di Andrea Giostra
Ogni volta, a queste lusinghiere richieste, una riservata
discrezione mi sopraffà, scatenando una resistenza a scrivere quello che non
ritengo d’essere in grado di fare da un punto di vista che possa risultare
privo di tutte le contaminazioni culturali delle quali sono al contempo
forgiato e vittima. Per natura sono ultra-severo
con me stesso, su tutto quello che faccio o ho fatto. So per diretta
esperienza, vissuta negli anni della mia adolescenza fino all’età di giovane
adulto, che questa innata severità, se proiettata al di fuori di me, può essere
molto pericolosa e non ha fatto altro che conquistare gratuite inimicizie e motivate
antipatie.
Quindi, con tutta la gentilezza che sono in grado di esprimere, succede
così che ringrazio con riconoscenza tutti gli artisti che mi hanno onorato con
la loro richieste e prometto loro che mi gusterò l’opera restituendo un mio
personalissimo riscontro emozionale, più che un’analisi critico-culturale o una
valutazione artistico-accademica.
È per questo motivo che quando Caterina Civallero mi chiese se fossi stato disposto a scrivere una
presentazione a “Clessidre senza
sabbia”, anticipandomi telefonicamente il tema che trattava il
libro, risposi con un entusiasmo mascherato da una non ben celata riserva di
fare davvero quello che mi era stato chiesto e che timidamente avevo promesso.
Caterina Civallero, nel suo libro che
tratta il delicato tema dell'Anoressia, affronta il processo della
guarigione, il dolore e il senso di
colpa che vive un genitore di fronte alla figlia anoressica che ha deciso di
abbandonarsi alla morte? “Clessidre
senza sabbia. Sopravvivere all'Anoressia” di Caterina Civallero racconta gli stati d’animo e i pensieri di una
mamma la cui figlia anoressica è sopraffatta dalla malattia: «Il libro – racconta
l’autrice - è diviso in due parti e nella prima racconterò la storia di
Alice Perdoncin, una giovane ragazza, bella, gentile e tormentata dalla
malattia che la stritolerà fra i suoi denti aguzzi. La malattia l'ha
inghiottita fra le sue spire e se l'è portata via la notte del 18 novembre 2020
a soli vent'anni, dopo otto passati nel tormento. A fornirmi i dati per creare
la mappa narrativa è sua mamma Debora che ancora oggi, dopo diciassette mesi
dalla sua scomparsa, soffre al pensiero di quel calvario vissuto invano, mentre
cerca di gestire il senso di vuoto che solo la morte di un figlio sa creare.
Nella seconda parte del libro analizzo le scoperte scientifiche e le tecniche
terapeutiche più attuali, esplorando anche l'aspetto legale della malattia e
degli odierni diritti del malato. La mia opera vuole essere sostegno e
testimonianza e ha come finalità la sensibilizzazione verso un problema molto
attivo e di difficile gestione: le famiglie che ne sono coinvolte vengono
divorate letteralmente dall'Anoressia e quando diventa impossibile vincerla la
perdita diventa estrema. La vita che ogni essere umano riceve in dono va difesa
e onorata; in Clessidre senza sabbia propongo di analizzare questo problema da
un punto di vista ampio e articolato con l'augurio che esso possa fungere da
staffetta per vincere questa sfida – e scrive ancora - La riconnessione con la nostra vera essenza,
che nel caso dell'anoressia coincide con la possibilità di ridisegnare i
confini del proprio corpo, è l'unica vera via per giungere alla guarigione. La
virata emotiva che va ricercata è dentro di sé ma lo stimolo che può
catalizzarla origina dall'esterno. Guarisce chi riesce a comprendere il giusto
momento in cui chiedere aiuto: il primo vero passo per uscire da questo
insidioso tunnel è l'intenzione. In un capitolo della seconda parte del libro
parlo della storia di un ragazzo anoressico e di come sia riuscito a proiettare
la sua necessità di aiuto su un'altra persona in difficoltà. Nel proporsi,
sperimentando le modalità di un semplice soccorso, scopre che le prigioni si
somigliano tutte e quasi tutte hanno una finestra che se vogliamo si può
aprire. Ma l'anoressia purtroppo ci riserva finali molto tristi e in antitesi
all'esempio appena citato emerge la storia di Alice Perdoncin, nata e vissuta
troppo velocemente perché ci si possa concedere il lusso di dimenticarla; a lei
è dedicato il libro. Attraverso la sua storia desidero mostrare cosa si
nasconde sotto la pelle della magrezza e quali sono le sofferenze a cui è
sottoposta la famiglia di chi è malato. Il viaggio emotivo, frutto dei dialoghi
con Debora Pignata, la mamma di Alice, serve per incamminarsi nel territorio
del dolore in punta di piedi e mi permette di giungere a spiegare la genesi
della malattia, e quali scoperte scientifiche possono sostenere coloro che
dovessero trovarsi persi in questo scenario. Pertanto il testo è formulato in
due parti, inscindibili fra loro nonostante la divisione. Il ventaglio di
informazioni che ho sviluppato nella seconda mostra tonalità terapeutiche
davvero straordinarie: scegli da quale partire; il viaggio può essere percorso
in entrambi i sensi.»
Dopo aver letto con molta attenzione il “racconto” di Debora ed
essermi lasciato trascinare dalla parte emozionale di me lettore, i miei sono
degli “spunti di riflessione” intimi, personali, generati da un racconto di
poco meno di trenta pagine, potente, disperato, disarmante, per certi versi
fatalista, di un fatalismo mai dichiarato e che ha una connotazione razionale,
il ché, per certi versi, è paradossale.
La mia formazione accademica e professionale di Psicologo Clinico
mi ha fatto ben conoscere il gravissimo problema dei disturbi del comportamento
alimentare, dell’altissima incidenza nei giovani e giovanissimi della
popolazione occidentale del Ventunesimo secolo dove il consumismo, la
globalizzazione e l’immagine “perfetta di sé”, hanno inesorabilmente
preso il posto di tutti quelli che sono stati gli indiscussi “valori”
dei loro nonni e padri fino alla metà del secolo scorso, il Novecento.
Io non so, né riesco a immaginarlo, come ben scrive Debora Pignata
nel suo racconto, qual sia il dolore che un genitore possa provare dopo la
morte di un figlio: «È difficile da spiegare il dolore di una madre che
perde un figlio; solo chi lo ha provato può comprendere davvero ma non ho
voglia di spiegare come sto: è faticoso. In questi primi giorni senza di te
tutto sembra complicato come mai lo è stato…».
Queste parole di Debora, che senza alcun dubbio sono di
disperazione estrema, già dalle prime pagine pugnalano il lettore al cuore che
sente improvviso il “senso di colpa” di coloro che sono sopravvissuti ad
una immane tragedia che ha portato via per sempre familiari, amici e conoscenti
e che tecnicamente viene definita come “sindrome del sopravvissuto”.
Quello che ho pensato è stato semplice e annichilente: in effetti è vero, non
posso capire questo dolore!
Ma perché una mamma che ha vissuto quello che racconta Debora
sente il bisogno di scriverlo, di tirarlo con forza fuori dalle profondità
della sua anima, di renderlo partecipe a chi come lei vive o ha vissuto lo
stesso problema, di ripercorrere i giorni, i momenti, gli attimi di vita, di
gioia, di rabbia, di emozioni contrastanti con la propria bambina che ha deciso
di intraprendere una strada che ha un solo e inesorabile destino? «Cosa può
fare un genitore di fronte a un figlio che rifiuta di alimentarsi? Nulla, si
può fare nulla. Insistere è la via peggiore, cercare una mediazione risulta
inutile, arrabbiarsi è dannoso, scappare è inattuabile. L’anoressia è una
bestia feroce che si è nutrita delle nostre vite: la tua l’ha fatta a pezzi e
della mia non restano che brandelli. Questo vorrei spiegare, quando piango e
dico che non so se riuscirò a sollevarmi dal mio dolore; e mentre lo penso ho
il terrore di dimenticare, e mi trovo nuovamente prigioniera di una sofferenza
angosciante che mi stritola da dentro.»
Debora racconta che con la figlia Alice, bellissima, intelligente,
sensibile, colta seppur giovanissima, il suo era un rapporto simbiotico,
reciproco, di un dare e avere senza alcuna condizione, un amore potente come
può essere potente l’amore di una madre per la propria figlia, e di una figlia
verso la propria madre che ha saputo ergersi, nei momenti di tempesta oceanica,
a faro sicuro e appiglio salvifico.
«Non si è mai abbastanza grandi per i nostri figli, quel giorno ne avevo la certezza, perché la vedevo mentre mi ascoltava nella sua aria confusa che faceva fatica a nascondere. Le toccai la fronte, scottava un po’: aveva le guance rosse e le mani umide. Chissà quali sensazioni stavano lottando nel suo corpicino perfetto: era il ritratto della bellezza, sempre che la bellezza ne abbia uno. Perfetta, alta e fiera, la mia Alice era la versione migliore di me: mi somigliava nel tocco della pelle e nell'intensità dello sguardo, ma il colore dei suoi occhi doveva averlo rubato agli abissi dell’oceano. Un blu come quello non l’ho mai più rivisto… e dire che cerco il suo sguardo ovunque. Oggi fisso allo specchio i miei occhi e vedo solo dolore, mi osservo attentamente per vedere se riesco a incontrarla ancora ma resto a mani vuote in silenzio a pesare il vuoto della quotidianità che si mescola con il baratro che ha lasciato andandosene. Alice dagli occhi blu, chissà quale colore aveva la tua anima. Se solo riuscissi a scoprirlo inseguirei ogni sfumatura che ti somiglia, per ritrovarti. Devi aver lasciato qualcosa che mi permetta di raggiungerti, dimmi che è così: ho bisogno di vederti, di toccarti. Voglio scoprire se al di là della vita hai trovato la vita che cercavi. Dove sei?»
I “sensi di colpa” sono quelli che vive il lettore di
questa storia, ma sono anche quelli che perseguitano tutti i genitori dal
momento in cui mettono al mondo i loro figli, e si scatenano dentro la loro
testa quando pensano se stanno facendo tutto quello che dovrebbero fare, se
hanno fatto bene o hanno sbagliato qualcosa, se sono stati dei buoni esempi di
vita, se hanno deluso i loro figli, se sono riusciti a dare tutto quello che
era necessario dare loro, se… se… Ma il senso di colpa in un genitore rimane e rimarrà
per sempre anche senza alcun motivo e senza alcun reale dolo.
Forse sta lì il cuore di questo racconto disperato: i sensi di
colpa! I sensi di colpa di non essere riusciti a proteggere il proprio figlio,
quelli di non avere fatto tutto quello che occorreva fare, quelli di non essere
stati sufficientemente determinati, di non avere capito in tempo quando lo si
poteva ancora salvare, quelli di non avere protetto il proprio figlio dalla
tragedia, dal dolore, dalla sofferenza, dalla morte.
Ma poi mi vengono dei dubbi, e non so perché.
Forse, invece, si vuole donare al proprio figlio una immortalità
letteraria, attraverso la parola, attraverso la scrittura? «Per tener vivo
chi non c’è più bisogna ricordarlo e parlarne: solo così gli si regala il dono
dell'immortalità. Anche questo libro sarà uno strumento per far vivere Alice,
nonostante Alice sia altrove. E così, non avendo nessuna certezza che un gesto
disperato possa farmela incontrare di nuovo, sono tenuta a stare qui. Ma certi
giorni è davvero atroce!»
E qui altri dubbi prendono il sopravvento sulle mie emozioni di
lettore.
Scrivendo queste ultime parole mi viene in mente una lezione
tenuta dal mio professore di psicologia clinica durante una lezione
universitaria, che raccontò di quando Sigmund Freud andò negli Stati
Uniti per tenere una serie di conferenze sulla psicoanalisi che a quei tempi era
divenuta la novità scientifica più importante e rivoluzionaria della
psichiatria e delle medicina di inizio Novecento. A conclusione di una delle
conferenze tenute in un'importante università statunitense, una donna si
avvicinò alla cattedra del Professor Freud, gli disse che lei era una mamma e
gli chiese come doveva comportarsi con i suoi figli perché ogni volta che
diceva o faceva qualcosa per loro, poi sentiva sempre degli strani sensi di
colpa generati dal dubbio che avesse sbagliato qualcosa o non avesse fatto
tutto quello che avrebbe dovuto fare. Sigmund Freud ascoltò con attenzione la
donna e quando questa ebbe terminato di parlare le rispose: "Signora,
faccia quel che vuole, tanto con i suoi figli sbaglierà sempre!".
La risposta apparentemente superficiale e sibillina nasconde però
una profonda verità e una saggezza di infinita potenza. Nessuno può dire a una
mamma come deve comportarsi o cosa deve o non deve fare per i propri figli, né
ci sono delle formule o delle strategie che evitino a priori di commettere
degli errori che possano sottrarre il genitore dai sensi di colpa. È
impossibile ottenere questo risultato! E qualsiasi cosa possa fare un genitore,
il figlio − dall'età infantile fino all’età di giovane adulto − leggerà sempre cose
diverse da quelle che sono nelle intenzioni della madre o del padre.
La modalità che veramente funziona con i propri figli, e che
certamente ritroviamo nel racconto di Debora, è la coerenza nelle azioni, nei
comportamenti, nelle cose che si dicono e nelle cose che si fanno. Solo quello
ha un potere devastante e incontenibile che penetra l’anima e la natura dei
figli. Le azioni e l'esempio di vita dei genitori, se sono coerenti, lasciano
solchi profondi che non potranno mai essere cancellati dai figli e che faranno
da guida per il loro futuro.
Questa coerenza impregna il racconto fin dalla prime righe, viene
trasmessa al lettore, e certamente è stata portata con sé da Alice come lascito
immortale di sua mamma Debora.
(scritto di Andrea Giostra tratto dalla Prefazione del libro)
Il libro:
Caterina Civallero, “Clessidre
senza sabbia. Sopravvivere all'Anoressia”, 2022
https://www.amazon.it/gp/aw/d/B09XZH878P/ref=tmm_pap_swatch_0?ie=UTF8&qid=1650115776&sr=8-12
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