Il sentiero delle verità scomode: «The Salt Path» tra memoria, finzione e autenticità letteraria

 


“La verità è sempre stata una costruzione, mai un dato di fatto.  Salman Rushdie

Il caso di The Salt Path, memoir autobiografico di Raynor Winn e recentemente adattato in film, rappresenta una finestra critica sulle complessità della narrazione autobiografica contemporanea, in cui il confine tra realtà e finzione appare sempre più sfumato e controverso. La storia della coppia britannica che, dopo la perdita della casa e la diagnosi di una grave malattia, decide di attraversare a piedi la selvaggia costa del Sud-Ovest inglese, ha commosso e affascinato lettori e spettatori. Tuttavia, questa empatia si è presto trasformata in sospetto, con accuse di manipolazione e falsificazione che hanno sollevato un acceso dibattito sull’“autenticità” nei memoir e sulle responsabilità etiche dell’autore.

Il film di «The Salt Path»: tra cruda realtà e poesia visiva

L’adattamento cinematografico diretto da Marion Pilowsky, con Gillian Anderson e Jason Isaacs nei panni di Raynor e Moth Winn, rappresenta un’interpretazione intensa e sfaccettata del racconto. Il film si distingue per la capacità di mescolare la durezza della vita ai margini della società con la maestosità della natura che fa da sfondo al viaggio. Le immagini della costa battuta dal vento e dalla pioggia, dei sentieri rocciosi, degli incontri occasionali con altri viandanti, diventano non solo una cornice, ma un vero e proprio personaggio.

La regia evita il patetismo e l’eccesso di spettacolarizzazione, concentrandosi sulle piccole azioni quotidiane — montare una tenda, curare i piedi doloranti, affrontare la fame — e sugli sguardi pieni di fatica ma anche di tenacia e amore reciproco. Ciononostante, la dimensione cinematografica inevitabilmente filtra e media l’esperienza: l’arte visiva tende a trasformare la sofferenza in estetica, il disagio in simbolo, il reale in poetico.

Questa doppia natura del film riflette la tensione centrale anche nel libro: la difficoltà di restituire la realtà senza tradirla o addomesticarla, di rendere la verità vissuta senza rinunciare alle esigenze narrative. Il film, in quanto opera artistica, deve costruire una narrazione coerente, emotivamente coinvolgente e visivamente suggestiva. Ma proprio per questo è destinato a una inevitabile distanza dal “dato di fatto” immediato.

Il confronto con «Vermiglio»: un altro viaggio attraverso la solitudine e la natura

Un interessante parallelo cinematografico è offerto dal film italiano Vermiglio (2023) di Luca Lucci, che narra il viaggio solitario di una giovane donna attraverso le montagne del Trentino, in un percorso di confronto con la natura e con se stessa. Come The Salt Path, anche Vermiglio esplora il cammino come metafora di rinascita e ricerca interiore, ma con un approccio più intimista e contemplativo.

Mentre The Salt Path si concentra sulla coppia e sulla solidarietà in un contesto di marginalità sociale, Vermiglio focalizza l’attenzione sull’isolamento e sulla riconciliazione individuale, utilizzando i paesaggi alpini come specchio delle emozioni della protagonista. Entrambi i film testimoniano la potenza del viaggio non solo come spostamento fisico, ma come esperienza trasformativa che mette in discussione le certezze e apre a nuove prospettive.

Questo confronto rafforza l’idea che il cinema contemporaneo guardi spesso al cammino e al rapporto con la natura come strumento narrativo per esplorare temi universali quali la vulnerabilità, la solitudine, la speranza e la forza del legame umano.

La verità come merce culturale e la crisi dell’autenticità

La diffusione mediatica e il successo commerciale di memoir come The Salt Path sono espressione di una domanda culturale forte: quella di autenticità, di racconti “veri”, di esperienze sincere e non filtrate. Il pubblico vuole storie “vere” e spesso si sente tradito quando emergono discrepanze o sospetti di manipolazione.

Questa ossessione per la verità autobiografica riflette anche una crisi culturale più ampia, legata alla sfiducia nei confronti delle istituzioni, delle narrazioni ufficiali e delle “verità” storiche. La biografia diventa così un terreno di lotta per la legittimità della propria esperienza, per la validazione sociale e culturale.

Ma questa ricerca di un’“autenticità” assoluta rischia di ignorare la natura stessa della narrazione. Come ricorda Emmanuel Carrère, la memoria è selettiva, la percezione soggettiva, il ricordo un atto di ricostruzione e reinterpretazione. Non esiste una cronaca fedele di una vita vissuta: esiste una storia raccontata, filtrata dalla coscienza e dalla scrittura.

“Il poeta è un fingitore”: la lezione di Fernando Pessoa

In questo contesto, la riflessione del grande poeta portoghese Fernando Pessoa risuona con forza:

“Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente.”

La finzione non è semplice inganno o menzogna, ma una dimensione essenziale della narrazione. Raccontare significa dare forma all’esperienza, trasformarla in linguaggio e simbolo. La scrittura autobiografica, pur dichiarando di essere “vera”, si costruisce su questa necessità di fingere, di inventare — o almeno di selezionare — per comunicare l’essenza emotiva e spirituale del vissuto.

Altri esempi di autobiografia tra verità e invenzione

Non solo Winn o James Frey — il cui memoir A Million Little Pieces fu clamorosamente smascherato per la sua mistificazione — ma anche autori come Annie Ernaux e Karl Ove Knausgård si confrontano con questa linea di confine. Ernaux, con il suo sguardo distaccato e la volontà di ricostruire “la verità percepita”, tenta di superare la soggettività per cogliere un dato sociale e storico. Knausgård, invece, sfida i limiti dell’esposizione di sé, mettendo in scena ogni aspetto della propria esistenza, tra onestà brutale e auto-narrazione romanzesca.

Il cammino come metafora letteraria: da Thoreau a Joyce, da Dante a Winn

Il viaggio a piedi di Raynor e Moth Winn si iscrive in una tradizione letteraria lunga e ricca, in cui il cammino diventa metafora di trasformazione, ricerca e scoperta. Da Henry David Thoreau e il suo Walden, alla moderna riscoperta della natura con autori come Robert Macfarlane, fino alle peregrinazioni spirituali di Dante Alighieri nella Divina Commedia, il viaggio è da sempre simbolo di evoluzione interiore.

In questo panorama, assume un ruolo centrale il Ulisse di James Joyce, che eleva il cammino a paradigma letterario moderno. Ambientato in un solo giorno, a Dublino, Ulisse trasforma una serie di eventi quotidiani in un’odissea interiore. Il viaggio di Leopold Bloom è una mappa complessa di emozioni, pensieri, memorie, incontri e riflessioni.

Joyce mostra come la realtà percepita sia un flusso di coscienza dove il vero e il fittizio si intrecciano, dove la vita è al contempo concreta e simbolica. Nel suo romanzo, il cammino fisico e quello mentale si fondono, raccontando la frammentazione e la ricomposizione del sé.

L’esperienza di Winn, pur lontana dalle sperimentazioni linguistiche di Joyce, condivide questa dimensione: il cammino reale sulla costa inglese diventa un percorso di riscoperta di sé, di confronto con la vulnerabilità, di trasformazione. La rigidità del “dato di fatto” perde senso di fronte all’idea che ogni narrazione è anche un viaggio nella soggettività.

Che tipo di lettori e spettatori vogliamo essere?

Forse il nodo cruciale della questione riguarda proprio l’atteggiamento di chi legge o guarda. Siamo pronti ad accettare la complessità del racconto autobiografico, la sua natura ibrida tra fatto e finzione? Siamo disposti a sospendere il giudizio e ad abbracciare una verità più fluida, che non risiede nell’esattezza documentaria, ma nella profondità emotiva?

Oppure pretendiamo da ogni storia solo conferme oggettive, dimenticando che la letteratura — e in parte il cinema — sono sempre ricerca di senso, invenzione di forme, mediazioni tra realtà e immaginazione?

Come sottolineava Italo Calvino, la letteratura non è mai mera trascrizione del mondo, ma ricerca di una forma che permetta di raccontarlo: una forma necessariamente costruita, scelta, inventata.

Conclusione: poesia, responsabilità e il valore della narrazione

The Salt Path — sia come libro che come film — è un invito a riflettere sul rapporto complesso tra esperienza vissuta e narrazione, tra realtà e finzione. Non si tratta di giustificare ogni possibile imprecisione, ma di riconoscere che scrivere la propria storia è sempre un atto creativo, che deve bilanciare responsabilità verso il lettore e necessità di esprimere l’intimità più profonda.

La finzione non è allora nemica della verità, ma suo complemento, strumento per raccontare ciò che il semplice fatto non può dire: la speranza, la trasformazione, la resilienza.

Il sentiero del sale è così un viaggio doppio: geografico e simbolico, un cammino nella natura e nel cuore fragile e indomito dell’umano, che, come in Joyce, si misura con la complessità della vita e con il potere salvifico della narrazione.

Carlo Di Stanislao

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