Il cantastorie Carlo Barbera a Fattitaliani: l'ispirazione è un mistero. L'intervista



Archiviata l'ultima edizione di Estate Mediterranea, a Siculiana continuano comunque gli appuntamenti che allietano i suoi abitanti e i suoi visitatori. Ieri sera è andato in scena alla Torre dell'Orologio Carlo Barbera con "Ti cuntu, ti cantu": "Lo spettacolo è andato molto bene", riferisce a Fattitaliani. L'abbiamo intervistato.

Qual è stata la scaletta? 

In realtà, quando porto questo spettacolo non prevedo una vera e propria scaletta preconfezionata. Trattasi di uno spettacolo contenitore, dove in base alla situazione, all'età degli spettatori e ad altri parametri, la scaletta viene decisa al momento. Lo faccio da tanto tempo e, laddove possibile, inserisco anche cose di altri autori.
Hai avuto spazio e occasione anche per improvvisare?
Ho avuto tantissimo spazio per l'improvvisazione. Ho trovato un pubblico molto affettuoso che in tanti momenti è stata la mia spalla (sorride, ndr).
Quando è nato in te la forza e il desiderio del "racconto"?
Da bambino: io vivevo accanto ai miei nonni. Mio nonno, spesso, seduto al braciere, mi raccontava storie, storielle e proverbi. Lui fra l'altro era un puparo, per cui sono cresciuto con questa vocazione. Infatti, a otto anni ho scritto il primo raccontino che si chiamava "Il cane macchiato". Poi, negli anni, ho maturato sempre questa passione e l'ho sviluppata con il teatro di prosa, le canzoni, le poesie, i romanzi e col racconto orale, spesso improvvisato. Per due anni ho fatto l'Iliade e l'Odissea come improvvisazione teatrale, senza copione.
Come conciliare la tradizione del "cuntu" con le storie e il ritmo del tempo di oggi?
Se si sta con un occhio al passato e un altro al presente per andare verso il futuro non è molto difficile: cambiano i ritmi, cambia la durata, il modo di raccontare, però la base nostra è sempre quella. Noi partiamo sempre dalla tradizione dell'antica Grecia e tutto si è sviluppato da lì, poi i tempi giustamente cambiano e tu devi cercare di adattare il modo di raccontare all'uditorio moderno. Ecco perché a volte s'improvvisa in base al pubblico che hai davanti. In uno spettacolo teatrale con un copione e una successione di ballate, il discorso cambia: non puoi improvvisare e mettere, togliere, inserire. Ma nel caso di "Ti cuntu, ti cantu" s'improvvisa parecchio.
Ci sono dei caposaldi del "cuntu" che tieni sempre presenti?
Ci sono sempre più o meno le stesse regole. Un racconto comincia con un prologo, una sorta di prefazione, poi c'è lo svolgimento e infine l'epilogo, il finale. Di solito il cuntastorie inserisce anche una morale: una volta si rivolgeva a un pubblico spesso ignorante che più che ascoltare andava di pancia, per cui alla fine doveva spiegare il significato di quello che aveva raccontato. E questa è una bella cosa da continuare: quando faccio certe ballate anticipo proprio il momento dicendo "ecco, ora arriva la morale della storia".
Le tue composizioni come nascono? sono frutto di un'ispirazione fulminea oppure risultato di una riflessione lunga e ponderata?
Guccini dice che uno racconta ciò che ha vissuto, ha letto, ha visto, ciò che gli hanno raccontato, il patrimonio che ti porti dietro, insomma, vivendo quotidianamente. L'ispirazione di solito è fulminea anche se a volte mi è capitato di costruire delle cose piano piano, in maniera razionale nel tempo. L'idea, però, ti viene in un momento e tu, in realtà, non ti rendi conto di come arrivi. L'ispirazione è un mistero. Io per esempio, ho scritto in pochi minuti la ballata "I medici e il demonio", musica e parole: poi, ovviamente, aggiusti, cambi, togli, metti ma l'ispirazione è fulminea.
Che cosa ti piace che lo spettatore possa provare alla fine di un tuo spettacolo?
Mi piace l'idea che lo spettatore possa portarsi a casa qualcosa di più di quello che aveva quando era arrivato a vedere lo spettacolo. Mi piace lasciare in lui delle riflessioni. Nel '99 ho scritto la commedia "La famiglia di Ruggero": fra il pubblico c'erano un padre e una figlia che litigavano perché quest'ultima desiderava andare a studiare a Bologna e il genitore non voleva. Dopo aver visto lo spettacolo il padre aveva deciso di dare il consenso alla figlia di studiare fuori: è una cosa bellissima, perché significa che lo spettatore ha portato con sé molto di più che io avrei potuto immaginare. Giovanni Zambito.

Fattitaliani

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