Jo Lawson-Tancred, che cosa sta accadendo davvero al mondo dell’arte sotto l’impatto crescente dell’intelligenza artificiale?

 


«La tradizione non consiste nel mantenere le ceneri, ma nel mantenere viva una fiamma.» Gustav Mahler

In un'epoca in cui ogni cambiamento tecnologico viene accolto con entusiasmo quasi religioso, parlare di prudenza sembra un atto di eresia. Eppure è proprio questo lo spirito che anima Intelligenza artificiale e mercato dell’arte di Jo Lawson-Tancred (Johan & Levi, 2025), un saggio breve ma denso che affronta una delle questioni più scottanti del nostro tempo: che cosa sta accadendo davvero al mondo dell’arte sotto l’impatto crescente dell’intelligenza artificiale?

La riflessione prende le mosse da una domanda apparentemente banale, eppure fondamentale: le trasformazioni che stiamo vivendo erano davvero necessarie? E, ancora più profondamente: che cosa ci disturbava tanto del vecchio mondo dell’arte da volerlo sostituire con uno nuovo, dominato da algoritmi, big data e automazione?

Un sistema in crisi o una crisi del sistema?

Lawson-Tancred non si nasconde dietro nostalgie o rifiuti pregiudiziali. Riconosce che il sistema dell’arte – quello tradizionale, delle gallerie, delle fiere, delle aste e delle riviste di settore – era e resta un contesto pieno di contraddizioni: elitario, spesso autoreferenziale, inaccessibile ai più. Tuttavia, sostiene che la crescente digitalizzazione e automazione del giudizio estetico rischia di eliminare non tanto i difetti del vecchio sistema, quanto la sua natura culturale e critica.

Secondo l’autrice, l’avvento dell’intelligenza artificiale ha portato con sé una retorica pericolosa: quella della neutralità algoritmica. Si presume che gli algoritmi possano offrire valutazioni imparziali, fondate su dati storici e parametri oggettivi. Ma questa visione, osserva l’autrice, ignora il fatto che ogni algoritmo è progettato da esseri umani, con i loro bias, i loro obiettivi economici, e soprattutto, la loro visione del mondo.

Lungi dall’essere strumenti trasparenti, i software oggi impiegati nel mercato dell’arte (dalle app che stimano il valore di un dipinto ai sistemi predittivi che suggeriscono “i nuovi Basquiat”) sono nuovi dispositivi di potere, capaci di orientare gusti, investimenti e carriere artistiche senza alcun controllo democratico o critico.

L’opera d’arte ridotta a dato

Uno dei punti centrali del saggio è la riduzione dell’opera d’arte a oggetto quantificabile. I database che alimentano gli algoritmi si basano su criteri come la frequenza espositiva, i prezzi d’asta, la diffusione sui social e le collaborazioni con marchi. Ma che fine fanno l’intenzione dell’artista, il contesto storico, la ricezione critica, la dimensione simbolica? Tutti elementi che non si lasciano ridurre a dati numerici e che, secondo Lawson-Tancred, sono invece centrali per comprendere davvero un’opera.

L'autrice si sofferma anche sul paradosso dell’"arte generata da AI": sebbene tecnicamente impressionante, questa produzione rischia di diventare autoreferenziale, priva di urgenza espressiva o tensione critica. In altre parole: l’arte fatta dagli algoritmi può anche stupire, ma non disturba, non interpella, non rischia. E soprattutto, non vive nel mondo.

Quando l’intrattenimento è perfetto, ma vuoto

L’arte, per essere tale, non deve solo piacere: deve anche turbare, porre domande, sfidare lo spettatore. Ecco perché i primi esperimenti cinematografici o seriali generati (parzialmente o interamente) con intelligenza artificiale, pur tecnicamente affascinanti, lasciano spesso un senso di vuoto.

Titoli come “The Safe Zone” (miniserie distopica del 2024 scritta in gran parte con AI) o “Echo Frame”, thriller sci-fi generato interamente da software, hanno attirato milioni di visualizzazioni su piattaforme streaming, grazie a trame avvincenti, personaggi “funzionali” e un’estetica impeccabile. Ma la critica li ha spesso definiti freddiripetitivisenza cuore.

Sono prodotti-calcolo: aggregati narrativi che mescolano Black Mirror, Blade Runner, Stranger Things. Perfetti ma privi di dissonanza. Manca il conflitto autentico, manca l’imperfezione umana, manca quella scintilla che rende un’opera imprevista, viva, urgente.

Lo stesso vale per progetti come “Ava’s Algorithm”, commedia romantica interamente disegnata da un sistema AI sulla base dei gusti rilevati da social e algoritmi. Piace, commuove, ma non tocca. Non resta. È una storia d’amore senza verità.

Mercato o cultura?

Un nodo cruciale del libro è il rapporto tra arte e mercato. Da sempre l’arte ha avuto un valore economico, ma oggi – sostiene Lawson-Tancred – siamo di fronte a una mutazione qualitativa: l’arte è diventata una merce altamente speculativa, e l’AI si presenta come lo strumento perfetto per ottimizzare i profitti, individuare tendenze, neutralizzare il rischio.

Il mercato dell’arte digitale, con le sue piattaforme blockchain, NFT e curatela automatizzata, promette democrazia e accesso. Ma il risultato reale è spesso un’accelerazione delle disuguaglianze: più uniformità, meno dissenso, meno spazio per l’arte radicale, sperimentale, politicizzata.

L’arte è sempre politica

Ecco perché non possiamo ignorare quanto dicevano Carlo LeviPier Paolo PasoliniLeonardo Sciascia. E anche, da parte mia, il mio conterraneo Silone. Tutti intellettuali che hanno difeso con forza una verità scomoda: l’arte non è mai neutra. È sempre politica.

Levi ha narrato il Mezzogiorno come spazio di esclusione e resistenza; Pasolini ha denunciato la mutazione antropologica del consumismo; Sciascia ha smascherato i poteri opachi del potere; Silone, infine, ha dato voce all’uomo spogliato da ogni ideologia, alla dignità della coscienza contro ogni totalitarismo.

Tutti loro sapevano – e lo gridavano – che l’arte ha senso solo se dice qualcosa sul mondo, se prende posizione, se scuote. Ed è proprio questa funzione che gli algoritmi, con la loro logica di ottimizzazione e neutralizzazione, tendono a cancellare.

Conclusioni: una finta rivoluzione?

Intelligenza artificiale e mercato dell’arte non è un grido reazionario. È un invito a ripensare la nostra idea di progresso, a rifiutare le scorciatoie, a difendere la complessità. Non si tratta di negare l’innovazione, ma di riconoscere che ciò che rende l’arte necessaria è l’errore, il dubbio, la tensione – tutto ciò che non si calcola.

Come scriveva Vladimir Nabokov«la curiosità è insubordinazione allo stato puro». L’arte nasce da quella disobbedienza radicale al già detto, al già noto, che nessuna macchina può replicare senza spegnerne il senso.

E come ci ricorda Robert Musil in L’uomo senza qualità«L’anima dell’arte non si trova nella realtà, ma nella possibilità.» Ma la possibilità, per essere vera, ha bisogno di libertà, fallimento, rischio. Tutto ciò che un algoritmo, per definizione, deve evitare. 

Carlo Di Stanislao

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