"La memoria è il filo invisibile che tiene insieme il tessuto della nostra identità, e senza di essa rischiamo di diventare ombre erranti nella notte della storia. Ascoltare le voci dimenticate non è solo un atto di giustizia, ma un dovere verso l’umanità stessa." Edward W. Said
Introduzione
La narrazione storica del conflitto israelo-palestinese è stata per decenni plasmata da versioni ufficiali e narrativi dominanti che, spesso, hanno escluso o marginalizzato la prospettiva palestinese. La via verso Be’er Sheva di Ethel Mannin si distingue come una voce fuori dal coro, una testimonianza letteraria che si concentra sulla sofferenza e sull’esilio vissuti dalla popolazione palestinese durante la Nakba del 1948. Attraverso la storia di una famiglia costretta alla fuga, il romanzo offre uno sguardo alternativo e umano sulle conseguenze di quel dramma storico, portando alla luce le esperienze di chi è stato troppo a lungo silenziato o dimenticato.
La trama: una famiglia in fuga
La narrazione segue le vicende di una famiglia palestinese le cui radici profonde vengono brutalmente sradicate dalla guerra e dalla perdita della propria terra. Il viaggio verso Be’er Sheva non è solo uno spostamento geografico, ma un percorso doloroso di perdita, paura e incertezza. Attraverso gli occhi dei protagonisti, adulti e bambini, il lettore assiste a una realtà fatta di privazioni materiali ma soprattutto di un trauma identitario: la casa non è più un rifugio, ma un ricordo lontano, e con essa svaniscono anche i legami culturali e sociali che definivano la loro esistenza. Questo spostamento forzato diventa così metafora della diaspora e della ricerca di un senso di appartenenza che si fatica a ritrovare.
Un paragone significativo può essere tracciato con la vicenda degli istriani, anch’essi costretti a fuggire dalle loro case in seguito ai cambiamenti politici del dopoguerra. Come i palestinesi, anche gli istriani vissero l’esilio come una perdita profonda non solo di un luogo fisico, ma di una storia, di una cultura e di una identità collettiva. Nel caso degli istriani, il confine spostato dopo la Seconda guerra mondiale costrinse decine di migliaia di persone a lasciare le loro terre per sfuggire a tensioni etniche e politiche, provocando un esodo doloroso e traumatico. Analogamente, la Nakba segnò per i palestinesi un evento di sradicamento e trauma, che ancora oggi segna la memoria collettiva e la percezione dell’identità nazionale. Entrambe queste esperienze mostrano come la guerra e la politica possano causare fratture profonde nei legami sociali e culturali, lasciando cicatrici durature che influenzano generazioni successive.
Voce contro narrazione comune: un contrappunto a Exodus
Nel 1958, la pubblicazione di Exodus di Leon Uris contribuì a plasmare un’immagine eroica e idealizzata della nascita dello Stato di Israele, rappresentata come una vittoria di giustizia e civiltà. Tuttavia, questa narrazione dominante rischiava di oscurare il prezzo umano pagato dalla popolazione palestinese. La via verso Be’er Sheva si presenta come un potente contrappunto a quella visione, rivelando le sofferenze, le perdite e le ingiustizie subite dal popolo palestinese. Mannin rompe con la retorica ufficiale, mettendo in luce come la costruzione di uno Stato abbia significato anche esilio, distruzione e trauma per un’altra comunità. Questo confronto letterario è fondamentale per comprendere la pluralità di voci e di esperienze che compongono la storia reale della regione.
Autrice e ricezione: la vita di Ethel Mannin
Ethel Mannin (1900-1984) è stata una scrittrice britannica nota per il suo impegno politico e sociale. Attraverso la sua produzione letteraria, Mannin si schierò contro il colonialismo e le ingiustizie del suo tempo, dedicandosi a dare voce ai popoli oppressi e marginalizzati. La scelta di raccontare la storia palestinese in un’epoca dominata da narrazioni pro-sioniste le valse un’attenzione limitata da parte della stampa e del pubblico, che preferivano testi più conformi alle posizioni politiche prevalenti. Nonostante ciò, la sua opera rappresenta un prezioso documento di resistenza culturale, capace di sfidare pregiudizi e silenzi, e un esempio significativo di letteratura impegnata a favore della giustizia sociale e storica.
Perché oggi
Rileggere oggi La via verso Be’er Sheva è un gesto di grande rilevanza culturale e politica. Il conflitto israelo-palestinese rimane una delle questioni internazionali più delicate e irrisolte, con profonde ripercussioni sul piano umano e geopolitico. Dare spazio a narrazioni come quella di Mannin significa promuovere una comprensione più completa, empatica e bilanciata della realtà, andando oltre le narrazioni monolitiche e parziali. Inoltre, il romanzo ci ricorda il potere della letteratura come strumento di memoria e di verità, capace di rompere il silenzio imposto dalla storia ufficiale e di restituire dignità e visibilità a chi è stato escluso. In un’epoca segnata da polarizzazioni e revisionismi, queste voci sono essenziali per costruire un dialogo costruttivo e promuovere la pace.
Conclusione
La via verso Be’er Sheva non è solo un romanzo storico, ma un atto di testimonianza e resistenza contro l’oblio. Attraverso la narrazione della sofferenza e della speranza di una famiglia palestinese in fuga, Ethel Mannin ci invita a considerare la complessità e la molteplicità delle storie che compongono il conflitto israelo-palestinese. Ripristinare questa prospettiva significa arricchire la memoria collettiva e promuovere una comprensione più umana e inclusiva, capace di riconoscere la dignità di tutti i popoli coinvolti. In definitiva, il romanzo ci ricorda che la storia è fatta di voci e di silenzi, e che il futuro può nascere solo dall’ascolto reciproco e dal rispetto delle diverse narrazioni.
Bibliografia essenziale
- Ethel Mannin, The Road to Beersheba, London: Jarrolds, 1961
- Leon Uris, Exodus, New York: Doubleday, 1958
- Edward W. Said, Orientalism, New York: Pantheon Books, 1978
- Nur Masalha, The Palestine Nakba: Decolonising History, Narrating the Subaltern, Reclaiming Memory, London: Zed Books, 2012