Sotto il rumore: il grande spettacolo dell’abisso mediatico

 

Foto da Facebook

«La maggioranza delle persone preferisce l’intrattenimento alla verità.» Thomas Jefferson

«Il medium è il messaggio», scriveva Marshall McLuhan negli anni ’60, e ci aveva già visti. Non descriveva semplicemente l’effetto della televisione, ma anticipava il mondo in cui oggi ci troviamo immersi: un mondo in cui il contenuto conta sempre meno, e ciò che importa è la forma in cui arriva, la sua velocità, la sua capacità di invadere senza essere percepita come invasione. Un mondo in cui ciò che ci viene detto è meno importante di come ce lo fanno consumare. Dove tutto si trasforma in flusso e nessuno chiede più il senso.

E così scorrono ogni giorno – con puntualità chirurgica – AmiciTu sì que valesForumCiao DarwinTemptation Island. Trasmissioni che sembrano innocue, perfino folcloristiche, ma che in realtà sono veri e propri dispositivi di rieducazione culturale. Producono empatia prefabbricata, conflitto simulato, spettacolarizzazione della mediocrità. E intanto raccolgono milioni di spettatori, gli stessi che con naturalezza comprano il libro di Vannacci o difendono la distruzione del paesaggio in nome di un’idea “verde” tanto estetica quanto inconsapevole. Un green che non nasce da consapevolezza ecologica, ma da un feticcio da pubblicità.

Chi sono allora i veri protagonisti di questo disastro lento e gioioso? Gli autori che costruiscono questi format da laboratorio antropologico, o gli spettatori che vi si riconoscono con entusiasmo? È un dilemma psicosociale ormai centrale: chi manipola e chi è contento di farsi manipolare?

Nel frattempo, la televisione continua a raccontarsi come formatrice. Ma non lo è più da tempo. Le ultime isole pensanti – Angela Jr., Augias, Mieli – sono sopravvivenze. Non formano, rassicurano. Parlano a una platea che si illude di far parte ancora di un pubblico pensante. In realtà sono appendici di una macchina culturale che ha scelto di diventare principalmente anestetica. E che ha vinto.

Il cinema in televisione, un tempo sacro e introdotto con rispetto, oggi è un contenuto interrotto. Nessuna introduzione, nessuna chiave di lettura, solo interruzioni pubblicitarie inserite con brutalità. Le voci critiche – da Enrico Ghezzi a Beniamino Placido, da Sandro Petraglia a Goffredo Fofi – sono state sostituite da rubriche leggere, con volti “presentabili” e toni da backstage. È la retorica della fruibilità: si parla di cinema come si parlerebbe di una nuova linea di profumi.

E intanto il degrado culturale non è solo italiano. Ovunque, in Europa e negli Stati Uniti, la televisione è diventata il luogo dove la complessità muore in nome della monetizzazione. L’infotainment domina. I documentari sono ridotti a clip emozionali. I talk show sono costruiti su griglie prevedibili, in cui il dissenso è previsto, addomesticato, trasformato in parte dello spettacolo.

Non si tratta solo di “televisione-spazzatura”. È qualcosa di più inquietante: è la televisione come specchio del desiderio collettivo di non pensare. Di sentirsi parte di qualcosa senza pagare il prezzo della complessità. Di sostituire il pensiero con il commento. Il confronto con il sondaggio. Il sapere con la reazione.

In questo scenario, le pale eoliche in mezzo a paesaggi violentati vengono viste come progresso. Il libro di Vannacci come libertà. Temptation Island come sociologia. È l’effetto McLuhan al suo apice: il mezzo ha talmente vinto sul messaggio che quest’ultimo non è più necessario.

Siamo diventati parte del sistema che ci omologa, con entusiasmo. Ogni applauso, ogni click, ogni ascolto contribuisce alla costruzione di un paesaggio culturale che ci svuota mentre ci intrattiene. È la cultura dell’abbassamento: verso il basso, verso il più semplice, verso il più vendibile.

E allora la vera domanda non è più “chi ha colpa?”, ma “cosa resta?”. Forse solo il gesto di spegnere. O il rifiuto tranquillo. Non come forma di snobismo, ma come gesto di resistenza. Di lucidità. Di memoria.

Perché se il prossimo divulgatore verrà scelto in base al numero di follower, e il prossimo critico cinematografico dovrà ridurre Godard in un reel da 40 secondi, allora sarà troppo tardi persino per spegnere. Saremo già diventati parte integrante del format.

E non ci accorgeremo nemmeno più del rumore.

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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