di Mariano Sabatini
La durezza del romanzo d’esordio di Raffaele
Cataldo, scrittore pugliese poco più che trentenne, è lo spettro chiarificatore
di legami tossici ed esistenze portare alle estreme conseguenze, per l’intimo
masochismo che nasce da nuclei sempre pulsanti di dolore. Disagi di vita che si
trascinano come bagagli troppo pesanti, finché non si trova il modo e la forza
di depositarli in magazzini della memoria e dell’animo, tenuti lì per essere
ripescati quando e se serve. Soprattutto per difendersi dagli agguati della
quotidianità e dell’umanità. In Di me non sai (Accento edizioni) è
apprezzabile in primo luogo il coraggio e la capacità di raccontare l'orrore
della promiscuità, vissuta nelle intermittenze delle illusioni amorose, con una
franchezza spiazzante ma senza perdere lo sguardo delicato, a tratti
addirittura poetico. In sostanza Cataldo mette in scena il solito triangolo, ma con uno dei
vertici come dissolto. “Vivi
la tua vita” è il messaggio dell’adulto Lorenzo al giovane Davide… E certi
addii, venati di viltà, possono essere così liquidatori da indurre un rimuginio
ossessivo. <<Come epigrafe del romanzo ho scelto alcuni versi di Marina
Cvetaeva: “Con leggerezza pensami, con leggerezza dimenticami”. Fa parte di una
poesia splendida in cui la poetessa immagina di rivolgersi a un passante che si
è trovato a calpestare il suo luogo di sepoltura. Il nesso con Di me non sai può sfuggire, perché il
mio non è un romanzo che parla di morte. Un lutto però c’è>>, piega
Cataldo.
Quello che oggi si
definisce ghostare, tramutarsi in fantasma.
Sparire
dalla vita di qualcuno, all’improvviso, senza dare all’altro alcuna possibilità
di ritrovarti, è uno strappo violentissimo. Specialmente se a subirlo è un
ragazzo così giovane come Davide. In quelli che retoricamente dovrebbero essere
anni spensierati, Davide porta in sé un lutto difficile da sanare, quello per
l’amore che ha perso -
il primo che l’abbia riscaldato e risvegliato dal suo torpore. La cosa peggiore
di questo tipo di lutti è che non c’è un luogo di sepoltura a cui tornare. In
questi casi il mondo intero diventa una tomba. Così per Davide l’unico modo di
elaborare la perdita è tornare ossessivamente ai momenti che l’hanno preceduta,
perdersi ancora e ancora nelle campagne pugliesi, nei luoghi bui dell’amore e
del sesso con Lorenzo, nella stretta dei corpi sudati degli estranei che gli
ricordano lui.
In
fondo descrivi un triangolo, seppure con uno dei vertici fantasmatico. Sono
situazioni “comode”?
Difficile non farsi male con tanti
spigoli. Penso che molti di noi queste situazioni finiscano - più o meno consapevolmente - per sceglierle. A volte quando ci si trova a proprio
agio nel dolore si rinuncia a cercare qualcosa di meglio. Inseguire qualcuno
che forse non riusciremo mai a raggiungere è un alibi perfetto per non vivere
mai appieno una relazione, fatta di piccole conquiste quotidiane, di
condivisione reale ma anche di molti rischi. La felicità può fare paura quando
non la si sa riconoscere.
A
un certo punto scrivi della sensazione che vadano tutti via. Non sarà che non
sappiamo più stare dove dovremmo, perché sono più facili l’indefinitezza, il
disimpegno?
Quella di andare via, di cambiare
scenario, è una soluzione illusoria ai nostri problemi. Ho voluto ambientare il
romanzo in un paese che si chiama Scappagrano perché volevo trasmettere
l’urgenza adolescenziale di fuggire dal proprio luogo di nascita. Per un
giovane arrabbiato la provincia rurale è un luogo invivibile. Quando lasciamo
una situazione che ci fa sentire stretti per qualcosa di nuovo ci illudiamo di
lasciarci i nostri conflitti alle spalle. Come la coda di una lucertola. Ma in
realtà siamo sempre incatenati a noi stessi, non importa dove ci troviamo.
L’inquietudine, quei contorcimenti interiori che ci hanno spinto a fuggire sono
sempre lì.
Molte
persone finiscono per diventare la replica di uno spettacolo già messo in
scena?
Non so dire per quante persone
questo sia vero. Sicuramente può essere difficile ribellarsi alla parte che
qualcuno ha scelto per noi, o in cui noi stessi ci siamo intrappolati. Le
aspettative — nostre e altrui — sono un mantello che pesa sulle spalle di tutti. A
Davide piace indossare maschere, è un personaggio che mente quasi per noia, ma
ci sono anche dei ruoli che gli vengono appiccicati addosso. Lorenzo lo
idealizza e poi ne rimane deluso. E anche Lucio, almeno all’inizio del romanzo,
non lo vede per quello che è. Per lui Davide è una preda che ha puntato alla
fermata del pullman, un feticcio che nelle sue fantasie può svestire e
rivestire come vuole, tutte le volte che vuole.
Dire
“sono tuo” a una persona è esercitare una forma di potere, quanta presunzione o
fragilità nasconde?
È un cliché del linguaggio
amoroso, o presunto tale, che dovremmo abbandonare. L’amore non dovrebbe avere
nulla a che fare col possesso né col potere. Una lezione che i miei personaggi
imparano a caro prezzo.
Come si resiste alle promesse fatte al buio?
Riflettendoci, penso che tutte le
promesse siano fatte al buio.
Come possiamo essere sicuri che
verranno mantenute? O che saremo in grado di mantenerle? Promettere è un atto
arrogante per chi promette e disperato per chi lo richiede. Sarebbe meglio
promettere il meno possibile. Come i medici, che non possono promettere di
guarire un paziente, ma solo di fare tutto il possibile. Guardiamo cosa succede
al protagonista de La promessa di
Dürrenmatt… Penso sia il più bello e il più terrificante monito che la
letteratura ci abbia donato a questo proposito.
In
cosa affonda la crudeltà di Davide e in generale di certi giovani?
Penso che la crudeltà, così come
il suo contrario — la cortesia, abbiano
entrambe a che fare col concetto di verità. Chi è cortese smussa la realtà,
nasconde almeno in parte quello che prova o pensa. La crudeltà per me sta
nell’usare la propria verità come un’arma, per farsi strada o per affermare se
stessi. Per troppo tempo Davide è “cortese”: non sa dire di no a chi lo
desidera, non è sincero con se stesso né con chi gli è accanto su cosa voglia
davvero. Quando poi le bugie cortesi cominciano a schiacciarlo, quando non
riesce più a sopportare il disgusto di fingersi diverso da quello che è, la
crudeltà diventa l’unica forma di difesa e di fuga possibile. Allora la
crudeltà giovanile diventa una forza liberatrice: è Zeus che evira il padre,
Davide che taglia la testa a Golia… quasi per caso, mi ritrovo a spiegare
perché ho scelto di chiamare uno dei protagonisti Davide Giove. Non dico,
ovviamente, che la crudeltà sia l’unico modo per realizzarsi pienamente come
individui. Si tratta di una reazione esplosiva, che nasce da una costrizione,
una qualche forma di tirannide — imposta
dagli altri, dall’ambiente o da sé stessi. C’è una strada pacifica che credo
venga suggerita ma percorsa troppo tardi nel romanzo: la sincerità. Comunicare,
aprirsi e ascoltare l’altro, porsi e porre delle domande senza temere le
risposte. Per i miei personaggi sarebbe stato tutto più facile se avessero
agito così, e forse questo romanzo non ci sarebbe stato. Non così com’è.
I
Padri assenti, e più in generale i genitori, le famiglie disgregate, hanno un
ruolo in tutto ciò?
Per rispondere a questa domanda ti
rivelo che nella sua prima stesura il romanzo terminava proprio con queste due
parole: “padri assenti”. Perciò sì, hanno decisamente un ruolo importante. E
non parlo solo del padre di Davide e del loro rapporto di reciproca, ostinata
incomprensione. Anche Lucio e Lorenzo sono dei surrogati paterni, loro
malgrado. Nel romanzo ho cercato di dare voce anche ai genitori di Davide. Ho
sentito fosse importante ascoltare anche la loro versione. Padre, madre e
figlio sono accomunati dal pudore dei sentimenti e da una goffaggine
comunicativa che gli impedisce di raccontarsi. Troppo spesso attorno alla
tavola i componenti di una famiglia sono assorti ognuno nella propria
solitudine. Anche nel caso della famiglia di Davide, quello che incrina di più
i legami è l’incapacità di comunicare a un livello più profondo.
Alcuni
fanno male e lo dimenticano con la facilità con cui la lucertola si lascia
indietro la coda. Immagine quanto mai vivida.
Qui torniamo alla crudeltà di cui
parlavamo prima. Penso che in alcuni casi sia l’unica scelta possibile per
uscire da una situazione insostenibile. Una scrittrice che amo tantissimo,
Elizabeth Strout, in Mi chiamo Lucy
Barton usa un’altra metafora animale, il pipistrello, e parla di
“spietatezza”. A volte bisogna essere spietati per essere se stessi. Il brutto
è che viviamo tutti in uno zoo di vetro: siamo esseri fragilissimi circondati
da tantissimi altri esseri fragilissimi; non si può pensare di attraversare la
vita senza rompere qualcosa. Quello che possiamo fare è cercare di limitare i
danni.
La
solitudine, il bisogno di amare ed essere ricambiati può portare a forzare una
vita dentro l’altra. Questo tuo romanzo alla fine parla di questo?
Credo che tutti i personaggi di
questo romanzo siano soli. Nessuno di loro — Lucio, Lorenzo, Davide, i suoi genitori — ha qualcuno con cui confidarsi fino in fondo. Loro
vivono quel tipo di solitudine che nasce dall’assenza di un vero interlocutore
e di un linguaggio che sia comune e chiaro. Potrebbero capirsi, se solo si
sedessero un attimo e parlassero tra loro con sincerità, ma non ci riescono, o
ne hanno paura. Quando Davide si accorge che sua madre legge di nascosto il suo
diario, lui inizia a scrivere con i caratteri dell’alfabeto greco, che lei non
conosce. Come penso si colga già dall’incipit del romanzo, il linguaggio più
usato in Di me non sai è il sesso.
Ma, come scopriranno i protagonisti, è una forma di comunicazione incompleta,
una traduzione in cui si perde sempre qualcosa: è facilissimo fraintendere il
messaggio. Sia Davide che Lucio cadono nello stesso, pericoloso equivoco:
confondere la nudità dei corpi con l’intimità vera.
Chi
ti sta leggendo, ne hai sentore?
Molte persone mi stanno scrivendo
sui social: persone eterosessuali, specialmente donne, che mi hanno detto di
essersi riconosciute nell’universalità di sentimenti come la gelosia, l’amore
non corrisposto, l’abbandono; e persone gay che mi hanno scritto di essersi
ritrovati nelle specificità dell’amore tra persone dello stesso sesso: la
difficoltà legate al coming out, l’omofobia interiorizzata, la sensazione di
essere costantemente osservati, giudicati e di dover quindi vivere di nascosto.
Mi hanno scritto molti uomini gay maturi che si rivedono nelle sofferenze di
Lucio, ma anche ragazzi giovanissimi che ammettono di essersi rispecchiati
nelle contraddizioni di Davide, e poi c’è chi, in fasi diverse della vita, ha
assunto il ruolo sia dell’uno che dell’altro. Un’amica mi ha proposto di
aggiungere dopo i Ringraziamenti del libro un test a crocette: “Sei più Davide
o Lucio?”, come quelli del Cioè.
L’idea mi divertirebbe tantissimo, ma, a parte gli scherzi, mi fa felice sapere
che i lettori provino empatia per entrambi i protagonisti. Io non credo di
essermi schierato. Ho cercato di raccontare il punto di vista di Lucio e di
Davide senza assoluzioni né sentenze.