«credo che i miei libri possano essere stimolanti per chi fa ricerca, per chi intende avere una prospettiva che si discosta da quelle consolidate specialmente in ambito accademico e che intenda andare “oltre”» Antonina Nocera
Ciao Antonina,
benvenuta e grazie per aver accettato il nostro invito. Come ti vuoi presentare
ai nostri lettori che volessero sapere di te quale scrittrice, comparatista,
critico letterario?
Beh, direi di leggere attentamente questa intervista!
Cosa
comporta oggi in Italia fare un lavoro molto particolare come il tuo, ovvero,
quello di comparatista e critico letterario? Spiega ai nostri lettori in cosa
consiste e qual è il lavoro che fai quotidianamente e per chi lo fai?
Non lo definirei un “lavoro”. Certamente è un’attività che comporta un assiduo lavoro di preparazione e studio. Il mio lavoro consiste nell’insegnare letteratura italiana e latino. Gli studi che ho intrapreso mi hanno formata nella direzione della comparatistica e della critica letteraria che ho preferito praticare sul campo, da anni. Tecnicamente, il critico è ormai una figura che esiste soltanto se si viene definiti tali in virtù di riconoscimenti esterni. Intendo dire che non basta dirsi critico per vestire questa etichetta. La critica è anzitutto una disciplina che ha delle precise connotazioni metodologiche, poi è una pratica che non si può improvvisare né realizzare in tempi brevi.
Chi è
invece Antonina Donna al di là della sua passione per la scrittura, per la
letteratura, per la filosofia e la lettura? Cosa puoi raccontarci di te e della
tua quotidianità?
Vivo a Palermo, una città affascinante e difficile con cui intrattengo un rapporto contraddittorio: la amo e la odio. Nonostante ciò, non la cambierei con nessun’altra, potrebbe competere soltanto con San Pietroburgo. Sono insegnante e madre di una splendida bambina, e insegno al liceo materie letterarie e latino. Amo scrivere da quando sono piccola, conservo ancora le mie poesie “dannunziane” della mia preadolescenza. Rileggere mi fa sorridere e al contempo mi dà una conferma di una passione che cominciava a montare dall’infanzia. La quotidianità può essere molto feroce, quindi cerco di dare un senso ad ogni giornata, anche alla più terribile e grottesca. Insegnare e stare a contatto con gli adolescenti è un modo per mettersi alla prova senza cristallizzarsi in verità assoluto. Gli adolescenti, eterni metamorfici, ci insegnano molto.
Qual è il tuo
percorso accademico, formativo, professionale ed esperienziale che hai seguito
e che ti ha portato a fare quello che fai oggi nel vestire i panni di scrittrice, comparatista e critico letterario?
Dopo la laurea in Lettere moderne ho vinto una borsa di studio per fare ricerca all’estero e sono partita per la volta di San Pietroburgo dove ho studiato presso l’Università di Stato (Санкт-Петербургский государственный университет). Avevo da poco pubblicato il mio primo saggio di critica letteraria e mi appressavo a continuare gli studi presso il dipartimento di Letteratura Russa. Successivamente, ho vinto il concorso per accedere al Dottorato di ricerca in Studi Culturali Europei, poi ho cominciato a insegnare lettere nei licei palermitani e della provincia e parallelamente ho continuato la mia attività di ricercatrice in maniera indipendente. Ho poi collaborato negli anni con diverse università italiane e russe per lezioni, seminari e progetti culturali continuando l’attività di scrittura sia di saggistica che di racconti per antologie. Ultimamente ho conseguito un master di specializzazione in Filosofia presso l’Accademia Russo cristiana F.M. Dostoevskij di San Pietroburgo.
Come
nasce la tua passione per scrittura, per la letteratura e per i libri? Chi sono
stati i tuoi maestri e quali gli autori che da questo punto di vista ti hanno
segnato e insegnato ad amare i libri, le storie da scrivere e raccontare, la
lettura e la scrittura?
La mia passione per la scrittura ha origini lontane. Scrivo sin da piccolina, ho ancora i fogli delle mie poesie lambiccate e dannunziane che scrivevo per diletto e che conservavo nel mio cassetto. I libri della mia prima formazione sono stati quelli della biblioteca della casa dei miei genitori. Da bambina ho sempre osservato questa enorme libreria piena di libri interessanti che sceglievo in base ai titoli e alle copertine. In casa dei miei si trovavano scrittori che oggi sono poco o nulla considerati nel panorama letterario italiano e anche nelle antologie ma che sono importanti per il valore letterario dei loro scritti: da D’Arrigo a Chiara, Deledda, Piovene, Pavese fino a chicche come i libri di poesia di Jacques Prévert, di Carlo Levi. Il libro che ha forgiato la mia immaginazione e letto in gran segreto è stato Il delta di Venere di Anaïs Nin, divorato in pochi giorni. La mia scrittura adolescenziale si è poi forgiata sui classici dell’Ottocento e del Novecento, con una predilezione adolescenziale verso la letteratura dei Cannibali.
Tu Antonina
hai scritto due saggi che hanno riscosso grande successo e sono stati
apprezzati dalla critica italiana e tra questi, “Metafisica del sottosuolo”
(2020) è stato citato e recensito dalla Treccani come saggio di assoluto
rilievo culturale e letterario. Nel 2010 hai scritto e pubblicato un altro
importantissimo e apprezzato saggio, “Angeli sigillati. I bambini e la
sofferenza nell'opera di F. M. Dostoevskij”. Come nascono questi due libri,
qual è l’ispirazione che li ha generati, quale il messaggio che vuoi che arrivi
al lettore, quale le conoscenze, le analisi letterarie da comparatista che fai e
le emozioni che ci racconti senza ovviamente fare spoiler?
Il mio primo saggio nasce
dal debito d’amore che spinge chiunque voglia dedicarsi alla critica
letteraria, come dice George Steiner, uno dei miei maestri di riferimento. È
nato da una passione pura, scaturita durante gli studi universitari e in
seguito alle indicazioni del mio mentore, il Professore Salvatore Lo Bue,
studioso di Dostoevskij, e allievo di Pareyson. Il tema del saggio, la
sofferenza dei bambini è marginale rispetto a quelli più battuti dalla critica
italiana e russa, ma non per questo meno importante. Credo anzi, e spero di
esser riuscita a dimostrarlo, che questo sia “il tema” cardine, quello che è
onnipresente nella produzione e nel pensiero di Dostoevskij. Penso che il mio saggio
abbia colmato una lacuna o per lo meno gettato un piccolo seme per avviare
ulteriori ricerche e approfondimenti in tale direzione. Un capitolo è stato
tradotto in russo per una rivista specializzata e il mio sogno sarebbe
pubblicare per una casa editrice russa.
Metafisica del sottosuolo nasce in seno a una ricerca condotta per un convegno organizzato per il trentennale della morte di Sciascia. In seguito il fiuto di Fabio Ivan Pigola direttore della casa editrice Divergenze ha fatto il resto. È nato così il saggio “Metafisica del sottosuolo- Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskij”, che inaugura la collana (Ec)citazioni, dedicata ai saggi brevi. Una plaquette che indaga il rapporto inedito e ardito tra questi autori, condotto attraverso un’indagine intertestuale, da detective del testo direbbe Ricardo Piglia, alla ricerca delle motivazioni che portarono Sciascia a citare Dostoevskij in alcuni dei suoi romanzi. Anche questo aspetto, solleticato da alcuni critici ma mai indagato, viene qui scandagliato e proposto come nodo critico passibile di ulteriori approfondimenti. Mi interessa, per rispondere alle tue ultime domande, scandagliare questioni marginali ma che aprono a questioni ampie, illuminanti.
…
quali gli apprezzamenti che hai ricevuto e gli importanti riconoscimenti della
critica letteraria che hai avuto? Cosa hai provato nel vedere apprezzati questi
lavori da istituzioni storiche e importantissime per la cultura italiana quale
la Treccani? Raccontaci le tue emozioni e le tue soddisfazioni professionali, e
cosa hai imparato che ti ha fatto crescere professionalmente e umanamente da
questi successi professionali?
Metafisica ha ricevuto parecchie e positive attenzioni: è stato recensito dai maggiori quotidiani nazionali, tra cui Avvenire, Il Foglio, La Sicilia, Il giornale di Sicilia da riviste di prestigio come Todo Modo, Treccani, come hai ricordato e svariate riviste on line come Letteratitudine e Gazzetta Filosofica. È stato finalista al premio Etnabook 2021 e nello stesso anno finalista al premio Carver. Stessa sorte è toccata a Angeli Sigillati, finalista al premio Carver dello scorso anno e per l’occasione ripubblicato in seconda ristampa. Un capitolo del libro è stato tradotto in russo e fa parte di un’antologia pubblicata dalla RHGA di San Pietroburgo, che è stata consegnata al pronipote vivente di Dostoevskij. È chiaro che questa attenzione mi faccia piacere e mi inorgoglisca, ma le recensioni che amo di più e che sono nel mio cuore sono quelli di lettori sconosciuti che mi mandano la foto del libro in privato e mi scrivono righe di apprezzamento.
Chi
sono i destinatari dei tuoi saggi? Ha chi sono indirizzati i tuoi libri?
Spero che i miei saggi possano interessare anche a coloro che sono esperti di letteratura russa o che abbiano una stretta conoscenza degli autori trattati. Penso che chiunque possa leggere Angeli sigillati perché tratta un tema universale sebbene declinato all’interno di una precisa poetica. Il mio secondo saggio è stato particolarmente apprezzato dagli studenti universitari di filosofia e in generale da chi studia materie filosofiche ma anche dagli studenti liceali appassionati di Dostoevskij, Anche gli sciasciani hanno trovato questo connubio interessante e ricco di spunti.
Una domanda difficile, Antonina: perché i nostri lettori
dovrebbero comprare i tuoi libri? Prova a incuriosirli perché vadano in
libreria o nei portali online per
acquistarli.
Perché hanno dei titoli avvenenti! A parte la battuta, credo che i miei libri possano essere stimolanti per chi fa ricerca, per chi intende avere una prospettiva che si discosta da quelle consolidate specialmente in ambito accademico e che intenda andare “oltre”.
C’è
qualcuno che vuoi ringraziare che ti ha aiutato a realizzare le tue opere
letterarie? Se sì, chi sono queste persone e perché le ringrazi pubblicamente?
Vorrei ringraziare il mio mentore e grande amico Salvatore Lo Bue, già docente di Estetica e Poetica e Retorica presso l’Università degli studi di Palermo. Il mio primo saggio ha avuto un lungo periodo di gestazione ma è stato lui a convincermi della validità del lavoro e successivamente a pubblicarlo. A lui devo la conoscenza e il consolidamento dei principi che hanno formato l’ossatura della mia formazione critica, nonché l’amore per Dostoevskij di cui il professore è esperto.
Scrivi anche per alcuni magazine e riviste di settore, nelle quali
tieni delle rubriche di critica letteraria. Ci vuoi parlare di quest’altro
aspetto del tuo lavoro? Di cosa trattano le tue rubriche, quali le riviste
nelle quali scrivi, quali i temi che affronti, quali gli articoli che, secondo
te, sono più interessanti e attuali? Insomma, raccontaci di questa attività da
editorialista letterario e culturale.
Sono direttrice editoriale del blog letterario Bibliovorax che curo insieme ai redattori Ivana Rinaldi, Gabriella Grasso, Emilia Pietropaolo e Francesco Cocorullo. Ognuno di loro gestisce una rubrica, io mi occupo prevalentemente di recensioni e interviste. Le rubriche sono dedicate alla poesia, alla traduzione, alla letteratura comparata e alla letteratura femminista della Resistenza. L’intento di questo blog è di tentare la strada della critica in forma più divulgativa e aperta a un pubblico non specialistico. Inoltre dirigo la rivista Augeo, quaderno di scienze umane per la casa editrice Divergenze. Ho collaborato e collaboro con riviste di settore, come Antinomie, Limina, Il Maradagàl e Kajak- a philosophical journey in alcuni casi su commissione, in altri proponendo articoli di taglio critico, saggistico o recensioni. Credo profondamente che occorra parlare solo di ciò di cui si può parlare, per parafrasare Wittgenstein, pertanto mi occupo di temi e autori che sono stati oggetto dei miei studi o che ho approfondito nei miei studi. Non saprei fare una classifica degli articoli più interessanti, questo lo lascio decidere a chi mi legge.
«Ma, parliamo seriamente, a che serve la critica d’arte? Perché non si
può lasciare in pace l’artista, a creare, se ne ha voglia, un mondo nuovo;
oppure, se non ne ha, ad adombrare il mondo che già conosciamo e del quale,
immagino, ciascuno di noi avrebbe uggia se l’Arte, col suo raffinato spirito di
scelta e sensibile istinto di selezione, non lo purificasse per noi, per dir
così, donandogli una passeggera perfezione? Perché l’artista dovrebbe essere
infastidito dallo stridulo clamore della critica? Perché coloro che sono
incapaci di creare pretendono di stimare il valore dell’opera creativa? Che ne
sanno? Se l’opera di un uomo è di facile comprensione, la spiegazione diviene
superflua… » (Oscar Wilde, “Il critico come artista”, Feltrinelli ed., 1995,
p. 25). Cosa ne pensi delle parole che Oscar Wilde fa dire ad Ernest, uno dei
due protagonisti insieme a Gilbert, nel dialogo di questa sua opera? Secondo
te, nelle arti in generale, e quindi anche nella letteratura, ma anche nelle
arti visive, serve il critico? E se il critico d’arte, come sostiene Oscar
Wilde, non è capace di creare, come fa a capire qualcosa che non rientra nelle
sue possibilità, nei suoi talenti, ma che può solamente limitarsi a osservare e
a leggere come tutti gli esseri umani? Qual è da questa provocatoria
prospettiva la tua posizione da comparatista e critico letterario?
La critica nasce da un debito d’amore, come ebbe a dire uno dei maestri della critica, Steiner. Senza questo debito d’amore mi pare impossibile approcciare un testo senza che ne risulti una lettura asfittica e burocratica. Le parole di Wilde, che – va detto si nutrono del coté antitradizionalista del decadentismo europeo - portano alle estreme conseguenze l’esaltazione del genio creativo, illimitato creatore dell’art pour l’art, che misconosce il giudizio in quanto tale. È chiaramente una posizione ideologicamente centrata sul sentire dell’epoca storica, e lo stesso Wilde non rifugge da una critica tout court, ma richiama alle armi la critica militante in quanto eversiva, rivoluzionaria, in un certo senso “anarchica”. Ecco, mi sento di dire che questa spinta può essere interessante a parte che non diventi livore personale (atteggiamento molto diffuso).
«… mi sono
trovato più volte a riflettere sul concetto di bellezza, e mi sono accorto che
potrei benissimo (…) ripetere in proposito quanto rispondeva Agostino alla
domanda su cosa fosse il tempo: “Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio
spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so.”» (Umberto Eco,
“La bellezza”, GEDI gruppo editoriale ed., 2021, pp. 5-6). Per te cos’è la
bellezza? La bellezza letteraria, della poesia e della scrittura in
particolare, la bellezza nell’arte, nella cultura, nella conoscenza… Prova a
definire la bellezza dal tuo punto di vista. Come si fa a riconoscere la
bellezza secondo te?
È curioso che anche Armstrong dicesse questo a proposito del jazz: non so rispondere cosa sia esattamente. In effetti dare una definizione univoca della bellezza oggi pare anacronistico e forse anche inutile da un punto di vista epistemologico. Quindi non proverò a dare una definizione del bello, anche perché penso che sia un quesito più di pertinenza estetologica. Peraltro da almeno trecento anni lo spettro della bellezza secondo il canone classico si è ormai frantumato in definizione aperte e plurivoche del “bello”. Credo che in ciascuno di noi ci sia una sorta di “sentinella” del bello che ci faccia capire quando qualcosa è bello per noi, in quel preciso momento. Il giudizio estetico, in tal senso è meramente soggettivo, come diceva Kant anche se permane uno schema oggettivo, che gli antichi chiamavano sezione aurea e che oggi è quel quid che ci fa apprezzare ancora opere di assoluta bellezza come La cappella Sistina di Michelangelo, o il Flauto magico di Mozart.
«…anche l’amore era fra le esperienze mistiche e pericolose, perché
toglie l’uomo dalle braccia della ragione e lo lascia letteralmente sospeso a
mezz’aria sopra un abisso senza fondo.» (Robert Musil, “L’uomo senza qualità”, Volume primo, p. 28,
Einaudi ed., 1996, Torino). Cosa pensi di questa frase di Robert Musil? Cos’è
l’amore per te e come, secondo te, è vissuto oggi l’amore nella nostra società
contemporanea, tecnologica e social?
Credo che l’amore in generale sfugga alle definizioni, in quanto esperienza che ciascuno di noi vive in maniera soggettiva. Per secoli la narrazione dominante ha risentito dell’influsso del platonismo, in varie versioni e varianti, dal mito alle opere allegoriche, fino alla vulgata moderna dove “platonico” è diventato un aggettivo che tradisce la poesia del “Simposio” ed è stato degradato a sentimento “anemico” e disincarnato. In fondo quando Musil parla di esperienza mistica ripropone una versione contemporanea del platonismo, che contrappone le esperienze sensuali, compresa la manìa poetica, alla ragione. Da parte mia, credo che non esista la perfetta fenomenologia dell’amore, ma soltanto stralci di esperienze diverse che la letteratura e l’arte possono darci. Di fatto, probabilmente la frase più antiplatonica è quella che si trova nel romanzo “L’animale morente” di Philip Roth quando si afferma che l’amore ti spezza, mentre ti credevi intero. Penso che l’era social abbia solo esacerbato un atteggiamento potenziale ma difficilmente espresso nel mondo cosiddetto reale. Lo schermarsi, il nascondersi sotto falso nome, che nel Trecento era una posa letteraria, il senhal, la donna schermo, oggi è diventata una pratica di uso comune. Dietro lo schermo si può essere amanti di chiunque, spersonalizzandosi, con abiti di personaggi più che di persone. Questa dimensione ibrida, che può avere anche conseguenze pericolose, è oggi di fatto, specie per le generazioni più giovani, il metodo di approccio più utilizzato. Se dovessi accostare un termine all’amore, sicuramente questo sarebbe libertà. Non esiste amor che non sia libero.
«Appartengo a quella categoria di persone che
ritiene che ogni azione debba essere portata a termine. Non mi sono mai chiesto
se dovevo affrontare o no un certo problema, ma solo come affrontarlo.» (Giovanni Falcone, “Cose di
cosa nostra”, VII ed., Rizzoli libri spa, Milano, 2016, p. 25 | I edizione
1991). Tu a quale categoria di persone appartieni, volendo rimanere nelle
parole di Giovanni Falcone? Sei una persona che punta un obiettivo e cerca in
tutti i modi di raggiungerlo con determinazione e impegno, oppure pensi che
conti molto il fato e la fortuna per avere successo nella vita e nelle cose che
si fanno, al di là dei talenti posseduti e dell’impegno e della disciplina che
mettiamo in quello che facciamo?
Mi ritengo una persona determinata. Se ho degli
obiettivi cui tengo particolarmente, solitamente li raggiungo, anche a distanza
di tempo. Diceva una favola “i sogni sono desideri”, quando desideriamo
fortemente qualcosa, siamo già altrove, in una proiezione, in un progetto.
Con il tempo ho imparato che è più importante la strada, il processo che ti porta ad intraprendere il cammino, piuttosto che la meta.
«L’ambizione e un po’ di fortuna sono cose che possono essere di
molto aiuto per uno scrittore, se ce l’ha. Troppa ambizione e poca fortuna, se
non proprio scalogna, possono rovinarlo. Ma soprattutto bisogna avere talento.
Ci sono scrittori che di talento ne hanno tanto; non conosco scrittori che non
ne abbiano. Ma un modo di vedere le cose originali e preciso e l’abilità di
trovare il contesto giusto per esprimerlo, sono un’altra cosa.» (Raymond Carver, “Il mestiere di scrivere”, titolo originale “On
Writing”, 1981-1983, New York Time Review, in “A Storyteller’s Notebook”).
Tu cosa ne pensi
delle parole di Carver? Cosa serve a uno scrittore dei nostri giorni che ha
talento per diventare un grande scrittore riconosciuto tale dalla critica di
settore e che riesce ad affezionare alla sua scrittura e ai suoi libri decine
di migliaia di lettori?
Ritengo che chi si aggrappa alle vie facili per raggiungere il “successo”, dalle raccomandazioni, alle spintarelle di vario genere, prima o poi svelerà la sua mediocrità, sarà la solita meteora che ha fatto brillare il suo ego per il famoso quarto d’ora di celebrità. L’ambizione è certo una spinta necessaria, ma deve essere supportata da studio rigoroso, attesa, decantazione, e un genuino talento che se manca, meglio fare altro. Del resto, perché accanirsi? Magari uno scrittore mancato, è un mancato professionista in un altro campo e non lo sa ancora.
… come si fa a
riconoscere il vero talento in uno scrittore dei nostri giorni? Quali sono gli
elementi che ci fanno capire che stiamo leggendo uno scrittore di talento e non
un semplice artigiano della scrittura che riesce a scrivere semplicemente “cronaca
letteraria” e non “vera letteratura”?
È una domanda molto complessa perché non c’è esattamente un criterio unico per giudicare il talento. Ci sono, grosso modo due categorie di scrittori: i talenti puri e gli artigiani. Una distinzione che risale almeno a Platone, che condannava, nella Repubblica gli artigiani della parola a discapito degli “ispirati” dal fuoco della musa poetica. Accade talvolta che un talento privo di bottega si areni o, di contro, un mestierante che studia e lima, possa ottenere risultati ragguardevoli. Poi ci sono i geni, ma di questi ne nascono due o tre per secolo, in questo caso la scrittura si impone, come qualcosa che accade, senza alcun tipo di impedimento congiunturale.
«Quando leggo
narrativa, al primo segno di trucco o di trovata, non importa se da quattro
soldi o elaborata, mi viene istintivo trovare riparo. In definitiva i trucchi
sono noiosi e io tendo ad annoiarmi facilmente, il che potrebbe avere qualcosa
a che fare con il periodo limitato di attenzione di cui sono capace. Ma la
scrittura estremamente elaborata e chic o quella chiaramente stupida mi fanno
veramente venire sonno.» (Raymond Carver, “Il mestiere di scrivere”, titolo originale “On
Writing”, 1981-1983, New York Time Review, in “A Storyteller’s Notebook”).
Sembra
che qui Carver stia parlando dei tantissimi scrittori italiani contemporanei di
“successo di vendite”, alcuni dei quali pubblicano per case editrici di
cosiddetta fascia A, ma che vengono facilmente dimenticati e non riescono a
lasciare un segno significativo nella letteratura italiana del Ventesimo
secolo. Tu cosa ne pensi in proposito? Cosa ti annoia quando leggi racconti e
romanzi contemporanei, e quali sono, secondo te, i trucchetti che utilizzano
questi pseudo scrittori di successo di vendite dei nostri giorni che magari
riescono a vendere decine di migliaia di copie dei loro libri, ma non riescono
a scrivere letteratura? Qual è la differenza che trovi tra questo modo
omologato dagli editor di scrivere e i grandi classici della letteratura italiana
e Occidentale?
Non leggo molta narrativa contemporanea, penso che l’indebolimento del grande romanzo di idea e l’ingresso di un tipo di narrativa intimista, dove prevale la confessione, lo psicologismo, l’attitudine “ombelicale” a parlare del proprio vissuto fino a saturare l’immaginazione, sia uno dei possibili limiti della scrittura attuale. Di contro, anche gli esperimenti di romanzo storico mi sembrano didascalici e furbi. Trovo pochi outsider che riescono ad essere autentici pur rimanendo nell’ambito dell’autofiction, memoir etc, come il compianto Vitaliano Trevisan.
… da questo punto
di vista, quanto pensi che gli editor delle case editrici di fascia A, ma anche
di alcune case editrici indipendenti, siano i veri eredi e seguaci del
Professor Johnathan Evans Prichard? Ricordi il film “L’attimo fuggente”
(Titolo originale “Dead Poets Society”, 1989)? Sì… Sì… proprio quella
matrice… Sono loro, gli inconsapevoli seguaci contemporanei del Professor
emerito Johnathan Evans Prichard che per far comprendere la letteratura e la
poesia imponeva ai suoi allievi una rigida e insindacabile griglia di
misurazione? «Per comprendere appieno la poesia, dobbiamo, innanzitutto,
conoscere la metrica, la rima e le figure retoriche e, poi porci due domande:
uno con quanta efficacia sia stato il fine poetico e due, quanto sia importante
tale fine. La prima domanda valuta la forma di una poesia, la seconda ne valuta
l’importanza. Una volta risposto a queste domande, determinare la grandezza di
una poesia, diventa una questione relativamente semplice. Se segniamo la
perfezione di una poesia sull’asse orizzontale di un grafico e la sua
importanza su quello verticale, sarà sufficiente calcolare l’area totale della
poesia per misurarne la grandezza. Un sonetto di Byron può avere valori alti in
verticale, ma soltanto medi in orizzontale, un sonetto di Shakespeare avrà,
d’altro canto, valori molto alti in orizzontale e in verticale con un’imponente
area totale, che, di conseguenza, ne rivela l’autentica grandezza. Procedendo
nella lettura di questo libro, esercitatevi in tale metodo di valutazione, crescendo
così la vostra capacità di valutare la poesia, aumenterà il vostro godimento e
la comprensione della poesia”.» Qual è la tua posizione in merito? Cosa ne
pensi della omologazione – io la chiamo “omogeneizzazione letteraria” -
imposta dalle case editrici contemporanee ai loro scrittori, sia affermati che
esordienti? Come fa da questo punto di vista a emergere “nuova letteratura”,
ovvero, uno “stile inconfondibile”, una forma di scrittura nuova dalla
quale si riconosce quel particolare scrittore e non altri? Così come è stato
per i grandi scrittori del passato, i cosiddetti classici della letteratura
occidentale riconosciuti trasversalmente come produzioni di grandi scrittori
senza tempo?
Ricordo bene il film e anche la fascinazione che ebbe su di me, più giovane. Tuttavia, ritengo il metodo Prichard troppo restrittivo e mi spiego meglio. È vero e sacrosanto considerare la poesia, e qualunque altra forma di arte, come un procedimento epistemico, oltre che creativo, e sottoposto all’estro e all’ispirazione. Ci sono delle precise regole retoriche di costruzione del testo, diverse tecniche. Tuttavia, se dovessi costruire un canone secondo la griglia proposta da Prichard avrei serie difficoltà: si tratta di costruire un canone, e come sempre un canone presuppone una scelta discriminante e dei valori esclusivi. Anche questo ha a che fare con l’omologazione, nel senso che il canone letterario omogeneizza un campo vasto dentro un recinto di qualità. Se pensiamo al canone letterario elaborato da Bloom, Nabokov, Asor Rosa, potremmo trovarci in serio disaccordo e per svariati motivi tra cui la predilezione per un canone occidentale e la risicatissima, se non del tutto espunta, presenza delle donne.
Conoscerai
sicuramente l'interessantissima e al contempo “strana” sintonia intellettuale
tra Italo Calvino e Umberto Eco rispetto a quello che Eco definisce un
“problema narrativo”, ossia il “ruolo del lettore” che alla fine degli anni '70
li portò a scrivere, l'uno inconsapevole dell'altro, due libri bellissimi che
hanno fatto e fanno la storia della letteratura internazionale, o se vogliamo,
la storia della “narrazione come arte primaria e ancestrale dell'Uomo”. Umberto
Eco scriveva “Lector in fabula”, pubblicato in Italia dall'Editore Bompiani nel
1979, tradotto contemporaneamente nella versione inglese col titolo di “The
Role of the Reader”, pubblicato nel 1979 dall'Editore Indiana University Press;
Italo Calvino, in contemporanea, pubblicava uno dei libri più belli che abbia
mai scritto, “Se una notte d'inverno un viaggiatore”, edito da Einaudi nello
stesso periodo, il 1979. In entrambi i bellissimi libri il fulcro della
narrazione è la figura del “lettore”, la sua capacità di esplorazione, i vari
ruoli che assume nella lettura del libro, come il lettore può essere o non essere
in grado di interpretare quanto è scritto, e quindi di capire quello che lo
scrittore ha tracciato col suo narrare, di come il lettore è in grado di
comprendere il codice narrativo dello scrittore. In fondo il problema che Eco e
Calvino si ponevano alla fine degli anni '70 non era altro che l'“essenza delle
semiotica” che nella fattispecie ha molto a che fare con il sistema dei
processi di comunicazione e di relazione tra chi scrive e chi legge. Fatta
questa premessa, le domane che ti pongo sono queste:
- Quanto è
presente la figura del “lettore” nelle tue Opere quando le stai creando,
quando scrivi e ti isoli dal mondo intero per settimane o mesi perché scrivere
assorbe tutte le energie fisiche e mentali e non puoi fare altro se non pensare
“ossessivamente” a quello che devi scrivere e descrivere, a quali parole
utilizzare, quali frasi, quale punteggiatura e tutto il resto… utilizzando
magneticamente l'istinto narrativo che è proprio dei Grandi Scrittori?
Pur ritenendo valide metodologicamente le teorie sulla ricezione di Eco e maggiormente quelle di Jauss sul cosiddetto orizzonte di attesa del lettore, quando scrivo non mi pongo il problema della ricezione o del destinatario “ideale” o reale. Estraniarsi dal sistema in cui si scrive per me è un’operazione che presuppone l’Altro, come condizione indispensabile. Altrimenti, l’intenctio auctoris e lectoris coinciderebbero alla perfezione e non ci sarebbe necessità di uno sguardo interpretativo! Io sono saggista, pertanto pratico un tipo di scrittura che deve tenere conto di fattori più restrittivi, che comprendono il bacino di studiosi di quel precipuo tema. Quando mi è capitato di scrivere racconti, mi sento totalmente libera e spesso rimango ossessionata dal finire quel brano che ho lasciato a metà perché gli impegni quotidiani si inframmezzano irrimediabilmente.
Per rimanere su questa scia… : «La lettura di
buoni libri è una conversazione con i migliori uomini dei secoli passati che ne
sono stati gli autori, anzi come una conversazione meditata, nella quale essi
ci rivelano i loro pensieri migliori» (René Descartes
in “Il discorso del metodo”, Leida,
1637). Qualche secolo dopo Marcel Proust dice invece che: «La lettura, al contrario della conversazione, consiste, per ciascuno
di noi, nel ricevere un pensiero nella solitudine, continuando cioè a godere
dei poteri intellettuali che abbiamo quando siamo soli con noi stessi e che
invece la conversazione vanifica, a poter essere stimolati, a lavorare su noi
stessi nel pieno possesso delle nostre facoltà spirituali. (…) Ogni lettore,
quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di
strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere
quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso.» (Marcel
Proust, in “Sur la lecture”,
pubblicato su “La Renaissance Latine”,
15 giugno 1905 | In italiano, Marcel Proust, “Del piacere di leggere”, Passigli ed., Firenze-Antella, 1998,
p.30). Tu cosa ne pensi in proposito? Cos’è oggi leggere un libro? È davvero
una conversazione con chi lo ha scritto, come dice Cartesio, oppure è “ricevere un pensiero nella solitudine”,
ovvero, “leggere sé stessi” come dice
Proust? Dicci il tuo pensiero…
Ciascuno di questi pensieri contiene un frammento di verità, a mio parere: è indubbio che la lettura è un momento di apprendimento di un pensiero altrui che entra in connessione con il nostro, sia in senso empatico che antitetico; ritengo più stimolanti i testi che urtano le nostre certezze, che scarificano le nostre sicurezze e le zone comfort. Un libro deve scuotere, ribaltare come un calzino come disse John Fante a proposito dei libri di Dostoevskij. È anche vero che il processo di identificazione è una ragione importante per amare un libro, quella sensazione che il libro stia parlando proprio a noi, alla nostra intimità. Come disse Harold Bloom ne I vasi infranti: la lettura, se è attiva e interessante, non è meno aggressiva del desiderio sessuale o dell’ambizione sociale e professionale”. Diventa, insomma una questione di possesso e di potere, una relazione col testo che può restituire sensazioni vivide, conflittuali oppure di profonda connessione.
Gli autori e i
libri che, secondo te, andrebbero letti assolutamente quali sono? Consiglia ai
nostri lettori almeno tre libri da leggere nei prossimi mesi dicendoci il
motivo della tua scelta.
Molto difficile sceglierne solo tre, ci provo e ne scelgo tre appartenenti a generi diversi; un romanzo: I fratelli Karamazov; un saggio: Ricordare di Aleida Assmann; un libro di poesie: La gioia di scrivere di Wislawa Szymborska.
… e tre film da
vedere?
· 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick
· ORDET di Dryer
· Il pianista di Roman Polanskij
Tre film da vedere perché sono “opere mondo”, riprendendo una definizione di Franco Moretti; ognuno di essi indaga un aspetto della conoscenza, dell’etica e della metafisica e al contempo si cala in situazioni storiche, esistenziali. Tutti e tre i film poi convergono sull’idea che la parola e l’arte abbiano una sostanza salvifica.
Ci parli dei tuoi
imminenti e prossimi impegni culturali e professionali, dei tuoi lavori in
corso di realizzazione? A cosa stai lavorando in questo momento? In cosa sei
impegnata che puoi raccontarci?
Sono impegnata su molteplici versanti, proprio in questi giorni è stato pubblicato un mio saggio su Leonardo Sciascia in un testo collettaneo dedicato al Mediterraneo (Jouvence - Mimesis edizioni) e sto lavorando a un libro che ospita una scrittura ibrida, tra saggio e memoir che dovrebbe vedere la luce nel 2024, oltre che a un’antologia di scritture femminili come curatrice. Per la rivista Augeo di Divergenze stiamo lavorando a un numero dedicato alla scuola, e poi un podcast con la rivista Asterisque che riprende il seminario che ho organizzato nel 2021/22 per il bicentenario dostoevskiano.
Dove potranno seguirti i nostri lettori?
Sul mio profilo social e sul blog Bibliovorax.it e in tutti i migliori ristoranti di Sicilia, (sono golosa).
Come vuoi
concludere questa chiacchierata e cosa vuoi dire a chi leggerà questa
intervista?
Di non illudersi che ci sia troppo di me, del resto siamo tutti un frammento di mondo.
https://unipa.academia.edu/AntoninaNocera
https://www.facebook.com/antonella.nocera.313
https://www.instagram.com/bibliovorax
Da Treccani magazine: “Metafisica
del sottosuolo”. Biologia della verità tra Sciascia e Dostoevskij | di
Gualberto Alvino
https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_307.html
Su Gazzetta Filosofica- recensione di Ivana Rinaldi
https://www.gazzettafilosofica.net/2020-1/marzo/metafisica-del-sottosuolo/
I libri:
Antonina
Nocera, “Metafisica del sottosuolo”, Divergenze ed., 2020:
http://www.salvatoremassimofazio.it/smf-per-la-sicilia-il-filo-rosso-tra-sciascia-e-dostoevskij/
Antonina Nocera, “Angeli sigillati. I bambini e la
sofferenza nell'opera di F. M. Dostoevskij”, Franco Angeli ed., 2010:
Articoli sul
bicentenario dostoevskiano
Antonina nocera interviste
https://www.palermotoday.it/eventi/cultura/metafisica-sottosuolo-libro-antonina-nocera.html
Bio
e bibliografia di Antonina Nocera
Antonina
Nocera vive a Palermo dove svolge la professione
di insegnante di letteratura italiana e latino. Saggista nell’ambito della
critica letteraria, ha pubblicato una monografia dal titolo “Angeli
sigillati. I Bambini e la sofferenza nell’opera di F.M. Dostoevskij (FrancoAngeli,
2010 Finalista al Premio Carver 2022), “Metafisica del sottosuolo –
Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskij” (Divergenze, 2020
Finalista al premio Carver 2021 con Metafisica del sottosuolo e al premio
Etnabook 2021) e Il saggio “AA.VV.
Il poema del Grande Inquisitore: fra Teodicea e Modernità”
(Castelvecchi 2023); il saggio” di
Tragica intimità: Marina Cvetaeva e
Sonja Golliday in “AA.VV, Tra amiche” (Les Flaneurs edizioni 2023), Il
saggio “Ti dirò menzogne simili al vero”. L’impostura come
disvelamento in Leonardo Sciascia in AA.VV. Dialoghi sul Mediterraneo (Jouvence, Mimesis
2024). Il saggio AA.VV in oltre a
contributi critici su riviste specializzate come Kaiak-A philosophical Journey,
Il Maradagàl, Kainos, Antinomie, Limina,
Kobo, e in russo per la rivista russa Язык и текст (language and text). Per il
periodico “Il Vascello” ha pubblicato un saggio su Leonardo Sciascia: Un
dissidente candore: la parola di Sciascia, ieri e oggi”(2021). Ha
pubblicato i seguenti racconti in antologie letterarie: “Son” (Maradagal, 2020); “La dama col pangolino” in “AA.
VV. Gli appetiti del pangolino” (Ed Ex-libris 2021); “Cunto di scirocco“
in “AA.VV. Palermitani per sempre” (Ed. Della sera, 2022) “Al
suono delle zucche spiaccicate”, in “AA,VV. Live. Racconti di vita e di
concerti” (Arcana, 2023), “Dialogo tra i personaggi di un
racconto che cade a pezzi e il loro statuto narrativo”
in Bottega di narrazione ( di Giulio Mozzi). Gestisce il blog letterario Bibliovorax (www.bibliovorax.it)
è direttrice editoriale della rivista Augeo-
quaderno di scienze umane- (Divergenze), scrive sulla pagina
“Cultura Italia- Russia”, dedicata alla divulgazione della cultura e della
letteratura russa. È membro dell’associazione Filosofia in Movimento
(Università La Sapienza- Roma) ed è nel comitato editoriale della rivista “Le
parole di Sophia” e della rivista “Asterisque” (Castelvecchi). Ha curato la
postfazione del saggio: Annachiara Monaco: “Di luce e di polvere, quattro
bozzetti su Il Gattopardo” (Divergenze 2024) e dei romanzi: Alessandro
Bastasi “La seconda volta”(Divergenze 2024) e Mario Cunsolo “All’ombra
del castello di carte” (Algra 2023).
Ha
vinto una borsa di studio post-laurea per ricerca presso l’Università di San
Pietroburgo nel 2010 e ha recentemente conseguito un master in filosofia
presso L’Accademia russo-cristiana di San Pietroburgo.
Andrea Giostra
https://www.facebook.com/andreagiostrafilm/