di Giuseppe Lalli
I giornali riportano in questi giorni la notizia di una direttrice didattica di una scuola elementare che, in vista del 19 marzo, giorno in cui in Italia si festeggia San Giuseppe e la festa del papà, avrebbe disposto di non ricordare a scuola la ricorrenza per non creare imbarazzo a tutti gli scolari che non hanno un papà.
C’è da credere che la dirigente scolastica abbia agito nella più assoluta buona fede e con le migliori intenzioni. Tuttavia, c’è da chiedersi: è giusto che, per risparmiare un dispiacere ad alcuni bambini, si privino tutti gli altri di una tradizione così bella e significativa?
L’esperienza, unita al buon senso, ci suggerisce che non si può accontentare sempre tutti: ci sarà sempre una minoranza non interessata a questa o a quella iniziativa. Spetta agli educatori, con il dialogo, con pazienza e capacità di argomentazione, non far pesare le inevitabili differenze. Perché allora non abolire la festa della mamma? Ci potrebbe essere sempre un bambino a cui è venuta a mancare la mamma. Un mondo senza differenze, ammesso che fosse possibile, sarebbe una melassa incolore, insapore e inodore.
Viene in mente un episodio autobiografico che il grande regista Franco Zeffirelli raccontava con accenti di commozione, una vicenda della sua infanzia, che non fu proprio felice. Egli era nato a Firenze da un rapporto “clandestino” che sua madre, già sposata, aveva avuto con un altro uomo sposato. La donna aveva portato a termine la gravidanza nonostante che molte persone le avessero consigliato di abortire («Se lo avesse fatto – commentava con ironico autocompiacimento il grande artista – il mondo avrebbe perso un genio». Come dargli torto).
Rimasto presto orfano, un giorno in cui stava giocando piuttosto animatamente con dei coetanei nei pressi del convento dei frati domenicani in piazza San Marco, si sentì apostrofare da uno dei compagni di gioco, con la cattiveria di cui a volte i bambini sono capaci, come “figlio di p…”. Il giovane Franco reagì con veemenza e la zuffa che ne seguì richiamò l’attenzione di una persona che si ritirava in una stanza del convento, un signore di nome Giorgio La Pira, luminosa figura di cristiano che di Firenze diventerà un famoso sindaco.
La Pira chiese ai ragazzi perché mai si azzuffassero. Saputane la ragione dal diretto interessato, redarguì aspramente l’autore dell’insulto, dicendogli inoltre con accento toscano: « A te, a te...se ti raccontassi tutto quello che so della tu’ mamma!...» ; e poi, preso per mano Franco, lo fece entrare nel convento e lo condusse, attraverso un lungo scalone, di fronte a un’immagine della Vergine, e indicandogliela gli disse: «D’ora in poi sarà questa donna la tua mamma, e quando ti sentirai scoraggiato, quando sentirai la mancanza della mamma che ti ha messo al mondo, vieni qui, di’ tutto a lei».
Un altro mondo! Un altro linguaggio! Verrebbe da suggerire, per analogia: per un bambino che non ha un papà, c’è sempre San Giuseppe. Ma queste sono parole che ai nostri giorni suonano a dir poco stonate. La spasmodica ricerca della felicità individuale a tutti i costi è il vero paradigma sociale di questi nostri tristi tempi.
Io che scrivo, molti anni fa, in un paese del versante meridionale del Gran Sasso, conoscevo molto...da vicino un bambino che, a differenza dei suoi compagni di classe, non aveva un padre. La maestra, che ben conosceva la sua situazione di famiglia, e che era della stessa scuola di Giorgio La Pira, gli sussurrava sempre le parole giuste, quando l’argomento della discussione o della lezione aveva per oggetto la figura del padre.
Non è strappando dal libro delle letture le pagine che
raffigurano un papà o una mamma che si fa un buon servizio a un bambino che ne
è privo. Non è rimuovendo le occasioni di dolore che si elimina il dolore,
perché ci sarà poi la vita con le sue asprezze a ricordarci le nostre
condizioni. L’alternativa, in famiglia e a scuola, è l’amore, ma la nostra
società non lo contempla, né lo prevedono i programmi scolastici.