratzinger non rimpiange il passato, ma denuncia il vuoto del presente, l’incapacità di guardare dentro sé stessa con autenticità.
Ma a ben vedere, già il nome "Europa" racconta un destino che oggi sembra smarrito.
Europa, nella mitologia greca, era una principessa fenicia. Un giorno, Zeus, innamorato della sua bellezza, si trasformò in toro bianco e la rapì, portandola via dal suo mondo verso occidente, oltre il mare, verso una terra nuova. Quel rapimento non fu una violenza, ma una trasformazione del destino: Europa divenne la madre di nuove civiltà, simbolo di apertura, di viaggio, di passaggio. Il suo stesso nome significa “colei che guarda lontano”, dalla radice greca eurys (ampio, vasto) e ops (occhio, sguardo).
Ecco perché il suo mito oggi appare tragicamente tradito:
l’Europa del nostro tempo non guarda più lontano. Guarda dentro di sé, si ripiega, si difende.
Rinnega il proprio mito fondativo. Ha dimenticato la sua natura errante, coraggiosa, disposta a perdere l’origine per trovare un senso nuovo. Si è fatta statica, spettatrice, estetica. Ha perso il coraggio dell’attraversamento.
Questi pensatori, questi artisti, questi miti, convergono su una stessa diagnosi:
l’Europa ha sempre avuto un’intelligenza straordinaria del proprio male, ma non ha mai davvero voluto guarire.
E allora la domanda, più che mai attuale, resta sospesa:
quale altra crisi servirà perché l’Europa scelga finalmente di attraversare l’abisso?Oppure resterà, ancora, spettatrice impotente della propria rovina?
Carlo Di Stanislao