di Francesca Ghezzani
Passano i mesi dall’uscita, ma i temi affrontati ne Il silenzio del niente (La Vita Felice, Collana Contemporanea, Narrativa) dell’autore Ennio Masneri restano di stringente attualità nella società odierna.
Ennio, prima di parlare del libro, parlaci di te. Con quali parole ti
definiresti come autore?
Per definirmi mi permetto di prendere
in prestito le parole che faccio dire a James: sono un “semplice spettatore. O
lettore, se preferisci, di quelle pagine che dovranno essere ancora lette” e, come
ultima accezione, aggiungo sempre per bocca di James, “… un figlio di puttana
curioso”. Infatti mi considero un autore che non guarda in faccia a nessuno,
che va al di là di certi schemi e convenzioni. Mi sento sempre desideroso di
sapere che cosa sono capace di elaborare, fantasticare, metabolizzare e, infine,
scrivere e poi riscrivere seguendo il pensiero che muta ogni volta e che chiudo
in una frase, costringendomi a ritornare indietro per modificarla. Sono un
autore che ha bisogno della parola per ricordarsi della stessa.
In 120 pagine dai vita a due racconti noir psicologici che indagano con
una vena di iperrealismo le conseguenze della violenza fisica e morale sulle
donne e sui bambini. Un tema delicato… spiegaci.
Sono due storie diverse ma
parallele che, senza mai incontrarsi, incrociarsi, senza nemmeno guardarsi,
corrono sullo stesso piano, sulla stessa linea d’ombra che è ciò che consegue
quando si subisce una violenza fisica e morale: una rappresentazione di ciò che
è il passato che si ripercuote nel presente e da lì nell’immediato. Entrambi i
personaggi non hanno una misura, un metro di paragone o una visione univoca se
non quella di essere stati violentati (in maniera fisica l’una, in maniera
morale l’altro) fin da piccoli. È come se entrambi s’incontrassero alla fine
del viaggio, alla fine della lettura del libro, si prendessero per mano senza
guardarsi per timore di specchiarsi nell’altro, volendo invece a tutti i costi continuare
a cercare un proprio concetto di giustizia e colpire il silenzio di quella
società che, invece di lasciarli da soli ad affrontare i propri abissi, avrebbe
dovuto essere chiamata a proteggerli e a tutelarli senza bisogno di puntargli
contro il dito. E, una volta fatto, subisce la loro vendetta perché hanno già
realizzato di non avere nulla da perdere.
C’è un passaggio, condensato in poche righe di virgolettato, che puoi
estrapolare dalle tue pagine per farcelo conoscere in questa intervista? Se sì,
perché hai scelto proprio questo breve estratto?
“«[…] Non mi piace il silenzio. Prima forse sì, ma ora non più: l’ho
sopportato per troppo tempo e spesso sono ancora costretta a sfuggire alla sua
voce.»
«Per te il silenzio avrebbe una voce?»
«Sì, forse non te ne rendi conto, ma ha una voce che nessuno può sentire. Nemmeno tu. Forse è perché non hai mai ucciso o forse perché non sei mai stato violentato. Solo io lo sento e so quanto possa essere pesante. Parlami. Parlami o scopami, è lo stesso. Ho paura del silenzio come quando si ha paura del buio da bambini [..]»”
Ho scelto questo estratto del
dialogo tra Red e James in quanto James è lì, nella scena, spettatore e lettore
insieme che, senza aver mai provato sulla propria pelle che cosa significhi
essere picchiato e violentato, domanda alla donna se il silenzio avrebbe una
voce. E Red, a nome di tutte le persone violentate, umiliate, mai considerate,
lasciate sole a sé, risponde di sì perché è lì, nel silenzio che noi abbiamo, che
noi usiamo e che la società impone, che sta, alla luce del sole o nascosto
nell’ombra, il male. Il nostro abisso che non abbiamo il coraggio di
fronteggiare e lasciamo che sia lui a guidarci nelle nostre azioni. Il silenzio
è la voce del dolore dell’abbandono, della paura di specchiarsi e di ritrovarsi
nei volti delle persone violentate. È in questo mutismo che nessuno vuole
rompere (per questo ha una sua devastante potenza) che si nasconde l’ipocrisia
degli altri e che il mio noir è chiamato a sferzare e a mostrare in tutta la
crudezza.
Se queste due storie diventassero un film, chi dirigerebbe la regia e chi vestirebbe i panni dei personaggi?
Bella domanda! Qui entriamo
proprio nel mondo dei sogni puri! Nei desideri che vorresti con tutte le tue
forze che si avverassero a tal punto da temere di desiderare così tanto! Ma, se
vogliamo vivere in questa dolce (dolcissima vorrei dire, ma non oso) illusione
dico che sarebbe bello (e un grande onore per me) che entrambe le storie
venissero sceneggiate e dirette da registri di calibro come Barboni,
Bellocchio, Sorrentino, Soavi, Lucchetti (è una lista chilometrica!) o, se
vogliamo uscire dai confini italiani, Besson, il grande Coppola e lo Scott dei tempi
di Blade Runner.
I panni di Red mi è difficile
immaginare chi potrebbe vestirli in quanto l’attrice dovrebbe mostrare sempre
una calma fredda, assassina, un po’ bambina, mentre dentro di sé ha un fuoco
perennemente vivo e che non vorrà mai spegnere. Penso a Miriam Leone, ma
chissà! In quelli di James ci vedrei bene Lino Guanciale, che mi è piaciuto
nelle vesti del commissario Ricciardi, oppure Lo Cascio.
Nella parte di Carlos proporrei lo
sguardo duro che Pierfrancesco Favino sa alle volte comunicare tramite lo
schermo, lo sguardo trasognante di Claudio Santamaria, l’espressività pungente
di Michele Riondino o quella versatile di Elio Germano… Potrei continuare
l’elenco! Il nostro cinema è una grande fucina di attori dai volti molto
espressivi perché la cinepresa dovrà essere sempre puntata sullo sguardo
gelido, impassibile, immobile del personaggio che lo dovrà mantenere per non
cedere alle emozioni con cui, un giorno o l’altro, dovrà fare i conti.
Di questo libro
riscriveresti ogni singola virgola o cambieresti qualcosa oggi?
Se lo rileggo adesso, a un anno dalla sua pubblicazione,
cambierei certo tante cose ma senza modificare il corso della storia in sé. Per
questo non rileggo i miei libri cartacei, per timore di trovare cose da
cambiare e distogliermi dai progetti in corso. Mi piacerebbe un giorno, se ne
avessi il tempo e la possibilità, di trasformare il secondo racconto “Il sogno
dello scorpione” in un romanzo più ampio, un po’ più descrittivo.
Infine, quali sono i
progetti futuri che porti avanti?
Sono nella fase di studio e di
esercizi di stile per stendere ulteriori storie. Ho appena terminato un romanzo
poliziesco sul quale spero di attirare una buona attenzione e sto iniziando a
scriverne un altro, tutto per esercitarmi a scrivere, a ricordare le parole e a
migliorare lo stile, appunto. Una volta completato questo progetto, mi auguro
di riuscire ad affrontare il complesso tema del romanzo di formazione o retrospettivo,
ma cercando di non cadere nella banale narrativa di consumo, in quanto ciò che
scrivo nasconde sempre un insegnamento che il lettore è chiamato a estrapolare.
D’altronde, ogni volta che metto parole nero su bianco racconto una storia
soprattutto a me stesso. Come ho detto, scrivo per ricordare.