In un’epoca in cui la parola “filosofia” viene inflazionata fino a diventare sinonimo di opinione personale, marketing culturale o militanza politica, tornare a Emanuele Severino è un atto radicale. Non una commemorazione, non un culto intellettuale, ma un ritorno al pensiero nel senso più rigoroso del termine: pensare l’essere, ciò che è, ciò che non può non essere.
Questo ritorno è il cuore del nuovo libro di Leonardo Messinese, ordinario di Metafisica alla Pontificia Università Lateranense, che da decenni si confronta con Severino con uno sguardo doppio: quello del filosofo che ha fatto della metafisica la sua vocazione, e quello del credente consapevole che un solo Maestro è definitivo. È proprio questa doppia fedeltà — alla ragione e alla rivelazione — che rende la sua voce unica nel panorama italiano. Il suo non è un commento reverente, ma un dialogo critico che non elude mai la vertigine.
Il pensiero di Severino è forse il più potente tentativo del nostro tempo di distruggere il nichilismo alla radice, affermando che l’essere è eterno e che il divenire è un’illusione. L’essere non nasce, non muore, non diventa: è. Ogni cosa che è, è necessariamente. Una tesi che, se presa sul serio, scardina duemilacinquecento anni di filosofia occidentale — da Platone a Heidegger — e infrange anche il cuore della tradizione cristiana, fondata sull’idea della creazione e della redenzione. È qui che Messinese entra in campo: non per respingere Severino, ma per confrontarlo con la verità teologica, in un corpo a corpo che non cede alla compiacenza.
Eppure, mentre Severino e Messinese si muovono sul crinale estremo del pensiero, i filosofi contemporanei si aggirano nel giardino della cronaca, discutendo se l’identitarismo sia di destra o di sinistra, se il concetto di “woke” sia compatibile con l’universalismo, se la giustizia sociale debba passare prima dalla razza o dal genere. Temi legittimi, senza dubbio. Ma secondari. Anzi: derivati.
Un caso esemplare è Susan Neiman. Nel suo libro La sinistra non è woke, Neiman tenta una difesa illuminista della sinistra, sostenendo che l'identitarismo radicale e il vittimismo perpetuo minano i fondamenti morali del progressismo. È un testo lucido, scritto con onestà e intelligenza. Eppure, resta bloccato nel campo dell’etica e della politica culturale. La sua idea di “ragione” è figlia dell’Illuminismo, cioè di una modernità già compromessa con il nichilismo secondo Severino.
Neiman critica la deriva woke perché rinuncia all’universalismo, ma non si chiede cosa fondi l’universalismo stesso. Non problematizza l’essere, ma soltanto i modi del suo racconto. In tal senso, resta una pensatrice dell’epoca, non del fondamento. Il suo è un pensiero reattivo, che lotta contro i sintomi ma ignora la malattia. È filosofia morale, ma non metafisica. E oggi abbiamo bisogno dell’una solo se è fondata sull’altra.
Questo limite è sintomatico anche di un più ampio orizzonte culturale: quello statunitense. Gli Stati Uniti non hanno mai espresso un grande filosofo in senso pieno, perché la loro struttura mentale non è filosofica, ma pragmatica, volontaristica, operativa. È la mentalità dei padri pellegrini della Mayflower, che sbarcano non per interrogarsi sull’essere, ma per costruire una città sulla collina, armati di Bibbia e fucile. È la cultura del self-made man, del pensiero come strumento, non come fine. Una cultura da cowboy di frontiera, che ammira il pensiero solo se produce effetti. E la filosofia — quella vera — non produce, non serve: semplicemente, è.
In questo scenario, dominato da “filosofi pubblici” che spesso sono poco più che opinionisti intellettualmente addestrati, leggere Severino — e ancora più leggere Severino con Messinese — significa ricordare che la filosofia non è intrattenimento né commento. È, per dirla con Platone, epistéme: sapere necessario. E oggi quasi nessuno ha il coraggio di praticarlo.
La degenerazione contemporanea consiste nel sostituire la domanda “che cos’è?” con “che cosa ne pensi?”. Il pensiero diventa opinione, la verità diventa consenso, la realtà diventa percezione. In questo orizzonte, Severino è uno scandalo: afferma che l’essere è, e basta. Non si costruisce, non si narra, non si negozia. Si impone.
Messinese ha saputo raccogliere questa eredità senza farsi schiacciare. Il suo lavoro non è esegetico, ma creativo. Non è un’agiografia, ma una presa di posizione. Dimostra che si può essere filosofi senza essere zerbinotti del dibattito culturale, che si può interrogare Severino senza rinnegarlo, che si può pensare Dio senza svuotare l’essere.
Il suo libro è un atto di pensiero in un tempo che ha smesso di pensare. Non cerca consensi né visibilità. Cerca verità. E proprio per questo andrebbe letto da chi ancora crede che la filosofia non sia solo mestiere, ma destino.
Carlo Di Stanislao