Per anni è stato ripetuto che la pressione fiscale in Italia stava diminuendo. Una narrazione rassicurante, utile a giustificare manovre di bilancio, tagli alla spesa e promesse elettorali. Ma la realtà raccontata dai numeri è opposta: la pressione fiscale non solo rimane tra le più alte d’Europa, ma continua a colpire in modo squilibrato le fasce più deboli e oneste della popolazione. Mentre si pretende rigore dai lavoratori dipendenti e dai piccoli imprenditori, si chiudono gli occhi davanti a evasione, elusione e privilegi fiscali. E il risultato è un sistema ingiusto e inefficiente, in cui le tasse non diventano servizi, ma vanno disperse in una spesa pubblica spesso opaca e clientelare.
Una pressione fiscale opprimente
Secondo i dati della Commissione Europea e dell’OCSE, la pressione fiscale in Italia si attesta costantemente tra il 42% e il 43% del PIL. Si tratta di uno dei livelli più alti dell’area euro e del mondo industrializzato. La media OCSE si ferma infatti attorno al 33,9%. Ma più ancora del dato complessivo, colpisce la distribuzione del peso fiscale: l’Italia è uno dei Paesi con il più alto cuneo fiscale sul lavoro, cioè la differenza tra quanto costa un dipendente all’azienda e quanto effettivamente riceve in busta paga.
Nel 2024, il tax wedge per un lavoratore single senza figli ha superato il 47%, un livello quasi insostenibile. Questo significa che quasi metà di quanto un’azienda spende per un lavoratore va in tasse e contributi. A confronto, in Germania siamo al 47,9%, in Francia al 47,2%, ma in quei Paesi il livello dei servizi pubblici è nettamente superiore. In Spagna, invece, il tax wedge è attorno al 39%, nei Paesi Bassi al 36,5%, mentre in Irlanda scende addirittura sotto il 33%. Il problema dell’Italia non è solo quanto si tassa, ma cosa si ottiene in cambio: sanità con liste d’attesa infinite, scuole carenti di personale e strutture, trasporti regionali inadeguati, un welfare spesso inefficace.
Il confronto con i governi del passato
L’illusione che le tasse stiano diminuendo è il frutto di una lunga sequenza di annunci non mantenuti. A partire dal governo Monti, che ha inaugurato la stagione dell’austerità con misure drastiche: aumento dell’IVA, introduzione dell’IMU anche sulla prima casa, nuove imposte sui conti correnti e sulle pensioni. Questi interventi, seppur tecnicamente coerenti con gli obiettivi di riduzione del deficit, hanno avuto un impatto negativo sulla crescita e sulla percezione della giustizia fiscale. La pressione è aumentata soprattutto per il ceto medio.
Il governo Renzi, nel suo primo mandato, ha cercato di dare un segnale diverso, introducendo il bonus da 80 euro per i redditi medio-bassi e abolendo l’IMU sulla prima casa. Tuttavia, il beneficio fiscale è stato selettivo, temporaneo e non ha inciso strutturalmente sull’impianto del sistema. Anzi, ha generato squilibri, favorendo anche chi non aveva bisogno e indebolendo la progressività fiscale.
Nel secondo governo Renzi e sotto Gentiloni, la strategia è stata più cauta, con piccole riduzioni IRAP e IRES per le imprese, ma senza una visione riformatrice. La lotta all’evasione è rimasta blanda e lo sforzo di semplificazione si è perso nei dettagli tecnici.
Con il primo governo Conte, sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle, si è passati a una fase più ideologica: la flat tax per le partite IVA fino a 65.000 euro ha creato nuove disuguaglianze tra chi può accedere al regime forfettario e chi no, mentre il reddito di cittadinanza, pur rappresentando un intervento importante contro la povertà, non è stato accompagnato da un vero sistema di inserimento lavorativo, rendendolo vulnerabile alle critiche e agli abusi.
Il secondo governo Conte ha cercato di introdurre elementi di redistribuzione e giustizia sociale, ma si è trovato impantanato nella gestione della pandemia e nei compromessi politici. La pressione fiscale non è diminuita e la riforma dell’IRPEF è rimasta lettera morta.
Con Draghi, l’Italia ha ritrovato una certa credibilità internazionale e ha avviato una prima bozza di riforma fiscale nel contesto del PNRR, con l’obiettivo di ridurre le aliquote IRPEF e semplificare il sistema. Ma il governo tecnico, per sua natura, ha operato in emergenza e non ha avuto il tempo politico per completare il percorso. I miglioramenti sono rimasti limitati, con una riduzione parziale delle aliquote e nessuna vera rivoluzione.
Infine, il governo Meloni, che aveva promesso di tagliare le tasse e di aiutare il ceto medio, si è limitato a interventi temporanei: un taglio al cuneo fiscale solo per i lavoratori dipendenti fino a una certa soglia, il mantenimento delle tre aliquote IRPEF e una tassa sugli extraprofitti bancari poi fortemente annacquata. Nel frattempo, sono stati effettuati tagli significativi alla sanità pubblica, al fondo per la scuola, alle infrastrutture, mentre il debito pubblico ha continuato a salire, superando i 3.000 miliardi di euro.
Il grande paradosso italiano
L’Italia è oggi un Paese che tassa come i Paesi del Nord Europa, ma offre servizi di qualità ben inferiore. In Francia, dove la pressione fiscale è persino superiore, i cittadini ricevono in cambio una sanità pubblica efficiente, trasporti rapidi, istruzione gratuita e sostegni alle famiglie. In Germania, ogni euro pagato in tasse è reinvestito con razionalità ed efficienza. In Svezia, Danimarca o Norvegia, le imposte sono percepite come un investimento collettivo. In Italia, invece, sono vissute come un furto legalizzato.
Il patto fiscale tra Stato e cittadini si è spezzato. E non per colpa del contribuente. Chi lavora e dichiara tutto è penalizzato ogni giorno. Chi evade, elude o dispone di strumenti per spostare capitali all’estero è spesso lasciato in pace. L’evasione fiscale stimata supera ancora oggi i 90 miliardi di euro l’anno, una cifra mostruosa, che pesa sulle spalle di chi le tasse le paga davvero. Eppure, ogni governo ha continuato a proporre condoni, rottamazioni, sanatorie, messaggi che hanno incentivato i furbi e penalizzato gli onesti.
Un sistema insostenibile
La cosa più grave è che, nonostante questo alto livello di pressione fiscale, l’Italia non riesce a migliorare la qualità della spesa. La sanità è sottofinanziata: nel 2023, la spesa sanitaria pubblica era al 6,6% del PIL, in calo rispetto agli anni precedenti, e ben al di sotto della media dei Paesi più avanzati. Le scuole soffrono per carenza di fondi, docenti malpagati, strutture obsolete. Le infrastrutture sono ferme: i fondi del PNRR faticano a essere spesi e la manutenzione ordinaria è carente. E il debito pubblico, nonostante tutte le promesse, continua ad aumentare.
Il vero scandalo non è solo quanto si tassa, ma come si spende. L’Italia spende tanto, male e in modo inefficiente. Le risorse non vengono allocate dove servono: si alimenta la spesa corrente, si mantengono apparati, si finanziano bonus a pioggia, ma si trascura l’investimento strategico. E senza investimenti, non c’è crescita. E senza crescita, le tasse aumentano per tutti.
Un patto fiscale da ricostruire
L’Italia ha bisogno urgente di una riforma fiscale profonda, coerente, strutturata, che risponda a tre principi fondamentali: equità, efficienza, trasparenza.
Serve abbassare il carico fiscale su chi lavora, incentivando la produttività e premiando la dichiarazione corretta dei redditi. Serve spostare il peso dalle tasse sul lavoro e sull’impresa verso le rendite finanziarie, i grandi patrimoni e i settori oggi sottotassati. Serve digitalizzare in modo capillare il sistema fiscale, combattere l’evasione non con le parole ma con strumenti concreti. E soprattutto, serve investire in sanità, scuola, mobilità, ricerca, innovazione, perché solo così le tasse avranno un senso.
O si ricostruisce un patto fiscale tra Stato e cittadini, o il sistema imploderà. Perché un Paese che tassa molto ma restituisce poco è destinato a perdere non solo fiducia, ma anche futuro. E se non si inverte la rotta, chi oggi è spremuto per tenere in piedi il sistema sarà domani il primo a voltargli le spalle.
Carlo Di Stanislao