«La verità è come un leone: non hai bisogno di difenderla. Lasciala libera, si difenderà da sola.» Sant’Agostino
La voce di Papa Leone XIV si staglia come un richiamo essenziale e radicale nel panorama globale contemporaneo, dove la parola pubblica è sempre più logorata, la comunicazione ridotta a spettacolo e il potere spesso esercitato attraverso la manipolazione simbolica. Con la sobrietà che lo contraddistingue, il Papa sta delineando una nuova grammatica della verità, fondata non sulla forza delle emozioni artificiali, ma sulla profondità dell'interiorità e sulla coerenza tra ciò che si dice e ciò che si è.
Non si tratta di uno stile semplicemente più sobrio o spirituale. La sua è una vera e propria contro-retorica, una resistenza al dominio del linguaggio deformato dalla propaganda, dalla performatività vuota, dal dominio narrativo. Nelle sue parole si avverte una consapevolezza precisa: oggi il potere più efficace non è quello che si impone con la forza, ma quello che costruisce un immaginario. Chi controlla i simboli, i racconti, le emozioni condivise, governa anche le scelte e le paure collettive.
In una delle sue prime riflessioni pubbliche da Castel Gandolfo, Papa Leone ha messo in discussione con fermezza l’uso politico e ideologico delle emozioni, definendole «simulazioni» quando non radicate nella realtà e nella compassione autentica. È una denuncia chiara: le emozioni, private della verità, diventano strumenti di potere. La parola si svuota della sua funzione più alta — quella di mettere in comune — e si riduce a strumento per indirizzare masse, legittimare decisioni, costruire nemici, alimentare divisioni.
Un’eredità spirituale: l’eco di Agostino
In questa visione, il pensiero di Sant’Agostino non è solo ispirazione, ma fondamento. Leone XIV è profondamente nutrito dalla spiritualità del grande Padre della Chiesa, e ne riprende lo sguardo disincantato e insieme appassionato sul linguaggio. Per Agostino, la parola ha senso solo se nasce dall’interiorità riconciliata, se è espressione di verità vissuta, non artificio costruito. La retorica, quando si separa dalla verità, diventa un pericolo: seduce, affascina, ma non converte. Parla, ma non cambia.
Il Papa non si limita a denunciare. Propone uno stile comunicativo nuovo, o meglio: antico, evangelico, profondamente umano. È uno stile che non fa rumore, ma lascia traccia. Non si impone, ma invita. Non infiamma, ma illumina. È la parola dei profeti, non dei demagoghi. È la parola dell’interiorità, non del marketing. È la parola che si nutre del silenzio, non quella che lo teme.
Nel pensiero agostiniano, comunicare significa entrare in comunione, non imporsi. E Leone XIV, con le sue origini missionarie e il lungo cammino come priore generale dell’Ordine agostiniano, ha interiorizzato questa dimensione relazionale del linguaggio. Per lui, parlare al mondo non è un atto di potere, ma di servizio. Significa farsi ponte tra i cuori, non innalzarsi sopra le folle.
Contro la spettacolarizzazione del sacro
Già nel suo ministero precedente, Leone XIV metteva in guardia da un rischio insidioso per la Chiesa e per la società: la trasformazione del sacro in spettacolo, del rito in teatro, della comunicazione in propaganda. Aveva compreso, con profondo intuito spirituale, che una fede che si esprime solo in termini di visibilità e successo mediatico rischia di perdere la sua forza profetica. Anche la liturgia, se privata del suo spessore simbolico e ridotta a evento, si svuota di significato.
Oggi, da Vescovo di Roma, non ha abbandonato questa linea. Al contrario, la porta avanti con determinazione ancora più grande. Le sue omelie sono brevi ma dense; i suoi discorsi istituzionali evitano sempre l’autoreferenzialità; il suo volto appare raramente nei grandi eventi mediatici. Tutto in lui comunica una scelta: quella di una parola che non conquista spazi, ma cuori.
Il potere della parola sobria
Viviamo in un’epoca in cui la parola pubblica è sottoposta a un sovraccarico continuo. Ogni giorno siamo sommersi da affermazioni, slogan, dichiarazioni, reazioni. Ma quanto di tutto questo ci tocca davvero? Quanto resta? Quanto costruisce realmente?
Leone XIV sembra rispondere: ciò che resta è la parola sobria, essenziale, necessaria. La parola che nasce da una vita interiore profonda. La parola che ha fatto esperienza del silenzio, della preghiera, del dubbio. La parola che sa aspettare, che non si impone, che non vuole avere sempre l’ultima parola.
Questa visione, apparentemente controcorrente, è in realtà rivoluzionaria. Propone un diverso uso del potere: non il potere di comandare, ma quello di servire. Non il potere di convincere, ma quello di convertire. Non il potere di brillare, ma quello di sparire per lasciare spazio all’Altro.
Una guida per il nostro tempo
Nel suo ministero, Leone XIV sta offrendo alla Chiesa e al mondo una bussola spirituale e culturale. Di fronte alla crisi del linguaggio, alla violenza verbale diffusa, alla polarizzazione crescente, il Papa indica un cammino: ritrovare la verità della parola, riconnetterla all’esperienza, all’interiorità, alla comunità.
Il suo non è un magistero di frasi celebri. È un magistero che si riconosce nei gesti, nello stile, nel respiro lungo della coerenza. Un invito silenzioso ma forte a “non fuggire dentro le parole”, come scriveva Agostino, ma a farle diventare dimora di senso e di fraternità.
In Leone XIV, la parola non è esercizio di potere, ma testimonianza. Non è messinscena, ma rivelazione. Non è decorazione del vero, ma il suo fragile e potente veicolo. In un mondo che grida, egli sceglie di sussurrare. E proprio per questo, lo si ascolta.
Carlo Di Stanislao