Opera Madrid, il Maestro Maurizio Benini dirige "La Sonnambula". L'intervista di Fattitaliani: "Amo le voci. Non mi interessa essere l'eroe della serata"

Fattitaliani


Appuntamento fino al 6 gennaio al Teatro Real di Madrid per "La Sonnambula" di Vincenzo Bellini: un'opera magistralmente interpretata da Nadine Sierra (Amina), Xabier Anduaga (Elvino), Rocío Pérez (Lisa), Roberto Tagliavini (il conte) e Monica Bacelli (Teresa) che hanno regalato emozioni intense ad un pubblico  che li ha ripagati con frequenti applausi e standing ovation finale. I due protagonisti con le loro voci potenti hanno dato corpo e vigore ai sentimenti altalenanti di due innamorati gelosi alla vigilia delle nozze. Il tutto nell'azzeccata regia di Bárbara Lluch, fra le scene di Christof Hetzer, le coreografie di Iratxe Ansa e il coro diretto dal M° Andrés Máspero. Va detto che "La Sonnambula" è un'icona del belcanto allo stato puro, in cui la voce umana è concepita come strumento. Un'intonazione perfetta, la purezza di timbro vocale, le capacità espressive sia ritmiche che interpretative assicurano il passaggio omogeneo dalle note gravi alle acute, l'agilità nell'ornamentazione e nel fraseggio: è uno dei tanti argomenti affrontati con il Maestro Maurizio Benini che incontriamo nel camerino prima della rappresentazione di ieri... notiamo la presenza del manoscritto de "La Sonnambula": "Per ogni opera - ammette - ritorno a studiarla da capo!".... L'intervista di Fattitaliani.

Maestro, ha diretto per la prima volta "La Sonnambula" alla Scala: che cosa è cambiato nell'opera in tutti questi anni e Lei personalmente in che cosa è cambiato?

In me c'è stata una conoscenza maggiore dei vari cantanti, di tutto quello che è il mondo dell'opera anche se poi io ho cominciato a 21 anni come maestro pianista di sala; anche se venivo dalla composizione e dalla direzione d'orchestra, avevo studiato pianoforte per dieci anni, ho fatto pratica in teatro come maestro collaboratore e da lì son cresciuto e passo dopo passo sono diventato direttore d'orchestra. Il mondo dell'opera forse non è cambiato: mi ritengo sempre un facente parte di un museo, nel senso positivo del termine. Le nostre opere d'arte sono vive, le rendiamo vive ogni volta che le eseguiamo, a differenza di un quadro che rimane un momento del periodo dell'esecutore. È vero che rappresentiamo un linguaggio che probabilmente non è più attuale, ma abbiamo la fortuna di riproporlo in un modo che può portare determinate problematiche anche di oggi e viste con un'ottica moderna; quindi, è sempre in evoluzione! Però chiaramente il linguaggio è fermo in quel periodo lì che va rivisto negli anni dagli esecutori che lo ripropongono in chiavi moderne.
Personalmente, nel rivedere alcune opere, mi succede di riscoprire dei passaggi musicali o delle arie che prima erano passate quasi inosservate: capita anche a Lei nel rivedere la partitura di un'opera?
Certamente, in noi c'è un'evoluzione giornaliera della nostra vita e della nostra esperienza. Di conseguenza, rivedendo le cose, si possono rileggere sotto un altro punto di vista. È chiaro che se è scritto forte, uno non fa piano o se è scritto allegro non fa adagio. Le esperienze della vita portano a delle emozioni e a dei sentimenti che possono dare una visione diversa di una battuta a differenza di un'altra. Per questo amo ritrovare, se possibile, delle partiture intonse. Riparto da zero, senza farmi condizionare dai vari segni che io stesso ho scritto sulla partitura; anche se l'ho fatta due mesi prima ci ritorno sopra: è il piacere dello studio che esiste credo soprattutto in quelli che fanno un mestiere legato a qualche cosa di scritto.
Nello specifico, ne "La Sonnambula" c'è qualche particolare difficoltà? qual è la sfida più grande nel dirigerla?
La difficoltà è propria nel dirigere tutto il belcanto: "La Sonnambula" ne è un'opera rappresentativa in toto. Dirigere il belcanto è difficile perché bisogna seguire un cantante e non seguirlo, nel senso che bisogna accompagnarlo e non accompagnarlo allo stesso tempo, perché bisogna rimanere nell'arco della lettura che uno fa dell'opera, usando però queste vocalità eccezionali. Ci vogliono delle vocalità eccezionali per il belcanto, perché con i cantanti di secondo piano immediatamente l'opera crolla: l'interprete principale è il cantante, l'opera è stata scritta per il cantante con un accompagnamento, ma non bisogna cadere nella trappola di seguire completamente il cantante. Questo diventa difficile perché ogni cantante ha una propria vocalità e una necessità nel canto di avere respiri diversi, modi differenti di fraseggiare: le prove sono utilissime in quanto si  discute, si propongono delle cose e si arriva a una soluzione unica. Il cantante a volte si ascolta e si siede, e invece bisogna tenerlo vivo, occorre evitare che il cantante si lasci andare al piacere della propria voce, che ci deve essere, perché la musica vive della bellezza della voce, ma non va dimenticata la linea data dal compositore e a volte la si perde. Ecco perché diventa complicato tenerli dentro "la retta via".
Negli anni ai cantanti si richiede anche di essere attori, nel fisico e nello stare in scena. Come direttore d'orchestra, in quest'ottica, il lavoro diventa più semplice o complicato? Quanto interferisce questa dimensione attoriale?
Nel tempo si è lasciato più spazio alla regia, anche perché l'opera è fatta di ascolto ma anche di un dato visivo: è dunque necessario avere una teatralità dal punto di vista scenico. Ho notato che i cantanti sono migliorati dal punto di vista puramente tecnico-musicale: i giovani cantanti arrivano con una preparazione musicale molto più alta di cinquant'anni fa. Dal punto di vista musicale c'era un po' di approssimazione, l'importante era la voce mentre oggi il cantante è più completo perché preparato musicalmente e scenicamente, i registi chiedono qualche cosa in più, non c'è più il cantante che si ferma in mezzo al palcoscenico a fare l'aria e poi basta, ma fa parte di un evento scenografico e di una regia. Anche perché il cinema ha portato a un cambiamento dello spettatore nei riguardi visivi di uno spettacolo e la tecnica teatrale si è evoluta in una maniera incredibile, c'è dunque la possibilità di fare cose che prima non era possibile sulla scena con le luci e gli effetti scenici: il cantante è inserito in questa macchina teatrale. Forse possiamo dire che una volta c'erano più voci di qualità di adesso, ma io ne faccio una questione storica nel senso che c'erano nei piccoli paesi i cori, che sono scomparsi e creavano una situazione dove avevi mille coristi e da questi emergevano due o tre voci. Non essendoci più questi cori, abbiamo meno possibilità di scelta. Credo che questo sia il problema: certamente i cantanti oggi sono tutti ragazzi che hanno qualità maggiori.

Ci sono meno cori, ma ci sono più scuole ufficiali di canto...

Dai cori si andava nei conservatori dove completare il percorso. Nel momento in cui uno si trova in mezzo a tanti altri a cantare e si scopre una voce, a quel punto c'è l'interesse di andare nelle scuole. Le scuole non vanno alla ricerca dei singoli che, piuttosto che andare nella corale - l'unico divertimento di allora - preferiscono andare in discoteca. Nel mio paesino c'era la corale: Pavarotti viene fuori da una corale!
Il coro ha una dimensione collettiva, di comunità: emerge l'individualità di chi canta ovviamente, ma c'è anche il reciproco ascolto. Può succedere che qualche cantante si compiaccia troppo di sé stesso dimenticando l'insieme?
Il cantante d'opera è un edonista. Per andare in palcoscenico ci vuole un pizzico di follia, perché ci si mette in discussione tutte le volte e si affronta un pubblico che ti giudica inevitabilmente. Da parte dell'artista c'è questo compiacimento della propria arte, della propria dote e questo fa parte anche dell'artista. Se non fosse uno che si compiace di sé stesso, forse non sarebbe un artista.
La Sonnambula, I Puritani e Norma sono i tre capolavori di Bellini. Come colloca Bellini nel suo personale Olimpo, nel paesaggio delle sue preferenze, dei suoi amori e delle sue antipatie?
Io adoro I Puritani, perché è un'opera proiettata nel futuro. Fa un po' rabbia che Bellini sia morto così giovane: sarebbe diventato l'alter ego di Verdi. Ne I Puritani trovo un sinfonismo che non c'è nelle altre opere, c'è un po' in Norma. La Sonnambula è un'opera ancora legata secondo me al discorso puramente vocale, della linea melodica, della grandezza che Bellini ha nell'uso della linea melodica. La bellezza de I Puritani è che è un passo avanti perché c'è un mondo orchestrale che sta nascendo, non solo la parte vocale che fa da regina ne La Sonnambula. Ne I Puritani c'è un discorso più completo, ha quello che praticamente sarebbe diventato il nuovo linguaggio dell'Ottocento. Sa, è anche vero che tutte le volte che si dirige un'opera, la si ama totalmente, altrimenti non potrebbe mai risultare. 
Si potrebbe percepire...?
Io credo di sì: sono convinto che se uno non ama l'opera o la sinfonia che sta dirigendo e non la ritiene la cosa in assoluto più grande, non riuscirà mai ad entrare totalmente e dare esattamente quello che il compositore vuol dare.
Quindi, a livello emotivo, al di là della tecnica.
Certo, a livello emotivo in questo momento adoro quest'opera: per me è l'opera scritta meglio, fatta meglio, è quella che mi dà la possibilità di esprimere le mie emozioni. 
Continuando sull'aspetto emotivo, Le chiedo: ogni volta, prima di iniziare, c'è qualcosa che Lei teme nonostante la sua pluriennale esperienza?
Si teme sempre il giudizio del pubblico, non c'è dubbio: è un esame che uno sostiene tutti i giorni. Mi ricordo le prime volte che sono andato sul palcoscenico, ero piccolo: a sei anni avevo già deciso che avrei fatto il musicista. Quell'emozione di suonare davanti a un pubblico continuo a provarla tuttora, ti prende allo stomaco, come quando appunto devi dare un esame a scuola, è immancabile. Ho parlato con i vari artisti che ho conosciuto nella mia carriera e tutti vivono la stessa situazione. Ci sono i pazzi scatenati che riescono a supplire a quest'ansia con una sfacciataggine legata un po' alla follia, però per me il momento più difficile è quello che precede l'entrata, prima di entrare in buca si aspetta il silenzio in sala, si attende il buio, c'è l'ispettore dell'orchestra che ti dice "A lei!" e quello è il primo momento difficile. Poi quando si arriva sul podio, lì si cerca di esprimere sé stessi e quindi si perde se vogliamo la cognizione del pubblico, si entra in un'altra dimensione e in un altro mondo fortunatamente per noi (ride, ndr), e si vivono dei momenti di grande emotività. Mi creda: quando uno dirige, non se ne sta per tutto il tempo in un limbo. In realtà, ci sono tante cose che preoccupano dell'orchestra, ci sono dei passi orchestrali che sai essere difficili, che possono venire bene ma non sempre, sai che il cantante avrà difficoltà in quel momento: ci sono talmente tante cose da "governare" che i momenti di totale abbandono a sé stessi e al piacere della musica  sono pochi nell'arco di una serata.

A proposito di questo "esame", Lei è severo con sé stesso? Quando il pubblico Le tributa gli applausi, se li gode oppure già pensa a qualche miglioria da apportare per la volta successiva?

A ogni passo dell'orchestra si pensa sempre come può venire meglio, il controllo è al momento. Gli applausi si godono tutti perché noi viviamo per l'applauso, per dare delle emozioni al pubblico che ovviamente ti risponde applaudendoti o anche fischiandoti: il suo giudizio è inappellabile. Chiaramente ognuno di noi ha le sue scusanti: sai perché è successa una cosa, a volte dipende da noi stessi, a volte da altri e non si può far nulla: se una prima tromba sbaglia una nota o il cantante che stecca, è come un centrattacco che ha sbagliato un goal, io come allenatore non posso farci nulla!
Nel suo tempo libero, mette da parte la musica? se ne nutre in continuazione o si dedica a qualcos'altro?
A me piace molto leggere per rilassarmi. La musica purtroppo è nella testa: questo è il disastro! Non riesco a mandarla via, non riesco a pensare ad altro. Finita l'opera la sera, vado a casa, cerco di rilassarmi, c'è tutta un'adrenalina in corpo... mi piace cucinare e quindi mi rilasso. Se, andando a letto, mi viene in testa di nuovo l'opera, è un disastro: spero sempre di partire almeno dal secondo atto, perché se parto dal primo, non riesco a smettere, la devo ripercorrere interamente, soprattutto le opere pucciniane, perché Puccini ha queste melodie accattivanti che ti prendono e non escono dalla testa, rimangono lì: se inizi dal primo atto, ti devi fare tutti gli atti. E anche durante la giornata non riesco mai a liberare la testa dalla musica, fa parte di me: ma è un bella compagna, un po' assillante, soprattutto per i passi che non sono venuti a dovere, perché pensi a come possono essere eseguiti o diretti la volta dopo. La musica è sempre con me.

Ha detto che voleva fare il musicista e non il direttore d'orchestra. Qual è la stata la prima opera che ha visto e che cosa poi l'ha portata a svolgere questo mestiere?

La prima opera che ho visto è "L'italiana in Algeri" di Rossini, mi sono innamorato di Rossini e lo faccio tanto. Ho sempre voluto fare il musicista e a fare il direttore d'orchestra mi ci sono ritrovato: ho studiato direzione d'orchestra, composizione, direzione di coro, pianoforte, violino per essere proprio musicista completo. Poi, qualsiasi cosa che ho fatto nell'ambito della musica negli anni passati, l'ho fatta con grande amore e piacere, senza cercare di fare qualcosa di diverso. Facevo il pianista accompagnatore ed era fantastico, come anche il direttore degli interni, della banda ed era bellissimo: ho fatto anche dei concerti di lirica che altri non facevano, un po' snobbati dai direttori perché sono un po' da routinier, ho fatto tanti Concerti Martini & Rossi che andavano di moda perché nessuno li voleva fare. Lì ho conosciuto i grandi cantanti, da Mirella Freni a Luciano Pavarotti, a Placido Domingo, tutti i grandi e questi mi hanno avvicinato alla lirica in una maniera più passionale. Poi mi sono innamorato delle voci, le amo: ecco perché faccio il belcanto. Tanti miei colleghi non lo fanno perché la figura del direttore e l'orchestra sono in secondo piano, però essere in secondo piano mi va benissimo, non m'interessa essere l'eroe della serata. Anzi, lo lascio ai tenori e ai soprani, che quando funzionano, vuol dire che sono stati ben accompagnati e che abbiamo fatto un bel lavoro assieme. Questo è tutto il mio mondo. Giovanni Zambito.

Fotógrafo: © Javier del Real | Teatro Real

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