Fede e dialogo in una società plurale. Fattitaliani intervista Jean Ehret direttore e fondatore della Luxembourg School of Religion & Society

 

Foto LSRS, © Edouard Oszewski

di Giovanni Zambito - Jean Ehret è direttore e fondatore della Luxembourg School of Religion & Society. La sua ricerca si concentra su due domande cruciali per il nostro tempo: come costruire il vivere insieme in una società pluralista come quella del Lussemburgo? E come è possibile dire Dio oggi in modo responsabile, pertinente e autentico? I suoi studi esplorano i processi intellettuali e istituzionali, il linguaggio e le forme di rinnovamento della teologia in una società secolarizzata, interrogandosi su cosa significhi parlare di Dio nel mondo contemporaneo.
Nell'intervista concessa a Fattitaliani, Jean Ehret ci guida attraverso riflessioni profonde sul ruolo delle religioni, sul senso della parola teologica e sulle sfide del pluralismo nel vivere comune.

Prof. Ehret, Lei si interroga sulle condizioni del «vivere insieme» in una società plurale come quella del Lussemburgo. Quali sono, secondo lei, le principali tensioni, ma anche le opportunità di questa pluralità?
Chi vive in una società plurale si confronta continuamente con persone che non condividono i suoi stessi riferimenti. È anche esposto a una pluralità di altri riferimenti. Questa situazione è diversa da quella in cui una maggioranza viveva accanto a una minoranza, che si trattasse di protestanti e cattolici, di cristiani ed ebrei, o di cristiani e musulmani. Non ci sono più certezze sui riferimenti comuni, perché non esiste più un consenso sociale acquisito.
Questo pone le persone in una situazione di crisi – nel senso etimologico del termine: ciascuno deve fare delle scelte senza potersi appoggiare a riferimenti assoluti. Queste scelte possono riguardare il modo di vivere, di vestirsi, di mangiare, di pregare, di coltivare le relazioni – e ciascuno può ritenerle giuste e vere. Allo stesso tempo, si deve decidere come interagire con la società così com’è. Si può allora assimilarsi alla corrente dominante, ritirarsi più o meno, affermare una differenza più o meno marcata, o addirittura rompere completamente con la società.

Questa crisi identitaria può portare agli estremi?
Chi non si riconosce più nel mondo in cui vive può desiderare di prenderne le distanze. Per un cristiano, ciò poteva significare un tempo, ad esempio, entrare in un monastero. La fuga dal mondo è un motivo tradizionale. È una scelta che preserva la pace sociale. Ma si può anche essere confrontati ad atteggiamenti aggressivi, fino al terrorismo, che è un atteggiamento estremo: «Distruggerò questa società che non corrisponde a ciò che considero vero».
Esistono però numerose opportunità per vivere nella società senza dovervi necessariamente aderire in modo totale, anche come credente. A condizione di adottare un punto di vista radicato in una tradizione, riflessivo, pur essendo consapevoli della relatività delle proprie scelte. Non promuovo un relativismo in cui tutto si equivale, ma riconosco che ogni scelta religiosa, ideologica o di convinzione è legata a una biografia, a una situazione sociale, a una chiamata ricevuta, e ad altri fattori.

In che modo la pluralità può arricchire l’individuo?
Per una persona convinta ma umile, l’incontro con l’altro permette di entrare in dialogo e in condivisione. Chiedere: «Chi sei? Cosa dici di te stesso?» è un atteggiamento mosso dal desiderio di verità, un’esperienza arricchente che amplia i nostri orizzonti, la nostra conoscenza del mondo, e talvolta persino i nostri riferimenti. Questo presuppone di accettare anche ciò che può andare contro le nostre convinzioni.
Entrare in dialogo richiede dunque una reale disponibilità ad accogliere l’altro. Scoprire l’altro diventa un momento di crisi, ma anche di arricchimento. Dire poi all’altro chi sono io mi costringe inoltre a riformulare ciò che comprendo di me stesso in un linguaggio accessibile, a impegnarmi in un esercizio di traduzione che rivela aspetti della mia identità che forse non avevo ancora percepito in quel modo.

Quale ruolo possono avere le religioni per rafforzare la coesione sociale, senza accentuare le divisioni? Quali strumenti concreti per favorire un dialogo interreligioso duraturo?
Lei usa il plurale «religioni». Si potrebbe essere tentati di pensare che questo termine designi entità molto simili. In realtà non tutte funzionano allo stesso modo. Ad esempio, si dice spesso che ebraismo, cristianesimo e islam sono «religioni del Libro»: per un cristiano, ciò è impreciso, perché il cristianesimo non si considera una religione del Libro ma la religione di una persona. Questa espressione nasconde pratiche del testo molto diverse nei tre monoteismi.
È fondamentale rispettare la dinamica propria di ciascuna religione, che dipende dalla sua concezione della rivelazione. Ogni religione contribuisce alla coesione sociale a suo modo, secondo la propria organizzazione, formazione e concezione del rapporto con Dio e con il mondo.
Inoltre, le religioni non sono omogenee. Un ebreo ortodosso pensa diversamente da un ebreo liberale, un luterano è diverso da un calvinista o da un ortodosso russo. Occorre quindi interrogarsi su come i fedeli e le istituzioni di ogni religione possano essere motivati a contribuire alla coesione sociale. Questo richiede un sufficiente livello di fiducia nella società, senza la quale è difficile mobilitare i fedeli.
La famiglia, ad esempio, ha un ruolo centrale nelle tre religioni. Metterne in discussione i fondamenti tradizionali non favorisce la fiducia. Bisogna anche chiedersi se le religioni condividano una concezione comune del bene comune, e fino a che punto i modelli di società attuali possano essere da esse criticati.
Sarebbe ingiusto chiedere loro di essere semplici esecutrici di un modello elaborato senza il loro contributo. Si tratta piuttosto di discutere in modo civile, senza screditare gli argomenti conservatori o religiosi in nome del progresso. Se i partner sociali sono capaci di impegnarsi in questo dibattito, allora le religioni potranno offrire un contributo forte, basato su tradizioni millenarie.

Come dire (lasciar dire) Dio in modo responsabile e pertinente oggi?
Lei riprende qui il titolo di un mio articolo e una domanda centrale nella mia attività di ricercatore, di cristiano e di prete. Risponderò come teologo cattolico, non come filosofo o storico delle religioni. Per me la fede non è solo adesione a delle credenze, ma una relazione viva con la Trinità che si rivela e fonda la mia esistenza. Dire Dio (con le parole, i gesti, la vita) in modo che Egli possa esprimersi attraverso di me, suppone di essere abitati da Lui per tutta la vita.

Come riconoscere oggi una parola che viene da Dio?
Sempre come teologo cattolico, non mi baso unicamente sui miei sentimenti – che possono essere ingannevoli. La Chiesa mi invita a riferirmi alle Scritture, alla tradizione, al magistero vivente. Questi riferimenti non sono univoci e richiedono discernimento. È importante essere accompagnati da una persona esperta e da una comunità. Questo discernimento richiede tempo; la verità di una parola di Dio si manifesta alla fine. Accogliere una parola di Dio è sempre un rischio, da qui l’importanza del discernimento.

Come si riconosce una parola «responsabile» su Dio?
Dico a volte ai miei studenti: «Siete responsabili del Dio in cui credete.» In una società pluralista, occorre prendere posizione, scegliere. Divento responsabile della posizione che assumo, davanti a Dio, alla Chiesa e ai miei contemporanei. Devo poterne rendere conto. Accetto di rischiare la vita per questa fede, pur sapendo che avrei potuto fare altre scelte. Questa consapevolezza mi obbliga a esaminare le mie motivazioni.

Si può ancora parlare di un linguaggio comune per la teologia in uno spazio pubblico dove i riferimenti religiosi non sono più condivisi?
Le Scritture e la tradizione mostrano che la fede si esprime in modo contestuale. Non bisogna ridurre tutto al linguaggio: la liturgia, le tradizioni popolari, l’arte religiosa esprimono anch’esse la fede in modo vivo e plurale. Credenza e pratica, la fede sviluppa la sua logica, la sua vita; diventa riflessiva, si confronta con le proprie autorità, ma anche con il pensiero del mondo in cui vive.
Fare riferimento agli stessi riti, testi, autori e al magistero – e soprattutto la partecipazione alla liturgia – funziona come un legamento tra i membri del corpo ecclesiale, mantenendo una coesione nonostante la diversità. Ma si può dire che l’anima della Chiesa, il suo principio vitale, è lo Spirito Santo, è la carità.

Nel 2025 la LSRS festeggia 10 anni. Qual era l’obiettivo iniziale? A quali pubblici vi rivolgete?
L’idea era creare un luogo e uno spazio dove teologi di diverse confessioni, e anche religioni, lavorino insieme su questioni di società, includendo anche ricercatori di altre discipline e professionisti. Lavoriamo in modalità di «laboratorio», nello spirito del dialogo di cui parlavo prima.
I nostri pubblici sono diversi:

  • I ricercatori universitari, a cui offriamo la possibilità di uscire dai sentieri battuti.

  • Il grande pubblico, credente o no, interessato al presente, al futuro e al passato della nostra società.

  • I decisori politici, economici, culturali, a cui offriamo analisi utili.

  • I fedeli e le autorità religiose, per sostenere la loro ricerca di una fede responsabile.

C’è una convinzione personale che la guida particolarmente nella sua ricerca intellettuale e spirituale?
Rispondo su più livelli:

  • Sul piano intellettuale: credo che non si serva Dio evitando di pensare le cose fino in fondo – ma non è il pensiero che genera la fede.

  • Sul piano personale: Dio mi ha chiamato, ed è rimasto fedele nonostante le mie infedeltà. Ho una profonda gratitudine per tutto ciò che ho vissuto. Sono felice di essere cattolico e voglio condividere questa gioia.

LSRS, © Edouard Olszewski


En Français

"Foi et dialogue dans une société plurielle". Fattitaliani interviewe Jean Ehret, directeur et fondateur de la Luxembourg School of Religion & Society.

Propos recueillis par Giovanni Zambito - Jean Ehret est le directeur fondateur de la Luxembourg School of Religion & Society. Ses recherches s'articulent autour de deux questions majeures pour notre époque : comment construire le vivre ensemble dans une société plurielle comme celle du Luxembourg ? Et comment peut-on (laisser se) dire Dieu de manière responsable, pertinente et originelle aujourd’hui ? Ses travaux s’intéressent aux processus intellectuels et institutionnels, au langage et au renouvellement des théologies dans une société sécularisée, tout en explorant ce que peut signifier aujourd’hui un discours dont Dieu est le sujet. Dans cet entretien, Jean Ehret partage ses réflexions sur le rôle des religions, le sens de la parole théologique et les défis du pluralisme pour la vie en commun.

Prof. Ehret, vous vous interrogez sur les conditions d’un « vivre ensemble » dans une société plurielle comme celle du Luxembourg. Quelles sont, selon vous, les principales tensions mais aussi les opportunités de cette pluralité ?

Celui qui vit dans une société plurielle est continuellement confronté à des personnes qui n’ont pas les mêmes repères que lui. Il est également confronté à une pluralité d’autres repères. Cette situation diffère de celle où une majorité vivait avec une minorité, qu’il s’agisse de protestants et catholiques, chrétiens et juifs, ou chrétiens et musulmans. Il n’y a plus d’évidence quant aux repères auxquels on se rattache, car il n’y a plus de consensus social acquis.

Cela place les personnes dans une situation de crise, au sens étymologique : chacun doit faire des choix sans trouver nécessairement de repères absolus. Ces choix peuvent concerner sa façon de vivre, de s’habiller, de manger, de prier, de cultiver les relations humaines, et il peut les juger justes et vrais. En même temps, il doit décider comment interagir avec la société telle qu’elle est. Il peut donc s’assimiler avec un mainstream, se retirer plus ou moins, afficher une différence plus ou moins grande, ou même rompre avec la société.

Cette crise identitaire peut-elle mener à des extrêmes ?

Celui qui ne se retrouve plus dans le monde dans lequel il vit, peut vouloir rompre avec celui-ci. Pour un chrétien, cela signifiait par exemple entrer dans un monastère. La fuite du monde est un motif traditionnel. C’est un choix qui préserve la paix sociale. Mais on peut aussi se voir confronté à des attitudes agressives, voire au terrorisme, attitude extrème : « Je vais détruire cette société qui ne correspond pas à ce que je considère comme vrai. »

Les opportunités de vivre dans la société sans se fondre en elle restent cependant nombreuses, aussi en tant que croyant. À condition d’adopter un point de vue ancré dans une tradition, réfléchi, tout en étant conscient de la relativité de ses choix. Je ne propage pas un relativisme où tout se vaut, mais je comprends que tout choix religieux, convictionnel ou idéologique est lié à une biographie, une situation sociale, un appel entendu et d’autres facteurs.

En quoi la pluralité peut-elle enrichir l’individu ?

Pour la personne convaincue et humble à la fois, la rencontre avec l’autre permet d’entrer en dialogue et en partage. Demander « qui es-tu, que dis-tu de toi-même ? » est une attitude portée par un désir de vérité, une expérience enrichissante qui élargit nos expériences, notre connaissance du monde, voire nos repères. Cela suppose de pouvoir supporter ce qui peut être contraire à nos propres convictions.

Entrer en dialogue exige donc une réelle disponibilité à accueillir l’autre. Découvrir l’autre redevient un moment de crise, mais aussi d’enrichissement. Dire ensuite à l’autre qui je suis m’oblige de plus à reformuler ce que je comprends de moi-même dans un langage que l’autre puisse comprendre, de m’engager donc dans un exercice de traduction qui me révèlera des aspects de mon identité que je n’avais peut-être pas encore saisis de cette façon.

Quel rôle les religions peuvent-elles jouer pour renforcer la cohésion sociale, sans renforcer les clivages ? Quels instruments concrets pour favoriser un dialogue interreligieux durable ?

Vous employez le pluriel « religions ». On serait tenté de croire que ce nom recouvre des entités très semblables. Or, toutes ne fonctionnent pas de la même façon. Par exemple, on dit souvent que judaïsme, christianisme et islam sont des « religions du livre » : pour un chrétien, c’est faux, car le christianisme ne se considère pas ainsi mais comme la religion d’une personne. Cette expression cache des pratiques du texte très différentes dans les trois monothéismes.

Il est important de respecter la dynamique propre à chaque religion, qui dépend de sa conception de la révélation. Chaque religion contribue à la cohésion sociale à sa manière, selon son organisation, sa formation, et sa conception de la relation à Dieu et au monde.

Par ailleurs, les religions ne sont pas homogènes. Un juif orthodoxe pense différemment d’un juif libéral, un luthérien diffère d’un calviniste ou d’un orthodoxe russe. Il faut donc se demander comment les fidèles et institutions de chaque religion peuvent être motivés à travailler à la cohésion sociale. Cela exige une confiance suffisante dans la société, sans quoi il est difficile de motiver les fidèles à soutenir la construction sociale.

La famille, par exemple, joue un rôle central dans les trois religions. Remettre en question ses fondements traditionnels ne suscite pas la confiance. De plus, il faut se demander si les religions partagent une conception commune du bien commun, et jusqu’où les modèles de société actuels peuvent être critiqués par elles.

Il serait difficile de leur demander d’être de simples exécutants d’un modèle élaboré sans leur participation. Il s’agit plutôt de savoir comment débattre de façon civilisée, sans rejeter les arguments conservateurs ou religieux simplement comme tels au nom, par exemple, du progrès. Si les partenaires sociaux sont capables de s’engager dans ce débat, alors les religions deviennent sauront contribuer à une réflexion en s’appuyant sur des traditions millénaires.

Comment (laisser se) dire Dieu de manière responsable et pertinente aujourd’hui ?

Vous reprenez le titre d’un de mes articles et une question qui m’occupe en tant que chercheur, chrétien et prêtre. Je réponds en tant que théologien catholique, non comme philosophe ou historien des religions. Pour moi, la foi n’est pas seulement adhésion à des croyances, mais une relation vivante à la Trinité se révélant, qui fonde mon existence. Dire Dieu (par des mots, des gestes et toute ma vie) de façon à ce qu’il s’exprime à travers moi exige d’être habité par lui tout au long de la vie.

Comment reconnaître une parole de Dieu aujourd’hui ?

Je répondrai toujours en tant que théologien catholique. Je ne me fie bien sûr pas seulement à mes sentiments. Ils peuvent être trompeurs. L’Église me demande de me référer aux Écritures, à la tradition, au magistère vivant. Ces repères ne sont pas univoques et exigent un discernement. Il est important d’être accompagné par une personne expérimentée et une communauté. Ce discernement prend du temps, et la vérité de la parole de Dieu se manifeste à la fin. Accueillir une parole de Dieu est toujours un risque, d’où l’importance du discernement.

À quoi reconnaît-on une parole « responsable » sur Dieu ?

Je dis parfois à mes étudiants : « Vous êtes responsables du Dieu dans lequel vous croyez. » Dans une société pluraliste, il faut prendre position, choisir. Je deviens responsable de la position que j’adopte, devant Dieu, l’Église et mes contemporains. Je dois savoir en rendre compte. J’accepte de risquer ma vie pour cette foi, tout en sachant que j’aurais pu faire d’autres choix. Cette possibilité m’oblige à me confronter à mes motivations.

Peut-on encore parler d’un langage commun pour la théologie dans un espace public où les référents religieux ne sont plus partagés ?

Les Écritures et la tradition montrent que la foi s’exprime différemment selon les contextes. Il ne faut pas tout réduire à la langue : la liturgie, les traditions populaires, l’art religieux expriment aussi la foi de manière vivante et diverse. Croyance et pratique, la foi développe sa propre logique, sa propre vie ; elle devient réflexive, se confrontant à ses propres autorités mais aussi à la pensée du monde dans lequel elle s’habite et au vécu. Faire référence aux mêmes rites, textes, auteurs et au magistère et surtout la participation à la liturgie fonctionne comme des ligaments entre les membres du corps ecclésial, maintenant une cohésion malgré la diversité. Mais on peut dire que l’âme de l’Église, son principe vital, c’est l’Esprit saint, c’est la charité.

En 2025, la LSRS fête ses 10 ans. Quel était son objectif initial ? Quels publics souhaitez-vous toucher ?

L’idée était de créer un lieu et un espace où des théologiens de différentes confessions, voire religions, travaillent ensemble sur des sujets de société, en incluant aussi des chercheurs d’autres disciplines ainsi que des praticiens. Nous travaillons en « laboratoire », dans l’esprit du dialogue évoqué plus haut.

Nos publics cibles sont variés :

·       Les chercheurs universitaires, à qui nous offrons des occasions de sortir des sentiers battus.

·       Le grand public, croyant ou non, intéressé par le présent, l’avenir et le passé de notre société.

·       Les décideurs politiques, économiques, culturels, pour leur fournir des analyses utiles.

·       Les fidèles et autorités religieuses, pour soutenir leur recherche d’une foi responsable.

Y a-t-il une conviction personnelle qui vous guide particulièrement dans votre recherche intellectuelle et spirituelle ?

Je répondrai selon plusieurs points de vue :

·       Sur le plan intellectuel, je pense que je ne sers pas Dieu en refusant de penser les choses jusqu’au bout, mais ce n’est pas la pensée qui produit la foi.

·       Sur le plan personnel, Dieu m’a appelé et il est resté fidèle malgré mes infidélités. J’ai une immense gratitude pour tout ce que j’ai pu vivre et je suis heureux d’être catholique et je veux partager cette joie.

Fattitaliani

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