Dalle regole al rumore: il tradimento del bembismo e la crisi della lingua italiana nella narrativa contemporanea

 


“La lingua è la veste del pensiero.” Samuel Johnson

La lingua italiana ha conosciuto il suo massimo splendore nella norma, non nel caos. Oggi invece, tra narrazioni sfilacciate, ortografie sciatte e stili che sembrano voler sorprendere per disprezzo delle regole più che per talento, è lecito chiedersi: che ne è stato del sogno bembiano? Che fine ha fatto quell’ideale di eleganza, chiarezza e armonia che Pietro Bembo - raffinato umanista, teorico della lingua e guida spirituale del Rinascimento linguistico italiano - aveva immaginato per la nostra letteratura?

Nel Prose della volgar lingua, Bembo scelse Petrarca e Boccaccio come modelli, non per nostalgia, ma per costruire una lingua alta, nobile, limpida. Una lingua che sapesse parlare al presente senza perdere l'eredità del passato. Il suo non era un passatismo sterile, ma un atto di civiltà. Una proposta di ordine. Di equilibrio. Di responsabilità. Oggi, al contrario, l’italiano scritto, persino quello pubblicato, pare rifuggire ogni forma di misura: il gusto per la frase ben costruita è deriso come artificioso, mentre l'approssimazione viene esaltata come autenticità.

E invece eccoci qui. Oggi il bembismo è un reperto da biblioteca. Un cimelio da accademici. La lingua italiana - quella letteraria in particolare - pare essersi rassegnata a un destino di approssimazione e sciatteria. La narrativa contemporanea è spesso infarcita di frasi monche, di punteggiatura sgangherata, di termini inglesi infilati come brillantini nel fango, di dialoghi che sembrano trascrizioni da messaggi vocali. Leggiamo romanzi in cui i personaggi “tipo che vanno in hangover”, dove si “fanno call” invece di telefonarsi, dove le madri sono “mood ansia” e i pensieri “random”. Ma non è solo questione di lessico. È la struttura stessa a essere implosa. Periodi spezzati, elenchi infiniti che si spacciano per stile, descrizioni che fuggono il dettaglio per rifugiarsi nel vago emotivo. Lo “stream of consciousness” ridotto a flusso di parole a caso.

E il dramma è che questi libri non restano ai margini. No, vincono. Trionfano. Si portano a casa premi prestigiosi: Strega, Campiello, Bancarella, Mondello. Romanzi che, nella maggior parte dei casi, non reggerebbero un confronto strutturale neppure con una pagina secondaria di Zeno Cosini, né tanto meno con le vertigini linguistiche di Joyce. Eppure eccoli lì, celebrati da giurie entusiaste, pubblicizzati come rivelazioni letterarie, lodati per una “voce autentica” che troppo spesso è solo voce sciatta. Non si tratta di flusso di coscienza alla maniera di Svevo o di Woolf, ma di corrente incontrollata, spesso inconsapevole, talvolta inconsistente.

A questo si aggiunge l’inquinamento continuo della lingua da parte del giornalismo, sia cartaceo che digitale, e della comunicazione televisiva. I quotidiani italiani, un tempo esempio di scrittura sorvegliata e colta, oggi sembrano rincorrere lo stile da blog: titoli gridati, linguaggio semplificato, aggettivi a valanga. La sobrietà è scomparsa, la precisione pure. La cronaca si mischia all’opinione in un impasto che somiglia sempre più a intrattenimento. La lingua dei giornali non forma più il cittadino: lo blandisce, lo solletica, gli fa compagnia nella confusione.

Nel giornalismo online la situazione è ancora più estrema: si scrive come si twitta. L’ansia del click genera testi composti come slogan, sintassi appiattita, nessuna attenzione alla coerenza argomentativa. E guai a sembrare “difficili”, guai a usare una subordinata. Si deve “arrivare” subito, come se il lettore fosse un bambino distratto da mille giochi.

Anche la televisione ha la sua parte di colpa. I talk show parlano l’italiano della rissa, i telegiornali quello del torpore. Si è perso il lessico specifico, il rispetto della terminologia, la cura del ritmo espositivo. Tutto è scivolato verso un parlato informe, impastato di neologismi frettolosi, anglicismi finti, cliché da social. La parola è diventata un suono qualsiasi, un riempitivo, e spesso anche l’unico contenuto.

Ma questa deriva ha radici più profonde, e riguarda il livello culturale complessivo. I dati sulla lettura in Italia sono impietosi. Solo il 39% degli italiani legge almeno un libro all’anno. Non un libro al mese, non un libro a settimana: un libro all’anno. E di questi, una parte non finisce nemmeno quello. Le biblioteche sono deserte, i lettori forti - quelli che leggono più di dodici libri l’anno - sono una minoranza statisticamente irrilevante. Per confronto, in Germania la percentuale di lettori si avvicina al 60%, in Francia è oltre il 65%, nei paesi scandinavi supera il 70%. In Italia, invece, siamo nella coda della classifica europea, assieme a Romania, Bulgaria e Grecia.

E non si tratta solo di quantità, ma anche di qualità. Chi legge, spesso legge narrativa commerciale, libri che sono scritti più per essere consumati che per essere compresi. Romanzi dai temi semplici, dalla lingua elementare, dallo stile scorrevole fino all’insignificanza. È il trionfo del bestseller da supermercato, del libro che si legge “in due sere”, del linguaggio che non ostacola mai. Il pubblico non chiede più di essere elevato: chiede di essere confermato. Intrattenuto. Cullato nella propria ignoranza.

E la scuola, che dovrebbe formare il gusto e il rigore linguistico, è ormai marginalizzata, spesso essa stessa piegata a una didattica facilitata, impoverita. Si leggono sempre meno classici, si scrive pochissimo, si corregge con timidezza per non ferire la sensibilità dell’alunno. La grammatica è vista come un retaggio del passato, non come fondamento del pensiero.

E così la lingua, che dovrebbe essere esercizio di pensiero, strumento di comprensione, campo di responsabilità, diventa al contrario un ingombro da ridurre. Ecco perché il bembismo oggi non è soltanto una questione da storici della lingua. È una bandiera culturale. È l’idea che il parlare e lo scrivere bene siano atti di rispetto verso sé stessi e verso gli altri. È l’opposto dell’autoindulgenza stilistica, del compiacimento confuso, della scorciatoia costante.

Naturalmente, ci sono ancora autori, giornalisti, insegnanti, intellettuali che resistono. Che sanno costruire un periodo con attenzione, che credono nel valore della parola precisa, che praticano la lingua come disciplina. Ma sono sempre più minoritari. Sempre più controvento. E spesso guardati con sospetto, come rappresentanti di un’élite linguistica fuori dal tempo.

Se oggi Bembo potesse leggere certi romanzi vincitori di premi, ascoltare certi editoriali in televisione, o scorrere certi articoli pubblicati online, non si limiterebbe a scuotere la testa. Avrebbe pietà. Ma non per chi scrive: per la lingua stessa. Per ciò che poteva essere - e che, per colpa nostra, non è più.

Carlo Di Stanislao

Copertina da WikipediaTiziano Vecellio, Ritratto di Pietro Bembo (1539); olio su tela, 94,5x76,5 cm, National Gallery of Art, Washington

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