“Il vero dramma italiano non è l’illegalità, ma la legalità come alibi dell’ingiustizia.” Piero Calamandrei
Da decenni, l’Italia sembra camminare con il freno a mano tirato. Non per carenza di idee, né per mancanza di risorse. Il nostro è un Paese ricco di intelligenze, cultura, capitale umano e voglia di fare. Ma resta incatenato a tre fenomeni tanto antichi quanto corrosivi: familismo amorale, raccomandazioni e burocrazia labirintica. Tre elementi che si rafforzano a vicenda, creando un ecosistema tossico che distrugge il merito, demotiva i cittadini onesti, alimenta la fuga dei giovani e sabota ogni tentativo di riforma.
Queste non sono solo piaghe morali, ma meccanismi strutturali. Producono disuguaglianza, bloccano l’ascensore sociale, alimentano la disaffezione verso le istituzioni e trasformano la pubblica amministrazione in una fortezza inespugnabile, più orientata all’autoconservazione che al servizio.
Familismo amorale: la repubblica dei parenti
Il familismo, nella sua forma amorale, è l’atteggiamento culturale per cui l’unica lealtà vincolante è verso la propria famiglia o cerchia ristretta. In questa logica, lo Stato non è una casa comune ma un bottino da spartire. Ogni atto è giustificabile se porta un vantaggio al “mio”: mio figlio, mio cugino, il mio amico.
In Italia questo atteggiamento è trasversale. Si ritrova nella politica, dove gli incarichi vengono tramandati di padre in figlio come feudi medievali. Si ritrova nell’università, dove le carriere spesso dipendono da cordate accademiche e non da meriti. Si ritrova nel lavoro, dove il “segnalato” passa sempre avanti, mentre i curricula migliori restano nei cassetti.
Ma il familismo non è solo un difetto di costume: è una strategia di potere. È la risposta disfunzionale a una sfiducia cronica nello Stato. Se lo Stato non funziona, mi affido alla rete dei miei. Se la giustizia è lenta, trovo scorciatoie. Se i concorsi sono truccati, tanto vale truccarli anche io.
Questo clima genera un’Italia “tribale”, dove l’interesse privato trionfa sul bene comune. Dove le istituzioni diventano contenitori svuotati di autorità. Dove il cittadino non si sente parte di un progetto collettivo, ma semplicemente spettatore o complice di un gioco truccato.
Raccomandazioni: il curriculum occulto
La raccomandazione è il volto operativo del familismo. È il canale invisibile con cui si ottiene ciò che, in teoria, dovrebbe essere conquistato con il merito. È la valuta con cui si scambiano favori, posizioni, privilegi. E in Italia è ancora percepita non come una vergogna, ma come un’arma in più. Se non la usi, sei un ingenuo. Se la usi, sei “furbo”.
Ma una società che premia la furbizia al posto della competenza è una società che implode. La raccomandazione uccide la concorrenza leale, svilisce i talenti veri, demoralizza chi studia, chi si impegna, chi spera di farcela con le proprie forze. È la negazione stessa dell’articolo 3 della Costituzione, che parla di pari opportunità e rimozione degli ostacoli.
E non riguarda solo il settore pubblico: anche nel privato, spesso, i posti vengono assegnati con logiche relazionali più che professionali. Il risultato? Un mercato del lavoro stagnante, in cui l’età media sale e l’innovazione langue. Una gioventù demotivata. E un’Italia che continua a perdere i suoi migliori talenti, attratti da Paesi in cui il merito è davvero riconosciuto.
Burocrazia labirintica: il potere del nulla
L’altro grande ostacolo alla modernizzazione del Paese è la burocrazia. Ma non parliamo di una semplice lentezza amministrativa. Parliamo di un sistema autoreferenziale, complicato, punitivo. Una macchina costruita più per difendersi che per servire. Ogni pratica è un percorso a ostacoli. Ogni permesso richiede certificati su certificati. Ogni impresa deve superare montagne di carte e infinite attese.
Questa iper-regolazione non tutela il cittadino, ma lo disorienta. È un sistema che produce insicurezza, perché nulla è mai davvero chiaro. Una zona grigia che crea spazio per l’abuso, la corruzione, il clientelismo. E che finisce per scoraggiare chi vuole fare impresa, innovare, rischiare.
Peggio ancora, in molti casi le norme sono costruite apposta per essere aggirate da chi ha i mezzi, lasciando solo i cittadini comuni invischiati nel pantano normativo. Così la burocrazia diventa classista: i potenti la dominano, i deboli ne restano schiacciati.
Cosa fanno gli altri Paesi?
Guardando all’estero, la domanda è inevitabile: è davvero impossibile cambiare? La risposta è no. Perché molti Paesi, anche con culture latine simili alla nostra, hanno scelto la strada dell’efficienza, della trasparenza, della responsabilità.
Nei Paesi nordici la burocrazia è completamente digitalizzata. I servizi si svolgono online in pochi click. Ogni cittadino ha accesso ai propri dati, ogni passaggio è tracciabile. Il merito è premiato e chi favorisce amici o parenti in modo illecito viene escluso, se non denunciato.
In Germania, il concorso pubblico è una cosa seria. I criteri sono chiari, le selezioni sono rigorose, le procedure sono snelle. La pubblica amministrazione non è un rifugio per inetti ma un corpo professionale che risponde con rigore e trasparenza. La distinzione tra funzione tecnica e politica è netta e rispettata.
Nel Regno Unito, se un ministro nomina un parente in modo inappropriato, si dimette. I giornali non lo coprono, lo attaccano. L’opinione pubblica è sensibile e reagisce. La pressione della trasparenza funziona come deterrente. Chi è nel pubblico sa che deve rispondere delle proprie azioni.
La Spagna, pur partendo da problemi simili, ha avviato una serie di riforme orientate alla digitalizzazione, all’efficienza e all’apertura delle carriere pubbliche. Certo, le resistenze ci sono, ma si avverte un clima di maggiore mobilità sociale rispetto al nostro immobilismo.
Gli Stati Uniti, pur con forti disuguaglianze economiche, hanno un sistema di selezione basato su performance, concorsi pubblici trasparenti, e una cultura della competizione che premia i risultati. Lì, raccomandare un incompetente può significare perdere la faccia e il posto.
E noi?
L’Italia ha una scelta da fare. Può continuare a galleggiare nel proprio immobilismo, tra favoritismi, inefficienze e clientele. Oppure può decidere, finalmente, di voltare pagina. Ma per farlo non bastano riforme di facciata. Serve un cambiamento culturale profondo. Serve dire con chiarezza che il merito non è un nemico, ma una condizione di giustizia. Che lo Stato non è una mucca da mungere, ma una responsabilità collettiva. Che le regole non devono essere un labirinto, ma una strada tracciata per tutti.
Il mio giudizio
Credo che siamo davanti a una delle battaglie decisive per il futuro del Paese. Non possiamo più accettare che intere generazioni siano tenute fuori dai giochi per mancanza di protezioni o agganci. Non possiamo accettare che i migliori se ne vadano, mentre i mediocri restano grazie a un colpo di telefono. Non possiamo accettare che fare impresa significhi passare anni a combattere contro il muro di gomma dell’apparato pubblico.
Bisogna restituire dignità al lavoro, alla competenza, all’etica pubblica. Bisogna avere il coraggio di dire che chi raccomanda o si fa raccomandare sta rubando il futuro a qualcun altro. Bisogna semplificare le leggi, digitalizzare i servizi, assumere per concorso e premiare chi lavora bene.
Conclusione: cambiare si può, ma serve una rivoluzione morale
L’Italia non è condannata. Ma deve scegliere. E deve farlo in fretta. O continueremo a perdere capitale umano, energie, rispetto internazionale. La buona notizia è che il cambiamento è già cominciato, in silenzio, nella parte migliore della società civile. Nei giovani che resistono. Nei funzionari che lavorano con coscienza. Nei sindaci che tagliano burocrazia. Nei cittadini che non si piegano.
A loro va data voce, potere, spazio. Solo così potremo trasformare il Paese dei favori in un Paese dei diritti. E restituire alla parola “Italia” il significato che merita.
Carlo Di Stanislao