Simona D'Angelo, regista, autrice teatrale, docente di teatro, attrice, teatroterapeuta e coreografa si racconta - INTERVISTA di Andrea Giostra.
Qual è il
tuo percorso accademico, formativo, professionale ed esperienziale che hai
seguito e che ti ha portato a fare quello che fai oggi, vestendo i panni della
regista, autrice teatrale e coreografa?
Mi sono
laureata in Lettere moderne, vecchio ordinamento, con indirizzo Discipline
dello Spettacolo presso l’Università La Sapienza di Roma nel 2003, con una tesi
sul Teatro e lo Spettacolo a Palermo tra il XVII e XVIII secolo. Durante il mio
periodo di permanenza a Roma, ho partecipato a gruppi di ricerca di teatro
sperimentale e ho frequentato stimolanti e interessanti workshop e laboratori
teatrali condotti da attori e registi noti come Gigi Proietti, Michele Placido
e altri attori meno noti, che hanno arricchito il mio bagaglio formativo.
È stato
importante e formativo/esperienziale il periodo trascorso a Palermo con i
laboratori teatrali di Giuditta Lelio e, successivamente, con la compagnia
"I Tespiadi", capitanata dal Maestro Enzo Pipi. Attraverso il suo
esempio, il maestro Pipi, mi ha insegnato l’amore e la dedizione per il teatro.
Ricordo ancora quando andò in scena con due costole rotte pur di non far
saltare la prima de Il Paraninfo (L. Capuana) presso il Teatro
Ranchibile. Dopo la morte di Enzo Pipi,
mi sono dedicata al teatro di ricerca, alla scrittura e alla direzione di
piccole compagnie.
Colui che mi
ha donato la vera essenza dell’arte teatrale e una formazione umana, oltre che
artistica, è stato il maestro Pino Caruso, che, attraverso aneddoti ed
esperienze di vita quotidiana, mi ha insegnato l’arte di emozionarmi ed
emozionare. Penso che un maestro e un allievo si scelgano: è un legame che non
accade per caso. Sicuramente il suo vissuto umile e la sua semplicità sono
stati un esempio di un buon percorso artistico, costruito sullo studio e sulla
lealtà, senza compromessi e favoritismi.
La danza è
stata il mio primo amore, la prima forma d’arte a cui mi sono approcciata. La
mia formazione è avvenuta a Siracusa, la mia città natale, per poi proseguire,
prima del diploma, tra Roma e Milano. La mia danza si ispira a Pina Bausch e al
suo inconfondibile modo di comunicare attraverso il corpo, alla libertà di
movimento e alla capacità di esprimere emozioni e disagi tramite il corpo. Le
mie coreografie raccontano con il corpo e denunciano spaccati della società
(bullismo, immigrazione, violenza sulle donne, spose bambine, diritti
dell’infanzia.
Come nasce
la tua passione per la scrittura e per il teatro? Chi sono stati i tuoi maestri
e quali gli autori e i registi che, da questo punto di vista, ti hanno segnato
e insegnato ad amare il teatro, i libri, le storie da scrivere e raccontare, la
lettura, la scrittura e l’arte nelle sue varie forme espressive?
La passione
per il teatro e l’arte in generale è nata con me; non è una cosa che è venuta
dopo, è insita in me. Da piccola non ho mai giocato con bambole o con i giochi
delle bambine. Io giocavo con i giradischi, cambiando i vari dischi in vinile,
danzando e registrando la mia voce con il mangianastri. Ricordo perfettamente,
come se fosse oggi, il primo proiettore 16 mm che acquistò mio padre. Era il
1981 e rimasi incantata da quel fascio di luce che proiettava immagini sul
muro; da quel momento imparai a memoria tutte le parti dei film di Ornella Muti
e trovai subito geniale Carlo Verdone.
A proposito
del modo di giocare della mia infanzia, mi collego a una frase di colui che è
stato il mio grande maestro di teatro, ma anche di vita, come accennavo nella
risposta precedente: Pino Caruso. Lui mi diceva: “C’è sempre, nella nostra
infanzia, qualche segno dell’attività a cui ci dedicheremo da grandi. O almeno
così ci sembra.” Mi raccontò un aneddoto: si trovava a scuola, avrà avuto circa
9 anni, quando la maestra chiese alla classe chi sapesse in che anno Giulio
Cesare varcò il Rubicone. Nessuno rispose, lui alzò la mano spinto da un
impulso di protagonismo, ma fece scena muta. Tuttavia, alla sua vanità era
bastato quell’attimo di stupore da parte della maestra e dei compagni.
Pino Caruso
mi ha insegnato l’arte rara dell’umiltà, la passione e la curiosità per
l’essere umano in tutte le sue complicate sfaccettature. Mi ha insegnato a
navigare nel mare tempestoso dell’arte, e la sua scomparsa fu per me una grande
perdita umana, oltre che professionale.
Ci parli dei
tuoi lavori teatrali e dei tuoi scritti? Quali sono, come nascono, qual è
l’ispirazione che li ha generati e quale il messaggio che vuoi che arrivi al
lettore o allo spettatore?
Parto dal
presupposto che io scrivo per esigenza: la mia drammaturgia nasce
spontaneamente, ad esempio da una scena vista per strada, da un profumo, da uno
sguardo, da una stretta di mano... Quindi direi che nasce per caso. Non scrivo
su commissione, mi sentirei snaturata, ma penso che questo capiti a tutti
coloro che fanno questo lavoro (sottolineo lavoro). I miei lavori teatrali, ma
anche coreografici, hanno sempre una finalità educativa o pedagogica perché
credo fermamente nel potere educativo dell’arte in generale. Pertanto, anche
nei lavori teatrali più comici, lo spettatore andrà via dal teatro con uno
spunto di riflessione.
Tanti gli
argomenti sociali trattati: bullismo, violenza sulle donne, omofobia,
immigrazione, disabilità, clochard, dipendenze dal gioco, legalità, spose
bambine, diritti delle donne nel mondo, ecc. Ad oggi, vanto di aver scritto e
diretto 38 spettacoli teatrali, diretto 6 lungometraggi, 3 spot e 5 videoclip.
Una domanda
difficile, Simona: perché i nostri lettori dovrebbero vedere le tue opere e
comprare i tuoi libri? Prova a incuriosirli affinché vadano a teatro o sui
canali streaming per vedere le tue opere, oppure in libreria o nei portali
online per acquistare i tuoi libri.
Il secondo
motivo è che, dopo 11 anni, attraverso Il trenino di latta, sono tornata
in scena come attrice con la regia del grande Pietro De Silva. Sono felice di
essere stata diretta da un artista di fama nazionale come lui. Basta ricordare
il film Premio Oscar La vita è bella di Roberto Benigni, in cui lui è
coprotagonista in questo magnifico capolavoro. Il suo apprezzamento per Il
trenino di latta è stato per me uno stimolo in più per continuare a credere
in ciò che faccio.
La sua
geniale regia e la sua incommensurabile esperienza di attore sono stati per me
una bella scuola formativa; ho arricchito il mio bagaglio artistico, ma
soprattutto umano, perché Pietro è principalmente una bella persona, oltre ad
essere un grande professionista.
Perché 11
lunghi anni di pausa dalle scene come attrice?
In questi
lunghi 11 anni mi sono dedicata alla crescita della mia accademia,
all’insegnamento della recitazione e alla regia, ma soprattutto a mio figlio
Andrea. Andare in scena richiede un grande sacrificio sia a livello di tempo
che di energie, ed essendo consapevole di ciò, ho preferito dedicarmi allo
spettacolo più bello che la vita mi abbia regalato, ovvero mio figlio. I figli
sono un dono, hanno la capacità di spostare il baricentro, tolgono l’attenzione
da te stessa. Un figlio ti insegna la grande capacità che ogni essere umano ha
di donarsi senza ricevere nulla in cambio: una grande lezione di umiltà.
Dopo la
nascita di Andrea è cambiato il mio modo di vedere le cose e, sicuramente, per
riflesso, il mio modo di vivere il palcoscenico. La mia ovviamente non è stata
una rinuncia, ma una “scelta” che mi ha reso felice. Adesso che lui è più
grandicello, anche lui un piccolo artista (fa parte del coro di voci bianche
del Teatro Massimo di Palermo, studia pianoforte e clarinetto), ho deciso che
questo è il momento giusto per riprendere da dove ho lasciato, ovviamente ripartendo
con una marcia in più.
«Appartengo
a quella categoria di persone che ritiene che ogni azione debba essere portata
a termine. Non mi sono mai chiesto se dovevo affrontare o no un certo problema,
ma solo come affrontarlo.» (Giovanni Falcone “Cose di cosa nostra” VII ed.
Rizzoli libri spa, Milano 2016, p. 25 | I edizione 1991). Tu a quale categoria
di persone appartieni, volendo rimanere nelle parole di Giovanni Falcone? Sei
una persona che punta un obiettivo e cerca in tutti i modi di raggiungerlo con
determinazione e impegno oppure pensi che conti molto il fato e la fortuna per
avere successo nella vita e nelle cose che si fanno, al di là dei talenti
posseduti e dell’impegno che mettiamo in ciò che facciamo?
Ti racconto
un aneddoto che riguarda una parte della mia vita e che trasversalmente
risponderà alla tua domanda. Undici anni fa ho deciso di lasciare il mio posto
fisso, il famoso colpo di testa, per inseguire il mio piccolo sogno: aprire
un’accademia di spettacolo che comprendesse tutte le arti sceniche e che desse
spazio anche alle persone speciali. Tu dirai: "Ok, fattibile!" Certo,
ti rispondo. Ma il problema era uno: non avevo una sufficiente disponibilità
economica per creare di sana pianta il mio progetto e dovevo ripartire da zero.
Ma tutto ciò non mi ostacolava.
Ho cercato
un posto favorevole per aprire la mia creatura, e lo trovai come lo volevo. Ho
messo in atto tutta la mia creatività per creare un ambiente accogliente,
utilizzando materiale di riciclo o arredamento donato da amici cari (le porte
di colore blu, ad esempio, sono porte di un ex hotel, la scrivania e i mobili
dell’ufficio mi furono donati da una mia cara amica). Contro tutto e tutti e
con tanti sacrifici, ho iniziato a costruire un centro artistico dove le
differenze vengono annullate e dove l’accoglienza regna sovrana. Insomma, un
posto magico. Oggi il mio piccolo mondo ha 11 anni di vita, e con la forza
dell’amore è rimasto in piedi nonostante tutte le avversità del periodo storico
(Covid, crisi economica e sociale). Oggi è diventato strepitosamente perfetto:
una sala danza, due sale musica, un piccolo teatrino di 40 posti dedicato a
Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, che vanta al suo interno il primo pianoforte
di studio usato da Franco Franchi, donato con affetto e stima dai figli del
famoso artista alla Piccola Accademia dei Talenti. Insomma, come diceva Walt
Disney: “Se puoi sognarlo, puoi farlo.” Ed io amo sognare in grande.
«… mi sono
trovato più volte a riflettere sul concetto di bellezza e mi sono accorto che
potrei benissimo (…) ripetere quanto rispondeva Agostino alla domanda su cosa
fosse il tempo: “Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me
lo chiede, non lo so.”» (Umberto Eco “La bellezza” GEDI gruppo editoriale ed.
2021, pp. 5-6). Per te cos’è la bellezza? Prova a definire la bellezza dal tuo
punto di vista. Come si fa a riconoscere la bellezza nel teatro, nella
scrittura, nell’arte, nella vita secondo te?
Per quanto
riguarda il concetto di bellezza, mi associo al pensiero di Pericle e Platone,
che definivano la bellezza, kalòs, come un inseparabile trinomio tra
bello, vero e buono, legando la bellezza a valori interiori e morali, ad
un’elevazione dello spirito. Quindi, bellezza che dona soddisfazione
abbracciando tutti i cinque sensi e che non si limita a compiacere la sfera fisica,
ma invade anche la nostra anima. Comunicare bellezza è il compito primario di
ogni arte, e la bellezza si riconosce quando l’opera suscita emozioni,
coinvolgendo tutti i sensi.
«Io vivo in
una specie di fornace di affetti, amori, desideri, invenzioni, creazioni,
attività e sogni. Non posso descrivere la mia vita in base ai fatti perché
l’estasi non risiede nei fatti, in quello che succede o in quello che faccio,
ma in ciò che viene suscitato in me e in ciò che viene creato grazie a tutto
questo… Quello che voglio dire è che vivo una realtà al tempo stesso fisica e
metafisica…» (Anaïs Nin “Fuoco” in “Diari d’amore” terzo volume 1986). Cosa
pensi di queste parole della grandissima scrittrice Anaïs Nin? E quanto l’amore
e i sentimenti così poderosi sono importanti per te e incidono nella tua arte?
Io sono una
donna che vive e si alimenta grazie alle emozioni… Mi piace la mia capacità di
emozionarmi alla vista delle semplici cose, come due anziani innamorati che
passeggiano mano nella mano, un bambino che accarezza un cane, un nuovo frutto
che spunta su un albero. Insomma, mi piace cogliere le piccole cose semplici,
ed è dall’attenzione a questi piccoli particolari che nascono le mie opere.
Penso che
l’amore, e per riflesso i sentimenti, siano il motore della creatività. La
creatività nasce e viene mossa da un sentimento. Nella fase di piattezza
sentimentale, l’artista non crea. Anzi, soffre perché non riesce a generare
bellezza. Le mie opere teatrali sono nate tutte spontaneamente a seguito di un
sentimento, bello o brutto, percepito nella quotidianità. Anche uno sguardo che
trasmette emozioni, per me, diventa motore della creatività e spunto di
scrittura o per realizzare prodotti audiovisivi.
Per
concludere: non c’è arte senza amore e sentimenti.
Charles
Bukowski, grandissimo poeta e scrittore del Novecento, artista tanto geniale
quanto dissacratore, in una bella intervista del 1967 disse: «A cosa serve
l’Arte se non ad aiutare gli uomini a vivere?» (Intervista a Michael Perkins,
Charles Bukowski: the Angry Poet, “In New York”, New York vol. 1, n. 17, 1967,
pp. 15-18). Tu cosa ne pensi in proposito? Secondo te a cosa serve l’Arte della
recitazione, del teatro, ma anche della narrazione, del raccontare, dello
scrivere?
Innanzitutto
non oso immaginare un mondo senza arte (musica, teatro, pittura, ecc.). Per me
l’arte, in generale, è “salvifica” sia per chi la fa, sia per chi la assiste.
L’arte ci permette di creare rifugi sognanti dove poter esprimere la nostra
vera essenza. Dal punto di vista di docente di recitazione e teatroterapeuta,
penso che il teatro sia un’ottima scuola di empatia, l’arte di riuscire a
immedesimarsi nei panni degli altri, oltre a riconoscere e gestire le proprie
emozioni e migliorare, per riflesso, l’autostima. Continuo a sostenere l’idea
di fare teatro nelle scuole come attività curriculare.
«Ti
criticheranno sempre, parleranno male di te e sarà difficile che incontri
qualcuno al quale tu possa piacere così come sei! Quindi vivi, fai quello che
ti dice il cuore, la vita è come un'opera di teatro ma non ha prove iniziali:
canta, balla, ridi e vivi intensamente ogni giorno della tua vita prima che
l'opera finisca priva di applausi.» Fu Charlie Chaplin (1889-1977) a dire
queste parole. Tu cosa ne pensi?
Riassumo la
risposta con un motto che mi fa vivere bene: “Non si può piacere a tutti”!
Ovviamente, per essere consapevoli e credere in questa frase, bisogna avere una
grande dote di autostima, che io ho acquisito in questi lunghi anni di
esperienza. Prima ero molto suscettibile al giudizio degli altri: se una mia
regia, opera teatrale o performance non piaceva, non riuscivo ad accettarlo, lo
vedevo come una sorta di sconfitta personale perché il mio obiettivo era quello
di ottenere il consenso dal maggior numero di persone possibile. Con il tempo e
l’esperienza, ho capito che, come disse Giulio Cesare: “De gustibus non
disputandum est”, ovvero sui gusti non si può discutere. Ovviamente il gusto e
la qualità sono due cose diverse. I miei lavori possono anche non piacere, ma
cerco di rispettare sempre il principio della qualità.
«Non mi
preoccupo di cosa sia o meno una poesia, di cosa sia un romanzo. Li scrivo e
basta… I casi sono due: o funzionano o non funzionano. Non sono preoccupato
con: "Questa è una poesia, questo è un romanzo, questa è una scarpa,
questo è un guanto". Lo butto giù e questo è quanto. Io la penso così.»
(Ben Pleasants, The Free Press Symposium: Conversations with Charles Bukowski,
“Los Angeles Free Press”, October 31-November 6, 1975, pp. 14-16). Secondo te,
perché un romanzo, un libro o una raccolta di poesie abbiano successo è più
importante la storia (quello che si narra) o come è scritta (il linguaggio
utilizzato, più o meno originale, armonico, musicale, accattivante per chi
legge), volendo rimanere nel concetto di Bukowski?
Sono
d'accordo con Bukowski: io scrivo e basta, funzionano o non funzionano. Scrivo
principalmente per una mia esigenza, poi ovviamente la condivisione con il
pubblico permette alla drammaturgia di prendere vita. Una cosa a cui tengo
molto è seguire la linea della qualità: mi piace gustarmi la creazione passo
dopo passo. Le storie vivono dentro di me per molto tempo, nascono da un lungo
travaglio immaginativo ma anche sensoriale; a volte impiego mesi, altre volte
pure anni.
Mi piace
dire cose profonde in modo semplice, con un linguaggio accessibile a tutti. Le
storie, le emozioni e i sentimenti si possono raccontare anche con i silenzi:
non credo ci sia bisogno necessariamente di un linguaggio forbito per arrivare
al cuore delle persone. Le parole semplici sono quelle più dirette e
funzionali. Il vero test, per noi artisti, è il pubblico: quando rimane
inchiodato alla poltrona, silenzioso e attento, con gli occhi sgranati per non
perdersi neanche un minimo dettaglio sul palco, allora possiamo dire di aver
raggiunto l’obiettivo. E, per citare Bukowski: “Il genio è un uomo capace di
dire cose profonde in modo semplice”.
Per te
cos’è, emotivamente, salire sul palco di un teatro o mettere in scena un’opera
teatrale? Come vivi questa dimensione artistica?
Salire su un
palco, per me, significa mostrare la mia autenticità. Essere autentici
significa entrare in contatto con la parte più vera di sé, significa non avere
più bisogno di nascondere a se stessi le proprie fragilità e non avere più
bisogno di indossare maschere. Ci sono voluti tanti anni per arrivare a un
consapevole stato di parziale autenticità.
Il teatro mi
ha salvato da un periodo buio: il 1995 è stato per me l’anno dei bruschi
cambiamenti, la separazione dei miei genitori, il cambio di città per
intraprendere gli studi universitari, delusioni amorose e vicissitudini varie.
Quindi distacchi, abbandoni e delusioni, tutto in un breve periodo. Ma la mia
ancora di salvezza è stata il teatro. Attraverso i personaggi che portavo in
vita, mi sono riscoperta un po' Mirandolina, un po' Giulietta, un po' Medea, un
po' Prassagora, e addirittura anche un po' Otello e un po' Pinocchio. Insomma,
un lungo training che mi ha permesso di sciogliere alcuni nodi. Dico alcuni,
perché la lotta e la ricerca della mia autenticità non è ancora terminata.
Penso che
alla fine ogni artista sia alla continua ricerca della propria autenticità, e
forse è proprio questa bizzarra ricerca che ci rende piacevolmente folli. Il
teatro e il palco sono un’ottima palestra di autenticità: guai a restarne
senza. Ricordo che avevo circa 5 anni quando andai con mio padre al teatro
Vasquez di Siracusa per assistere a uno spettacolo. Non ricordo il nome o il
contenuto, ma ricordo perfettamente di essere rimasta colpita dall’allestimento
scenico, dalle luci, dai costumi e dalla forte presenza scenica degli attori, e
soprattutto da un odore particolare che riempiva la sala, un odore che non
avevo mai sentito prima. Ora quell’odore ha per me una collocazione,
un’emozione e un’importanza: è l’inequivocabile odore di teatro. Quella sera, a
soli 5 anni, capii cosa volevo... stare su un palco! Sono passati 43 anni, e
quella scelta è diventata il mio unico punto fermo.
Se per un
momento dovessi pensare alle persone che ti hanno dato una mano, che ti hanno
aiutato significativamente nella tua vita artistica e umana, soprattutto nei
momenti di difficoltà e di insicurezza che hai vissuto, chi sono state quelle
persone determinanti per le tue scelte professionali e di vita, portandoti a
prendere quelle decisioni che ti hanno condotto dove sei oggi, a realizzare i
tuoi sogni? Chi sono queste persone che ti senti di ringraziare pubblicamente
in questa intervista e perché proprio loro?
Se mi
soffermo un attimo e penso a tutta la mia vita come se fosse la pellicola di un
film, ti dico che ad oggi mi sento di ringraziare Simona, ovvero me stessa.
Tutti gli obiettivi raggiunti sono frutto della mia determinazione. Ho sempre
agito con il cuore in ogni decisione presa e non ho mai ascoltato la ragione.
Ci sono stati alti e bassi nella mia vita, sicuramente dovuti a scelte
sbagliate, ma sono state “le mie scelte” e non quelle di qualcun altro.
Ovviamente sono stata circondata sempre da persone che hanno creduto in me e
nelle mie idee, e mi hanno lasciato fare. In primis la mia famiglia e,
soprattutto, mio marito.
"Ricevere premi internazionali è
sicuramente una grande soddisfazione per qualsiasi artista. Lei come vive
questi riconoscimenti? Si sente felice e gratificata dal modo in cui il suo
lavoro è stato accolto a livello globale?"
Ricevere
questi premi è stato per me un onore immenso e una grande fonte di gioia.
L'Oscar Awards sulla Creatività, conferitomi dalla Fondazione Costanza lo
scorso 19 giugno al Palazzo Butera di Bagheria, è stato un riconoscimento che
ha premiato non solo il mio lavoro, ma anche l'originalità e l'impegno che
metto in ogni progetto. È stato un momento di grande emozione, circondata da
persone che condividono la mia passione per l'arte.
Poi, il 16
settembre, ho avuto il privilegio di ricevere il prestigioso Premio
Internazionale Giovanni Paolo II al Palazzo Valentini di Roma. Questo
riconoscimento mi ha toccata particolarmente, perché celebra i valori
universali e la dedizione, ed essere premiata in questo contesto è stato per me
una conferma che l'arte può essere un ponte di connessione tra le persone e un
mezzo per ispirare e sensibilizzare.
A cosa stai
lavorando in questo momento e cosa puoi dirci dei tuoi lavori letterari e
teatrali in corso?
Da poco ho
terminato di scrivere una drammaturgia storica dal titolo Il profumo
dell’audacia, che racconta la storia, ad oggi poco conosciuta, delle
raccoglitrici di gelsomino della Piana di Milazzo, donne che rappresentano in
pieno lo spirito combattivo, la forza e l’arte di arrangiarsi tipica di noi
donne siciliane. Una storia tutta al femminile ambientata nel 1946.
Due
personaggi in scena: Alba, una scrittrice non vedente, e Lorenzo, un giovane
speaker radiofonico, che avrà il compito di svelare il segreto che tormenta
Alba. Ma chi sono realmente Alba e Lorenzo? A svelarlo sarà un inaspettato
finale pirandelliano, che travolgerà lo spettatore dentro le righe di un
racconto volutamente incompleto. Una storia di mistero e passione che vive in
uno spazio temporale della stessa durata di un fiore di gelsomino, ovvero la
notte.
Quali sono i
tuoi prossimi progetti e i tuoi prossimi appuntamenti che vuoi condividere con
i nostri lettori?
So che la
mia nuova drammaturgia vi ha incuriositi... pertanto vi aspetto il 23, 24, 25
maggio 2025 al Teatro Biondo / Sala Strehler con la prima nazionale dell’atto
unico “Il Profumo dell’Audacia – Cap IX”.
Come vuoi
concludere questa chiacchierata e cosa vuoi dire a chi leggerà questa
intervista?
Innanzitutto,
ringrazio tutti coloro che sono arrivati fino alla fine: vuol dire che hanno
trovato l’intervista interessante. Mi sento di chiudere questa intervista
invogliando i lettori a non smettere mai di sognare, e al contempo auguro a
tutti di trasformare i sogni in obiettivi. Come diceva Walt Disney, la
differenza tra un sogno e un obiettivo è semplicemente una data.
Buon tutto a tutti!