Intervista a cura di Mariano Sabatini
Non può esserci presente
né futuro senza ciò che è stato, banale quanto innegabile. Ma è altrettanto
vero che non si riesce a stare al mondo se il passato non è diluito in giorni
che sappiano almeno sostenere le azioni e i pensieri che furono, per quanto
dolorosi o violenti. Elaborare e superare, o dimenticare, diventa a un certo
punto improcrastinabile volendo sopravvivere; sembra essere l’assunto del
secondo romanzo di Mattia Insolia, Cieli
in fiamme (Mondadori), vincitore del premio Comisso under 35. Una storia
scura, dolente, si direbbe incazzata, che inscena l’estrema difficoltà del
diventare adulti. E un passaggio necessario diventa – quando scrive che un
pezzetto di noi muore – l’anestetizzarsi. <<Non so se si tratta di
qualcosa di importante, fondamentale per tutti, ma per me certamente lo è stato.
Ho sempre provato molta difficoltà ad abbandonare il passato, a relegarlo a una
stanzetta dell'edificio di quel che sono e andare avanti, procedere nel
tragitto della mia vita. D'un tratto, poi, forse proprio scrivendo questo
romanzo, ho capito che per farlo è necessario che determinati segmenti di me
stesso muoiano: tirare su una lapide lì dove vengono sepolti, così da non dimenticare
mai quel che è capitato, ma lasciarli lì, sotto terra, così da limitare il
dolore che possono arrecarmi>> spiega lo scrittore catanese, poco più che
trentenne, che aveva esordito con il promettente Gli affamati per Ponte alle grazie.
Non serve perdonare ma perdonarsi?
Credo siano fondamentali
entrambi questi movimenti, in realtà. Per vivere nel mondo perdonare è molto
importante. Per vivere in noi stessi, per convivere con noi stessi, perdonarsi
è molto importante. Ma cos'è, in effetti, il perdono? Forse la domanda reale è
questa. Non lo so. Chissà, magari ha a che fare con l'accettazione - o almeno,
così credo io. Accettare gli altri, accettare noi stessi. Ecco, mi rimangio
quel che ho detto prima: i movimenti importanti non hanno ha che vedere con il
perdono, ma con l'accettazione.
A volte usiamo gli altri per essere chi possiamo diventare attraverso i
loro occhi. Si chiama manipolazione?
In un certo senso, sì.
Ma non è manipolazione dell'altro, è manipolazione di noi stessi. Lavorare la
materia di cui siamo fatti, malleabile, duttile, informe in molte delle sue
parti, cambiare, modificare chi siamo oggi e, traverso gli occhi degli altri,
diventare chi saremo domani. Ciascuno di noi, credo, è tante persone quante
sono le persone che incontriamo.
L’adolescenza è un serbatoio di tutte le angosce, le insicurezze, i
disturbi della vita. Per questo accompagni i protagonisti dall’età acerba, o
delle canne selvatiche come la definisce il regista Téchiné, fino all’adultità?
No - non penso, almeno -
ma la scrittura ha in sé un elemento di mistero, per me. Mi interessa il
periodo che racconto in Cieli in fiamme e
ne Gli affamati perché credo sia
quello in cui ognuno di noi non si è ancora formato in maniera definitiva. Non
che la formazione raggiunga mai uno stadio finale: crescere è cambiare, è un
processo, secondo me, che continua fino ai nostri ultimi respiri. La vita,
però, ci comprime sempre più in delle forme - sei un padre, una madre oppure
no, sei un giornalista o uno scrittore o un infermiere o un imbianchino o un
impiegato, vivi in quella città o in quell'altra -, diventare adulti penso sia
questo, e da adolescenti, quando possiamo ancora essere tutto, e la vita ci si
spiega dinnanzi, abbiamo ancora moltissime strade aperte.
Per me sarebbe più giusto parlare di adultescenza…
Forse. Onestamente,
credo che le fasi della vita abbiano tra loro confini slabrati.
Leggerti mi ha ricordato certe atmosfere di Niccolò Ammaniti. Ti disturba o
ti lusinga l’accostamento?
Mi lusinga immensamente
e mi imbarazza. Ammaniti è uno degli scrittori che più ho letto in adolescenza
e nella prima età adulta, è uno degli scrittori che più amo, che più ho
consumato. Ti prendo e ti porto via, Come Dio comanda, Io e te, Io non ho paura,
Che la festa cominci: ha scritto dei capolavori. Nei suoi confronti ho un
debito enorme. Enorme. L'ho incontrato l'anno scorso, e gliel'ho detto. Si è
fatto una risata e mi ha dato una pacca sulla spalla. Tra i momenti più alti
della mia vita, a mani basse.
A un certo punto uno dei personaggi dice che al mondo ci devono stare anche
i cattivi… la pensi così anche tu? Hai dovuto mai fronteggiare “i cattivi”
nella vita?
Li ho affrontati, sì,
pure se, a voler essere sincero, ho avuto, finora, la fortuna di condurre una
vita piuttosto leggera, con pochi scossoni. E lo specifico perché vorrei
evitare di disturbare l'Universo. Ma anch'io sono stato un cattivo, anch'io,
più o meno coscientemente, ho operato il male. Lo facciamo tutti. Spesso senza
reale contezza, o, quantomeno, senza reale contezza della portata del dolore
che potremmo arrecare agli altri. Penso sia fisiologico.
Rimorsi e rimpianti si mescolano all’amore, anche malato, dei genitori per
i figli. Come si sopravvive a tanta sprovvedutezza e, spesso, malevolenza?
Ho avuto due genitori
fantastici, quindi posso solo fare uno sforzo d'immaginazione e dire che
sopravvivere è un atto istintivo e che dipende dall'individuo. Ognuno di noi ha
i suoi mezzi e le sue tecniche di sopravvivenza a quel che gli si para davanti.
Io da ragazzino mi aggrappavo molto a me stesso, chiudendomi in una solitudine
che non conoscevo ma che mi faceva star bene. Da mezzo adulto ai libri,
abitando mondi alternativi che non mi facevano alcun male e, al tempo stesso,
mi aiutavano a capire quel mondo, il nostro, che invece di sofferenza me ne
dava. Da adulto, oggi, i miei amici, le relazioni interpersonali, sono il mio
salvagente. Come si sopravvive alla sprovvedutezza degli altri, dei genitori?
Cercando vie alternative.
Tanta rabbia anima i tuoi personaggi. La rabbia è il sentimento che più ci
struttura?
La rabbia non struttura,
ma è un mezzo attraverso cui crearci uno spazio nel mondo che sia nostro
soltanto - la rabbia ci permette di invadere il terreno attorno a noi. Per
molti anni sono stato profondamente arrabbiato e rabbioso, poi, per fortuna, è
passata. La rabbia, a mio avviso, può essere motore propulsore, ci può spingere
in alto, è lo slancio che ci diamo con i piedi quando tocchiamo il fondo ma,
una volta arrivati in superficie, dobbiamo lasciarla andare e goderci il cielo
sulla nostra testa. Altrimenti che senso ha? Passare la vita da incazzati è uno
spreco.
A te capita, come accusa Riccardo il figlio, di “lasciarti accadere”?
Bah, molto raramente, ahimé.
Ho cominciato solo di recente, e non senza remore. Sono una persona parecchio
ansiosa, come gran parte dei ragazzi e delle ragazze della mia generazione, e
quando l'ho fatto non me ne sono pentito, in effetti… dovrei provare a farlo di
più, forse, ora che ci penso. Ad ogni modo, l'importante, nel farlo, è avere
sempre bene in testa la presenza di persone attorno a noi. Va bene lasciarsi
accadere, è salutare, bello, ma far pagare il prezzo dei nostri istinti a chi
abbiamo accanto è una forma di prevaricazione molto grande.
La fluidità sessuale e soprattutto la naturalezza con cui il tuo
personaggio la vive sono dei nostri tempi o la speranza che ciò accada per una
società più moderna e comprensiva?
Entrambe. Sono dei
nostri tempi per persone della mia età e poco più giovani. E sono la speranza
che ciò possa accadere con una accettazione maggiore, da una società più
moderna e comprensiva, se guardo alle generazioni più anziane della mia.
Tutto prende le mosse dalle ferite ma come si convive con le cicatrici, se
si dà loro il tempo di diventare tali?
Disegnandoci attorno
delle stelle - non è mia, questa, ma penso sia una grande verità.
Sei soddisfatto del tuo percorso di scrittore finora?
Tantissimo. Mi sento
estremamente fortunato. Lavoro con persone eccezionali e che mi hanno dato,
insegnato più di quanto potessi chiedere. Non so come andranno le cose, ma gli
ultimi quattro anni sono stati sorprendenti.