Un viaggio nella visione pasoliniana tra denuncia, poesia e cieli troppo grandi per essere ignorati
«Non è la disperazione che ci salva. Ma la rabbia» - Pier Paolo Pasolini
C’è un film che non si guarda: si attraversa come una terra bruciata, come una rovina ancora fumante. Si chiama La Rabbia, e porta il nome e la voce di Pier Paolo Pasolini. Un’opera del 1963, a metà tra documentario e poema civile, che ancora oggi inquieta e brucia. Non per le immagini truculente – quelle le abbiamo ormai digerite nei tg – ma per qualcosa di più profondo e viscerale: la verità disarmante del nostro passato rimosso.
All’inizio sembra davvero un incubo in bianco e nero: soldati che marciano tra cumuli di macerie, volti scavati dalla fame, madri che piangono bambini che non torneranno. Eppure La Rabbia non è un horror, è peggio: è la realtà storica, l’Italia che affoga tra le rovine morali della guerra, già pronta a rifugiarsi nelle illusioni del consumismo, nella sterilità del progresso.
Pasolini, poeta e regista, prende le immagini d’archivio e le carica di senso come fossero versi. Aggiunge una voce fuori campo che non racconta, ma accusa, compiange, sputa verità scomode. E con un montaggio che ignora le regole narrative classiche, costruisce un’opera senza trama, senza eroi, senza catarsi. Solo un flusso visivo e sonoro dove ogni sequenza è una ferita, ogni taglio un urlo.
Ma a rendere La Rabbia un oggetto unico nel panorama del cinema italiano, non è solo il contenuto. È lo stile, quella forma così radicale e profondamente personale che Pasolini ha sempre rivendicato. Lo si vede nelle inquadrature che lasciano troppo cielo sopra i volti, nei corpi tagliati dalla luce, nei campi lunghi che sembrano contemplare l’assurdità del mondo più che raccontarlo. Pasolini gira così perché guarda così: con occhi pieni di nostalgia e di giudizio, con lo sguardo rivolto a un’umanità perduta, smarrita in una modernità che ha dimenticato l’anima.
Questi cieli smisurati, queste prospettive sproporzionate, non sono errori. Sono una precisa dichiarazione estetica, un riferimento profondo all’arte che Pasolini amava e studiava: il Manierismo. Come i pittori manieristi – Pontormo, Rosso Fiorentino, Parmigianino – Pasolini deforma lo spazio e l’equilibrio per evocare una tensione interiore, una crisi spirituale. Quei cieli troppo grandi sopra le teste non sono solo cieli: sono il peso del divino perduto, dell’ideale infranto, del vuoto lasciato dalla fine delle certezze.
In La Rabbia, l’amore per i manieristi diventa cinema politico. Ogni composizione è carica di un’anima spezzata, ogni scelta visiva è una ribellione contro il realismo rassicurante della narrazione borghese. Pasolini non vuole confortare lo spettatore: vuole trafiggerlo con la bellezza imperfetta di un mondo che ha perso il suo centro. Così, come il Cristo allungato di Pontormo, anche l’Italia che ci mostra è distorta, fragile, sospesa in un equilibrio instabile che minaccia di crollare.
E allora La Rabbia si rivela per ciò che è: non solo un’opera di denuncia, ma un atto d’amore disperato verso un’umanità che non sa più vedere, non sa più sentire. Un poema visivo che fonde cinema, arte, storia e politica in un unico grido. Un’opera che, come i cieli troppo larghi che la sovrastano, ci chiede di alzare lo sguardo. E di non smettere mai di indignarci.
Perché l’indignazione, per Pasolini, è l’ultima forma di sacro rimasta.
Carlo Di Stanislao