di Giovanni Zambito - In Diable de maison, l’autrice Edith Volpelière ci conduce in un universo oscuro e avvincente, quello di una casa delle Cévennes segnata dai silenzi, dai non detti e dai segreti sepolti. Attraverso più generazioni, dalla Seconda Guerra Mondiale fino ai giorni nostri, questo romanzo indaga le crepe della memoria familiare, le ferite ereditate e i legami invisibili che uniscono i membri di uno stesso clan. Fattitaliani ha intervistato la scrittrice la cui penna coniuga l’accuratezza del dettaglio storico con una rara sensibilità poetica.
L’estate del 1944 è un momento chiave del suo racconto. Cosa rappresenta per lei questo periodo, storicamente e simbolicamente?
Storicamente, questo periodo rappresenta per me la barbarie assoluta e la sofferenza umana portata all’estremo. Nella mia mente, è fortemente associato a mio padre, che aveva una ventina d’anni durante la guerra e si era rifiutato di fare il servizio obbligatorio in Germania. Era quindi dovuto fuggire e nascondersi sulle montagne delle Cévennes, dove vide alcuni dei suoi compagni giustiziati davanti ai suoi occhi. Ne conservò un trauma incurabile e una visione molto pessimista della natura umana. Diceva spesso, con convinzione, che i cavalli valevano mille volte più degli uomini. Questo periodo si può riassumere, per me, nella frase di mio padre, con tutto il crollo dei valori umani che essa suggerisce.
I personaggi di Rosalinde, Salmon, Miquette e Germaine sono legati da segreti e ferite intime. Come ha costruito questi legami intergenerazionali?
Ho costruito questi legami esplorando le dinamiche familiari e i non detti che si trasmettono di generazione in generazione, anche meglio dei beni materiali, perché inconsciamente, senza controllo né consapevolezza. Così, la figlia di Miquette, alla fine, scopre di essere depositaria di un segreto di famiglia che portava con sé da sempre senza saperlo (o almeno senza sapere di saperlo), tanto era parte integrante del funzionamento familiare.
Il segreto familiare è al centro del romanzo. È un tema che desiderava esplorare da tempo?
Sì, il segreto familiare è un tema che mi ha sempre affascinata. Rappresenta allo stesso tempo una fonte di tensione e di mistero; per questo è naturalmente romanzesco. Ho voluto esplorare come questi segreti plasmino le identità e le relazioni all’interno della famiglia. Inoltre, è un tema che tocca tutti i lettori, poiché ciascuno porta in sé storie nascoste.
L’atmosfera del libro è tesa. Come ha lavorato sulla tensione drammatica?
Ho lavorato sulla tensione narrativa attraverso descrizioni dettagliate e giocando sul ritmo degli eventi. I pensieri dei personaggi, le loro angosce e i loro ricordi si intrecciano con l’ambiente circostante, creando un’atmosfera opprimente. Anche gli elementi naturali, come il temporale o il caldo soffocante, servono ad amplificare questa tensione.
Il suo romanzo interroga la memoria familiare, i silenzi, i non detti. Crede che certe ferite si trasmettano a nostra insaputa?
Assolutamente sì. Credo fermamente che alcune ferite si trasmettano in modo inconscio, influenzando i comportamenti e le emozioni delle generazioni successive, quando non li determinano completamente. Il destino di Germaine, ad esempio, è il frutto dei silenzi e dei non detti del padre.
Che ruolo attribuisce alla parola nella ricostruzione di sé e dei legami familiari? Ci si può davvero liberare del passato?
Penso che la parola sia allo stesso tempo essenziale e impotente. Da un lato permette di esprimere emozioni, condividere esperienze, rompere il ciclo dei non detti e liberare corpo e mente da catene invisibili. Dall’altro, non cambia la realtà con cui bisogna comunque convivere e richiede molto coraggio e attenzione per essere rispettata. Infatti, quando le parole sono troppo violente o troppo trasgressive, vengono nuovamente soffocate. Questo è ben illustrato dal destino di Miquette: parlare le salva la vita, ma col tempo le parole vengono ancora una volta coperte da una coltre di silenzio.
Com’è nato questo libro? Da un’immagine, un ricordo, un bisogno di scrivere?
Da tutti e tre. All’origine c’era una storia familiare di cui sapevo pochissimo: un ebreo accolto e nascosto dalla famiglia di mia madre, come fecero molte famiglie delle Cévennes durante la guerra, mettendo a rischio le proprie vite, senza alcuna speranza di ricompensa o riconoscimento. Attraverso questa storia di famiglia, è nato il desiderio di esplorare le mie radici e soprattutto di farle esistere, con il poco che sapevo e tutto ciò che non sapevo e che bisognava inventare. Questo racconto è nato anche da un luogo: le Cévennes, i cui paesaggi mi ispirano, in particolare quelle fortezze familiari che sono i mas.
Ha svolto ricerche storiche per scrivere i passaggi legati alla Seconda Guerra Mondiale?
Sì, ho condotto delle ricerche storiche per assicurarmi che gli eventi e i contesti descritti nel romanzo fossero fedeli alla realtà dell’epoca.
Qual è stata la parte più difficile da scrivere? E quella più emozionante?
La parte più difficile è stata quella relativa al personaggio di Rosalinde. Probabilmente perché era l’inizio del libro e non ero ancora entrata nel ritmo e nella dinamica, ma anche perché appartiene a un passato lontano che non ho vissuto. Dare vita a questo personaggio, con le sue preoccupazioni d’epoca, mi ha richiesto molto lavoro. Tutte le parti sono state emozionanti. L’emozione è per me un motore nella scrittura, e non potrei scrivere senza di essa.
Il suo stile è al tempo stesso poetico e preciso. Come definirebbe la sua voce d’autrice?
Definirei la mia voce d’autrice come introspettiva ed evocativa. Cerco di creare un’atmosfera immersiva in cui emozioni e sensazioni siano palpabili. Il mio obiettivo è toccare il lettore attraverso le parole, le immagini e i temi affrontati.
En Français
Edith Volpelière présente le roman "Diable de maison": Mémoires enfouies : un voyage entre passé et présent
L’été
1944 est un moment charnière dans votre récit. Qu’est-ce que cette période
représente pour vous, historiquement et symboliquement ?
Historiquement, cette période représente pour moi la barbarie absolue et la souffrance humaine poussée à l’extrême. Dans mon esprit, cette époque est fortement associée à mon père qui avait une vingtaine d’années durant la guerre et avait refusé de faire son service obligatoire en Allemagne. Il avait donc dû fuir et se cacher dans les montagnes cévenoles où il avait vu certains de ses compagnons être exécutés sous ses yeux. Il en avait gardé un traumatisme incurable et une vision très pessimiste de la nature humaine. Il disait couramment, avec conviction, que les chevaux valaient mille fois mieux que les hommes. Cette période peut se résumer, pour moi, à la phrase de mon père, avec l’effondrement des valeurs humaines qu’elle suggère.
Les personnages de Rosalinde, Salmon,
Miquette, et Germaine sont liés par des secrets et des blessures intimes.
Comment avez-vous construit ces liens intergénérationnels ?
J’ai construit ces liens en explorant les dynamiques familiales et les non-dits qui se transmettent de génération en génération aussi bien et même mieux que les biens matériels car inconsciemment, sans contrôle ni maîtrise. Ainsi, la fille de Miquette, à la fin, se découvre dépositaire d’un secret de famille, qu’elle portait depuis toujours sans le savoir (ou du moins sans savoir qu’elle le savait) tant il faisait partie du fonctionnement de la famille.
Le
secret familial est au cœur du roman. Est-ce un thème que vous aviez envie
d’explorer depuis longtemps ?
Oui, le secret familial est un thème qui m’a toujours fascinée. Il représente à la fois une source de tension et de mystère ; il est, à ce titre, naturellement romanesque. J’ai voulu explorer comment ces secrets façonnent les identités et les relations au sein d’une famille. De plus, c’est un sujet qui parle aux lecteurs car chacun porte en soi des histoires cachées.
L’atmosphère
du livre est tendue. Comment avez-vous travaillé cette tension dramatique ?
J’ai travaillé cette tension narrative en brossant des descriptions détaillées et en jouant sur le rythme des événements. Les pensées des personnages, leurs angoisses et leurs souvenirs s’entrelacent avec l’environnement, créant une atmosphère oppressante. Les éléments de la nature, comme l’orage, la chaleur étouffante, servent également à amplifier cette tension.
Votre
roman interroge la mémoire familiale, les silences, les non-dits. Pensez-vous
que certaines blessures se transmettent malgré nous ?
Absolument. Je crois fermement que certaines blessures se transmettent de manière inconsciente, influençant les comportements et les émotions des générations suivantes, quand elles ne les déterminent pas complètement. Le destin de Germaine, par exemple, est le fruit des silences et des non-dits de son père.
Quelle
place accordez-vous à la parole dans la reconstruction de soi et des liens
familiaux ? Peut-on vraiment se libérer du passé ?
Je crois que la parole est à la fois essentielle et impuissante. D’un côté, elle permet d’exprimer des émotions, de partager les expériences, de briser le cycle des non-dits et de libérer le corps et l’esprit de chaînes invisibles. De l’autre, non seulement elle ne change pas la réalité avec laquelle il va falloir vivre coute que coute, mais encore elle suppose beaucoup de courage et de vigilance pour être respectée. En effet, lorsque les mots sont trop violents ou trop transgressifs, on les étouffe à nouveau. Ceci est bien illustré par le destin de Miquette : parler lui sauve la vie mais le temps recouvrira à nouveau les mots d’une chape de silence.
Comment
est né ce livre ? D’une image, d’un souvenir, d’un besoin d’écrire ?
Les trois. Au départ, il y a une histoire familiale dont je ne savais que fort peu de choses : un Juif recueilli et caché au sein de la famille de ma mère comme le firent de nombreuses familles cévenoles pendant la guerre, au risque de leurs vies, sans espoir de récompense ni de reconnaissance ultérieure. Et, à travers cette histoire de famille, il y avait l’envie d’explorer mes racines et surtout de les faire exister, avec le peu que j’en sais et tout ce que je ne sais pas et qu’il allait falloir inventer. Ce récit est également né d’un cadre : les Cévennes, dont les paysages m’inspirent, en particulier ces forteresses familiales que sont les mas.
Avez-vous
fait des recherches historiques pour écrire les passages liés à la Seconde
Guerre mondiale ?
Oui, j’ai effectué des recherches historiques pour m’assurer que les événements et les contextes décrits dans le roman soient fidèles à la réalité de l’époque.
Quelle a été la partie la plus difficile à écrire ? Et la plus émouvante ?
La partie la plus difficile à écrire a été celle concernant le personnage de Rosalinde. Sans doute parce que c’était le début du livre et que je n’étais pas encore prise par un rythme et une dynamique, mais aussi parce qu’elle appartient à un passé ancien que je n’ai pas connu. Innerver ce personnage, avec ses préoccupations d’époque m’a demandé beaucoup de travail. Toutes les parties ont été émouvantes. L’émotion est un moteur pour moi dans le travail d’écriture et je ne pourrais pas écrire sans cela.
Votre
style est à la fois poétique et précis. Comment définiriez-vous votre voix
d’autrice ?
Je
définirais ma voix d’autrice comme étant introspective et évocatrice. J’essaie
de créer une atmosphère immersive où les émotions et sensations sont palpables.
Mon objectif est de toucher le lecteur à la fois par les mots, les images, et
les thèmes abordés.