“Conoscevano i segreti delle erbe, delle piante, degli animali, dei sassi, leggevano nelle stelle” Aurelio Garobbio
Chi custodisce oggi i nomi delle valli, delle pietre, dei venti?
Viviamo un’epoca senza invocazione. Tutto è spiegato, svelato, vivisezionato – e dunque sterile. L’uomo moderno, uomo terminale, si è ritratto dall’enigma, dal sogno, dalla ferita che parla. I poeti un tempo erano veggenti, voci del non visto; oggi si limitano a raccontare sé stessi in versi ben torniti. Il canto è diventato competizione, estetica, ego; non è più necessità, non è più rito, non è più soglia.
Ci fu un tempo – e forse ancora c’è – in cui la parola era carne e fuoco. In Irlanda, il poeta non era solo cantore, ma ollam: un sapiente, uno sciamano, un guardiano. L’ollam conosceva i linguaggi invisibili, pronunciava oracoli, vegliava sui re, custodiva l’equilibrio tra il mondo visibile e quello spirituale. Non scriveva per fama, ma per necessità. Non per esistere, ma per dare esistenza alle cose. Il suo canto non era ornamento: era fondazione.
Il mondo, ci dice il mito, nasce parlando. “In principio era il Verbo”, certo. Ma anche: “Dio disse: sia la luce”. Parlare, nel senso profondo del verbo, è creare. Dare nome, dunque, è generare. E perdere il nome, dimenticare il canto, è essere spersi.
T.S. Eliot lo sapeva bene, quando cantava la deriva del sacro: “The nymphs are departed”, le ninfe se ne sono andate, e al loro posto si agitano i banchieri della City, vuoti come bottiglie gettate nel fiume. Dove il canto manca, anche gli dèi se ne vanno. E resta solo l’asfalto.
Nel cuore delle Alpi, Aurelio Garobbio ha raccolto le ultime faville del mito. Le sue Leggende delle Alpi Lepontine sono frammenti di un cosmo che parla ancora agli uomini – se solo essi sapessero ascoltare. Ci sono draghi, fate, ninfe, isole verdi perdute tra i ghiacciai, uomini che parlano con le bestie, e monaci invisibili che seguono le stelle come cani. Ogni racconto è un invito a entrare in un’altra percezione: quella in cui il mondo è anima e significato, e non semplicemente cosa.
In quelle storie il tempo si fa poroso, lo spazio si piega. Un uomo incontra le ninfe in un lago e scompare con loro. Un altro varca un Eden nascosto e dimentica la paura. Un pastore scopre che l’erba parla. In tutto questo non c’è evasione, ma ritorno: ritorno all’origine, al linguaggio che precede la parola.
Forse, è questo che manca oggi: la capacità di stare nella soglia. Di vivere l’ambiguità del mistero senza doverla risolvere. Di essere attraversati, non dominatori. Il poeta, nel suo senso più alto, è colui che si lascia abitare dal canto del mondo. Non possiede nulla – ma tutto lo attraversa. È un tramite. Uno sciamano. Un bambino.
Nel piccolo, grande mondo di Garobbio – ma anche nei versi di Hughes, nei sogni di Nabokov, nei dipinti di Segantini – resiste ancora questa nostalgia. Non è semplice rimpianto del passato: è desiderio di interezza. Di uno sguardo che non separi. Di una lingua che non analizzi, ma unisca. Che non descriva, ma evochi.
C’è una scena, tra le più suggestive, che Garobbio racconta a proposito del monte Zeda. Un angelo rudimentale schiaccia un demonio-serpe. Ha il volto di lupo, le ali d’airone. Una figura impossibile, sgraziata, eppure sacra. Nessun pittore accademico avrebbe saputo darle quella forza. Perché lì, in quella cella sperduta, non c’era arte, ma rito. Non c’era forma, ma presenza.
L’angelo del monte Zeda è, forse, l’ultima immagine rimasta del poeta come mediatore tra terra e cielo. Non bello, non raffinato, non accettabile nei salotti. Ma necessario. Come il fuoco. Come il silenzio.
La letteratura – quella vera – non è evasione, ma immersione. È un atto sciamanico. Un viaggio sotto la pelle delle cose. Non serve essere laureati per compierlo. Serve, piuttosto, disimparare. Ascoltare. Perdere l’io, e diventare luogo.
Il poeta che vale – oggi come sempre – è colui che muore al mondo per dare al mondo parola. Colui che, come l’ollam, si fa vuoto perché l’altro possa parlare. Che si siede sulla soglia del castello e digiuna, se necessario. Perché ha compreso che non si scrive per sé, ma per il nome perduto. Per l’incanto dimenticato.
Nel cuore dell’Ossola, tra gli anfratti del Rosa e le valli dimenticate, ancora oggi qualcuno potrebbe sentire, di notte, un canto. Non viene da una bocca. Non ha parole. È un suono che vibra nella pietra, nel vento, nella neve. Quel canto – se lo si ascolta davvero – svela i nomi. Cura. Richiama.
Carlo Di Stanislao