La realtà non si fotografa in posa. Il teatrino internazionale di Giorgia Meloni e il disastro che ci lascia alle spalle

 

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"Il peggior nemico della verità non è la menzogna deliberata, ma il mito persistente." John F. Kennedy

Una foto ben studiata, una posa rigida, il viso tirato e finalmente privo di quel sorriso plastificato con cui ci è toccato familiarizzare. Il Times l'ha messa in prima pagina, Giorgia Meloni, come se fosse una Thatcher mediterranea, una statista temprata, una figura centrale nel gioco dei poteri globali.

Ma qui in Italia, dove viviamo e sopravviviamo alla sua politica, ci guardiamo attorno e ci chiediamo: di che Paese stanno parlando?

Perché la copertina può anche incantare Londra, ma non basta un bel ritratto per nascondere un Paese in pezzi, smarrito, fiaccato da un governo che si spaccia per forte mentre si limita a fare propaganda con il megafono e lascia le macerie al popolo muto.

Dietro il teatro mediatico costruito a colpi di tweet, conferenze stampa autocelebrative e viaggi all’estero degni di una regina in tour, l’Italia reale affonda.
Le industrie chiudono in silenzio, i distretti produttivi si spengono come candele senza ossigeno, i grandi asset vengono svenduti in saldo, e in cambio riceviamo vaghi proclami di "italianità" che suonano come insulti a chi davvero lavora per questo Paese.

Le infrastrutture fanno pena, letteralmente. Non è retorica: ci sono scuole in cui piove in classe, strade degne del periodo borbonico, reti informatiche degne di un Paese in guerra. Eppure ci sentiamo dire che l’Italia è “tornata centrale”.
Centrale dove, esattamente?
Nel Medioevo, forse.

La sanità pubblica è al collasso. Mentre si parla di “difesa della famiglia” e di “diritto alla vita”, milioni di famiglie non riescono nemmeno a ottenere una visita medica in tempi umani. Mancano medici, mancano infermieri, mancano strutture, mancano investimenti. Le persone muoiono in attesa.
Ma per la presidente del Consiglio, basta sorridere poco per sembrare seria.

L’università e la ricerca? All’agonia. I cervelli migliori vengono formati qui e fuggono altrove, trattati come traditori solo perché osano volere una carriera dignitosa e una vita fuori dalla precarietà cronica.
L’Italia è diventata un export di talento e un import di slogan.

E intanto lei si pavoneggia al G7, al vertice NATO, nelle redazioni dei giornali britannici, raccontando di un’Italia che esiste solo nelle slides dei portavoce.
La realtà è che ci ignora il mondo intero.
Quando si tratta di grandi decisioni economiche, ambientali, geopolitiche, l’Italia non è al tavolo: è nella sala d’attesa, col biglietto in mano e lo sguardo basso.

L’unica “grande responsabilità internazionale” affidataci di recente? Una copresidenza con l’Etiopia di una conferenza ONU sulla sicurezza alimentare che persino i tecnici definiscono poco più che decorativa.
Siamo passati dal sogno europeo alla mensa dei bambini poveri, col badge al petto e lo sguardo fiero di chi ancora non ha capito di essere stato invitato solo per fare numero.

Nel frattempo, Trump – l’idolo della Meloni, il modello da emulare – impone dazi pesanti sull’agroalimentare italiano.
Vino, olio, formaggi: tutto sotto attacco. La risposta del governo? Nulla. Silenzio. Inchino.
“America First” funziona, certo, ma per gli americani. E mentre loro alzano le barriere, noi apriamo le vene.

Il debito pubblico cresce a dismisura, le tasse aumentano, la pressione fiscale reale è ai massimi storici. Ma l’unico nemico identificato dalla narrazione meloniana è l’“élite radical chic”, come se fosse stato un docente universitario di sinistra a portare l’Italia sull’orlo del tracollo.
Il vero nemico, ormai, è la lucidità. Perché vedere le cose come stanno fa troppo male.

Povertà, emigrazione, isolamento geopolitico, regressione civile. Questa è la realtà che viviamo, mentre altrove si celebra un’immagine da leader globale.
Ma si sa: la fotografia è l’arte di fermare un momento, non di raccontare la verità.

E quella foto sul Times, in posa, rigida, severa, è l’emblema perfetto di questo governo: apparire anziché essere, sfilare anziché costruire, comandare anziché governare.
Ma non basta un primo piano internazionale per coprire il disastro nazionale.
L’Italia non è tornata centrale. È tornata indietro.

E stavolta, non c’è nemmeno un sorriso a salvarla.

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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