Turandot a Bruxelles, Stefano La Colla a Fattitaliani: il finale è sempre un mistero per me. L'intervista


Alla Monnaie di Bruxelles trionfa Turandot nella direzione musicale del Maestro Ouri Bronchti e la regia, la scenografia, i costumi e le luci di Christophe Coppens: il pubblico acclama l'Orchestra e gli artisti, fra cui Stefano La Colla nel ruolo di Calaf, il principe che risolve i tre enigmi per conquistare la principessa. Il pubblico attende sempre con trepidazione l'attacco dell'aria "Nessun dorma" e il tenore non delude le aspettative. Fattitaliani lo ha intervistato.
Turandot rimane sempre un enigma, un mistero quando la si affronta?
Anche Puccini nelle sue ultime versioni aveva sempre il dubbio sul finale. E io i finali li ho fatti tutti, da Berio a quello dove muore solo Liù a quello classico fino a quest'altro che ha rappresentato un altro "tagli e cuci" fino alla fine. Il finale è per me sempre un mistero: l'importante è portare sempre il rispetto soprattutto per la musica.
Il pensiero di reinterpretare ogni volta l'aria "Nessun dorma" che tutti attendono la inquieta o si concentra solo sulla tecnica e basta?
Ormai sono un po' di anni che canto Turandot: c'è la tecnica ovviamente, ma cerco più che altro di farmi trasportare dalla musica e in quel momento non c'è Stefano, c'è l'artista che vuole effondere le emozioni insieme alla musica. Una volta, un vecchio maestro mi disse: "Preferisco che tu mi sbagli una nota - non la devi sbagliare - ma voglio che tu mi dia un'emozione, perché il pubblico viene per quello. Che tu le faccia in maniera precisa e impeccabile ma fredda, significa che non hai trasmesso l'emozione". E io cerco ogni sera di fare del mio meglio per allietare il pubblico.

Fra i tre enigmi, quale preferisce?
Turandot (sorride, ndr).
E nel mondo dell'opera in generale quale grande enigma non ha ancora decifrato?
Quando ricanto gli stessi spartiti, capita di fare attenzione a dei particolari non riscontrati prima: ogni volta il bello, cambiando colleghi, teatri, produzioni, è ricercare qualcosa di nuovo ed è sempre una scoperta di nuove sfaccettature.
Chi la sostiene in questo cammino artistico?
La mia agenzia e la mia famiglia, sempre.
Facile gestire una carriera come la sua?
Affatto. Per esempio, sono fuori da casa da due mesi e mezzo: non è mai facile. L'ultima volta che sono stato in Australia, a causa del Covid, sono rimasto bloccato 110 giorni e non è stato facile sia fare la produzione di Aida sia stare dall'altra parte del mondo. In queste situazioni ti senti un poco solo, ma per fortuna cerchiamo la compagnia nella musica. D'altronde, c'è scritto nel nostro contratto "Sei un solista", quindi ci devi fare i conti.

Si sente già arrivato?
Non c'è mai un punto di arrivo. Una volta dissi a Luciano Pavarotti "Maestro, Lei ha studiato tanto" e lui mi rispose "No, sto continuando a studiare". Non si finisce mai perché il fisico cambia, cambia anche la percezione: diventando più grandi, c'è l'amore e la consapevolezza dell'opera, quindi l'affronti ogni volta con occhi diversi.
Interpretando più volte il principe ignoto, man mano ci si riconosce di più oppure se ne discosta?
Ogni volta le produzioni sono diverse e per dove riesco, tento sempre a mettere in scena l'idea del regista, io parlo molto con il regista per capirne l'idea. Parlare artisticamente fa sempre crescere: l'opera è bella perché ogni sera ci si mette in gioco e provi cose nuove.

Dopo Turandot, quali altri progetti l'attendono?
Dopo una piccola vacanza a casa, ho il debutto di Edgar a Nizza e di Carmen a Wiesbaden. Giovanni Zambito.

Fattitaliani

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