Ogni volta che qualcuno pronuncia la frase “l’Italia si vende da sola”, un’intera visione strategica del turismo muore. È una frase comoda, rassicurante e pericolosa. Una formula retorica che suona bene ma fa male, perché legittima l’immobilismo, copre le incompetenze e giustifica l’assenza di una politica industriale del turismo. È il mantra preferito da chi non vuole assumersi responsabilità, da chi non sa e non vuole fare sistema, da chi scambia l’abbondanza per il successo.
Sì, l’Italia è un paese straordinario. Ha una densità di bellezze paesaggistiche, artistiche e culturali senza pari. Ha città d’arte, borghi, coste, montagne, tradizioni enogastronomiche, festival, artigianato, storia. Ma il patrimonio, per quanto prezioso, non si amministra da solo. Non si promuove da solo. Non si organizza da solo. E soprattutto, non si difende da solo.
Il mondo è pieno di luoghi incantevoli, spesso meglio organizzati, più accessibili e più attraenti sul piano dell’esperienza complessiva. La Spagna ha saputo costruire un’identità turistica forte e riconoscibile, articolata ma coerente. La Francia investe da decenni in infrastrutture e strategie coordinate. Il Portogallo ha trasformato in pochi anni la propria offerta turistica in un prodotto di altissima qualità. E nel frattempo l’Italia resta ancorata alla convinzione che bastino il Colosseo, il Duomo o le Cinque Terre per tenere a galla un intero settore.
Ma la realtà è molto più dura. Siamo tra i primi Paesi al mondo per quantità e qualità del patrimonio, ma ci collochiamo intorno al 180° posto su scala mondiale per offerta museale in termini di servizi, accessibilità, digitalizzazione e accoglienza. Un dato drammatico, che dovrebbe scuotere le coscienze. Non solo: non siamo in grado di offrire nemmeno lontanamente servizi paragonabili a quelli di molti Paesi arabi o asiatici, che hanno saputo costruire in pochi anni strutture d’avanguardia, esperienze integrate, accoglienza multilingue e tecnologie all’avanguardia, investendo con decisione sulla cultura come motore di sviluppo.
In Italia, invece, troviamo ancora musei con orari ridotti, senza caffetteria, senza bookshop, senza guida interattiva, con didascalie ingiallite o assenti. Spesso manca la possibilità di acquistare biglietti online, di prenotare in anticipo, di accedere con strumenti digitali moderni. I percorsi museali sono pensati male, la segnaletica urbana è scarsa o inefficace, l’integrazione tra mobilità, cultura e servizi è praticamente inesistente. È come avere un diamante grezzo e continuare a mostrarlo in una scatola di cartone.
Il turismo non è solo bellezza, è industria. Vale miliardi, impiega milioni di persone, condiziona interi territori. Eppure in Italia lo trattiamo ancora come un passatempo, una voce accessoria del bilancio statale. Non c’è una visione nazionale, non c’è coordinamento tra le regioni, non c’è un sistema di governance stabile, e soprattutto manca la consapevolezza che la concorrenza è feroce, globale, avanzata.
Pensare che “l’Italia si vende da sola” significa non vedere che i turisti non cercano più solo il “bello”: vogliono un’esperienza completa, confortevole, connessa. Vogliono muoversi facilmente, essere accolti da professionisti preparati, sentirsi sicuri, compresi, valorizzati. E in troppi casi, in Italia, questo non succede.
Il patrimonio è un punto di partenza, non di arrivo. Serve un piano nazionale per la valorizzazione turistica. Serve una politica integrata che unisca cultura, trasporti, digitalizzazione, ospitalità, marketing. Serve una formazione continua degli operatori, investimenti strutturali, incentivi all’innovazione. Smettiamola con gli slogan e torniamo a costruire.
Ma non basta. Non è mai bastato.