«Cerco di raccontare storie estreme, al limite della nostra esistenza, conflitti interiori atavici nell’uomo senza seguire le mode dei tempi, attraverso un racconto sempre carico di suspense, colpi di scena e con un ricercato gusto estetico con l’unico obiettivo di emozionare il pubblico.» Intervista di Andrea Giostra.
Ciao
Massimo, benvenuto e grazie per aver accettato il nostro invito. Come
ti vuoi presentare ai nostri lettori? Chi è Massimo artista-della
settima arte e Massimo uomo della vita quotidiana?
Nella
vita di tutti i giorni sono una persona semplice, molto riservata con
delle passioni che coltivo. Gioisco delle cose genuine e belle che la
vita mi regala e condivido tutto con la mia compagna, perché come
diceva Paulo Coelho “L'universo
ha senso solo quando abbiamo qualcuno con cui condividere
le nostre emozioni”. Sono
una persona molto curiosa, leggo di tutto, studio sempre, vedo film
in quantità esagerata e negli ultimi anni anche serie tv. Sul lavoro
sono molto scrupoloso e attento, devo essere convinto pienamente di
quello che faccio.
Come
e quando nasce la tua passione per la settima arte?
Devo
scavare nella mia memoria per cercare il momento in cui scoppiò la
scintilla. In un tema che ho fatto in seconda media, sul lavoro che
vuoi fare da grande, scrissi che volevo fare il regista,
evidentemente qualcosa di “folle”
già c’era dentro di me. Da piccolo andavo spesso al cinema con i
miei genitori. Mio padre noleggiava film in Super 8 e aveva una
cinepresa con il quale faceva filmini familiari e sicuramente questo
ha contribuito ad alimentare quella fiamma che avevo dentro. Avevo
circa sedici anni quando iniziai a girare i primi corti amatoriali
coinvolgendo amici e parenti. Ricordo che rinunciai alla gita del
quinto superiore, così da poter avere la scuola mezza vuota ed
essere autorizzato dal preside a girare un mediometraggio horror con
alcuni alunni dell’istituto.
Qual
è il percorso formativo ed esperienziale che hai maturato e che ti
ha portare ad acquisire le competenze per diventare regista e
realizzare le tue opere?
Sostanzialmente
sono un autodidatta che si è formato attraverso lo studio, la
sperimentazione e la pratica. Ho studiato su molti testi il cinema e
la regia ed ho girato molti corti amatoriali, inguardabili, che
comunque mi hanno permesso di dare libero sfogo alla mia creatività
che non si è mai fermata, fino ad arrivare a girare corti sempre più
professionali confrontandomi con il cinema vero. Mi sono sempre
raffrontato con professionisti del settore e questo mi ha permesso di
crescere artisticamente.
Ci
parli dei tuoi film? Come nascono, di cosa parlano?
Non
c’è mai una regola precisa. “Uomo di
carta” e “Deadline”
sono nati da una necessità di raccontare due storie - con delle
tematiche molto forti - a cui tenevo particolarmente in quel momento.
Il primo parla di un uomo cieco rinchiuso dentro il suo mondo, fatto
di libri, che lo allontana gradualmente dalla vita reale fino a
renderlo prigioniero di sé stesso. Nel secondo affronto il momento,
il confine immaginario tra la vita e la morte del protagonista in un
viaggio onirico. Tutto nasce da un desiderio di parlare di qualcosa
che mi prende da dentro o che leggo e mi cattura totalmente. Mi piace
fare film che vorrei vedere al cinema da spettatore.
Come
è stato lavorare con Caroline Goodall e James Parks e, soprattutto,
come sei riuscito ad averli per il tuo film?
Era
fondamentale avere due attori molto bravi in grado di reggere un film
così claustrofobico e, per questo, abbiamo fatto diverse ricerche e
provini. Alla fine mi sono convinto che Caroline
Goodall fosse l’attrice giusta, molto
brava, con quell’energia e quel briciolo di “follia”
che cercavo. Di James Parks
ho visto tutti i suoi film e notai dettagli e fisicità, oltre che
bravura, che reputai adatti al personaggio. Sono stati entrambi
straordinari, come artisti e come persone, due grandi professionisti.
Nel film c’è anche Burt Young,
famoso per la saga di Rocky,
dove interpretava Paulie. Sono sempre molto attento alla scelta degli
attori e lavoro molto con loro, sono il motore portante per la
riuscita di un film. Averli è stato merito del produttore del film,
Riccardo Neri, che ha
messo la sua esperienza ed ha in qualche modo garantito per me e il
progetto.
«La
lettura di buoni libri è una conversazione con i migliori uomini dei
secoli passati che ne sono stati gli autori, anzi come una
conversazione meditata, nella quale essi ci rivelano i loro pensieri
migliori» (René Descartes in “Il
discorso del metodo”, Leida, 1637).
È proprio così secondo te? Cosa significa oggi leggere un buon
libro, un buon romanzo? Quali orizzonti apre per un regista, nell’era
dell’Homo Technologicus, la
lettura di buoni libri?
La
lettura, l’immersione totale nel racconto scritto è illuminante
per l’anima e per l’ispirazione di chiunque. Credo che un buon
libro, così come un buon film, una bella musica, ci riconcili col
mondo, con noi stessi, perché l’arte, la creatività, in generale,
sono linfa vitale per il nostro cervello e le nostre emozioni, e una
vita senza emozioni è molto povera. Sono sicuramente fonte
d’ispirazione diretta o indiretta verso quello che potrebbe essere
un racconto cinematografico.
«Tutti
i film che ho realizzato sono partiti dalla lettura di un libro. I
libri che ho trasformato in film avevano quasi sempre un aspetto che
a una prima lettura mi portava a domandarmi: “È una storia
fantastica; ma se ne potrà fare un film?” Ho sempre dei sospetti
quando un libro sembra prestarsi troppo bene alla trasposizione
cinematografica. Di solito significa che è troppo simile ad altre
storie già raccontate e la mente salta troppo presto alle
conclusioni, capendo subito come lo si potrebbe trasformare in film.
La cosa più difficile per me è trovare la storia. È molto più
difficile che trovare i finanziamenti, scrivere il copione, girare il
film, montarlo e così via. Mi ci sono voluti cinque anni per
ciascuno degli ultimi tre film perché è difficilissimo trovare
qualcosa che secondo me valga la pena di realizzare. (…) Le buone
storie adatte a essere trasformate in un film sono talmente rare che
l’argomento è secondario. Mi sono semplicemente messo a leggere di
tutto. Quando cerco una storia leggo per una media di cinque ore al
giorno, basandomi sulle segnalazioni delle riviste e anche su lettura
casuali.» (tratto
da “Candidamente Kubrick”,
di Gene Siskel, pubblicato sul Chicago Tribune, 21 giugno 1987). Cosa
ne pensi delle parole di Kubrick? Tu come fai a trovare belle e
interessanti storie da trasformare in film o sceneggiature che
possano interessarti come regista o interessare un produttore che poi
li finanzi?
Penso
che quello che diceva il buon Kubrick sia pura verità, è davvero
difficile trovare storie per cui valga la pena farci un film, almeno
questo è anche il mio pensiero. Kubrick ha saputo trasformare dei
testi letterari, spesso non di grande successo, in opere filmiche che
sono delle vere e proprie opere d’arti. Io cerco sempre storie da
poter far diventare film, non a caso leggo moltissimi soggetti,
sceneggiature e libri di diversi autori. Faccio molte ricerche su
quello che possa stimolare la mia attenzione e solleticare la mia
curiosità artistica. “Uomo di carta”,
ad esempio, l’ho scritto dopo aver letto una novella bellissima di
Luigi Pirandello poco conosciuta. A questo si aggiungono anche
soggetti e sceneggiature partorite direttamente da me, ma non soffro
minimamente l’idea di non essere considerato l’autore del film
solo perché non l’ho scritto, ho superato questo stato mentale da
molti anni.
«Ho
sempre detto che i due registi che meritano di essere studiati son
Charlie Chaplin e Orson Welles che rappresentano i due approcci più
diversi di regia. Charlie Chaplin in modo grezzo e semplice,
probabilmente non aveva il minimo interesse per la cinematografia. Si
limita a schiaffare l’immagine sullo schermo, e basta: è il
contenuto dell’inquadratura che importa. Invece Welles, al proprio
meglio, è uno degli stilisti più barocchi nello stile tradizionale
del racconto filmico.» (Conversazione
con Stanley Kubrick su 2001 di Maurice Rapf, 1969). Tu cosa curi di
più in un film, l’immagine o il racconto, l’inquadratura o i
dialoghi? Oppure, cosa è importante per te in un film, per rimanere
nelle parole di Kubrick?
La
sintesi su Charlie Chaplin e Orson Wells è veritiera. Personalmente
cerco di curare tutti gli aspetti che compongono un film. Sono
convinto che nulla può essere lasciato al caso o che qualcosa sia
superiore o più necessario. Seguo tutte le fasi della lavorazione,
affinché tutto sia come lo immagino. È l’equilibrio fra tutte le
componenti del racconto a dare forza ad una pellicola che deve
necessariamente avere dei bravi attori. Tutto è futile se un attore
non catalizza il pubblico dentro il racconto. Kubrick curava tutto
nei minimi dettagli e aveva un senso estetico straordinario ed ha
conquistato quello che è il sogno di ogni regista: “il
tempo”. Infatti, la lavorazione dei suoi
film non aveva quasi mai tempi stretti o scadenze. Per me è un
modello da seguire, il suo “fare cinema”
e ogni suo film sono lezioni di cinema e di vita.
«Il
cinema lo chiamerei semplicemente vita. Non credo di aver mai avuto
una vita al di fuori del cinema; e in qualche modo è stato, lo
riconosco, una limitazione.» Bernardo
Bertolucci (1941-2018). Qual è la tua posizione da addetto ai
lavori, di chi il cinema lo vive come professione ma anche come
passione, rispetto a quello che disse Bertolucci? Oltre ad essere
un’arte, una professione, cos’è il cinema per te?
Bertolucci
è uno dei registi italiani che amo maggiormente e sono d’accordo
che il cinema per alcuni, me compreso, è vita. È una necessità,
quasi una dipendenza, quella di nutrirsi di cinema, per questo
vediamo film, serie tv, leggiamo soggetti, sceneggiature, scriviamo,
e non vediamo l’ora di essere su un set, tutto questo è una
catarsi dell’anima per chi ha il cinema nelle vene. Come diceva
Fellini, “Il cinema
è il modo più diretto per entrare in
competizione con Dio”, e forse è anche la
necessità di creare, nel senso vero del termine, che ci spinge a
fare un film.
«La
sceneggiatura è il genere di scrittura meno comunicativo che sia mai
stato concepito. È difficile trasmettere l’atmosfera ed è
difficile trasmettere le immagini. Si può trasmettere il dialogo; se
ci si attiene alle convenzioni di una sceneggiatura, la descrizione
deve essere molto breve e telegrafica. Non si può creare
un’atmosfera o niente del genere». (Conversazione
con Stanley Kubrick su 2001 di Maurice Rapf, 1969). Quanto è
importante la sceneggiatura per realizzare un buon film? Quanto
incide in una produzione il rapporto tra sceneggiatore e regista?
La
sceneggiatura non è mai il film, ci sono tanti interventi di natura
artistica, tecnica e produttiva che incidono, giustamente, sulla
realizzazione di un’opera cinematografica che è una rielaborazione
visiva del regista che trasforma in immagini le parole scritte. Ho
diretto due film non scritti da me, ma che sentivo molto vicini, che
toccavano delle corde a me care. Devo dire che mi trovo molto a mio
agio a dirigere anche film scritti da altri ed ho sempre un ottimo
rapporto con gli sceneggiatori. Lo script
è fondamentale anche per “vendere”
un progetto, suscitare l’interessa di un attore o di una
produzione, ma è indubbio che richiede una lettura con una metodica
diversa rispetto a come si affronta la lettura di un libro, è
decisamente più una lettura tecnica e chi legge deve saper vedere
per immagini ciò che legge, serve avere un occhio diverso, quasi più
“scientifico”. Ho
diretto due film non scritti da me, uno è “Noi
due”, per Rai
Fiction e l’altro è il recente “The
Elevator”, uscito al cinema lo scorso anno
e scritto da Mauro Graiani
e Riccardo Irrera.
Qual
è oggi lo stato di salute del cinema italiano in una prospettiva
internazionale? Come sono viste, secondo te, le produzioni italiane
degli ultimi dieci quindici anni nel mondo?
La
salute non è proprio ottima, è un po’ anemico e necessita ferro e
vitamine… Scherzi a parte, al momento credo che il nostro cinema si
divida in una serie di autori conosciuti e apprezzati sia in Italia
che all’estero, una sfilza infinita di commedie, spesso ripetitive
e copie di se stesse, e un cinema indipendente - spesso di genere -
che cerca di ritagliarsi uno spazio nel difficile sistema delle
major. Sono convinto che ci sia poca attenzione al “genere
cinematografico” in Italia e questo penalizza molto il nostro
cinema e la visione che il resto del mondo ha di noi, ghettizzandolo
spesso a storie di natura sociale, politica e di denuncia,
addentrandosi poco nella fantastica visione della pura fantasia del
racconto, come disse in un’intervista il grande Vincenzo
Cerami.
Chi
sono i tuoi registi preferiti del passato e quelli contemporanei, e
perché loro?
Per
fortuna sono tantissimi i registi che amo e che mi hanno aiutato a
formarmi, che mi hanno influenzato in qualche modo. Non riesco mai a
fare una lista o una classifica dei preferiti, ma se devo dirne uno
su tutti, dico Stanley Kubrick,
per me è punto di
riferimento assoluto, adoro il suo modo di fare e
concepire il cinema, le storie che ha raccontato e come le ha
raccontate, lo considero il più grande regista di tutti i tempi, con
opere paragonabili alla perfezione. Ha anticipato tutti sia nel modo
di raccontare sia nei contenuti di quello che ha messo in scena.
Quali
attori contemporanei ti piacerebbe scritturare nel tuo prossimo film?
E perché questi? Dacci almeno tre nomi di attrici e di attori?
Ci
sono tanti attori e attrice nel panorama nazionale ed internazionale
che adoro, per tanto fare una cernita di tre nomi risulta molto
difficile anche perché per ogni progetto che affronto non sempre
andrebbe bene lo stesso attore o attrice. Devo ammettere che nutro
una certa passione per gli attori inglesi e per quelli che vengono
dal teatro. Bisogna sfatare il falso mito che l’attore teatrale non
vada bene per il cinema, anzi direi proprio il contrario. In
Inghilterra i più bravi hanno proprio una grande esperienza
teatrale. Ci sono molti talenti in Italia, attori poco noti al grande
pubblico, che meriterebbero di lavorare per arricchire il nostro
panorama e per dare più autenticità ai film, ecco vorrei lavorare
con loro.
In
Italia ci sono diversi registi di talento che vengono premiati in
tutto il mondo ma che raramente trovano spazio nel nostro Paese?
Perché, secondo te, accade questo?
Alcuni
registi hanno avuto grandi riconoscimenti all’estero e in Italia,
altri invece sono un po’ snobbati nel nostro paese. Si dice che
nessuno è profeta in patria, ma credo che sia anche questione di
come un regista si pone di fronte agli addetti al settore, al
pubblico, alla critica e dalle posizioni che prende in generale.
Spesso si giudica quello che un regista dice, come si comporta,
invece andrebbero guardati i suoi lavori senza condizionamenti e
preconcetti di alcun tipo. Poi, è anche vero che un certo tipo di
cinema è molto più apprezzato all’estero che non nel nostro
paese, ma questo è dovuto principalmente ad una certa assuefazione
ad una tipologia di cinema e alla pigrizia di guardare oltre.
Qualcuno
dice che l’Italia negli ultimi venti anni è diventato il Paese
dove trionfa sempre la “mediocrazia”
e nel quale la “meritocrazia”
è diventata il peggior nemico dell’attuale potere culturale e
politico dell’Italia. È davvero così secondo te?
La
“mediocrazia” ci ha travolti e come ha detto qualcuno i mediocri
sono entrati nella stanza dei bottoni e ci spingono a essere come
loro, un po’ come gli alieni del film di Don
Siegel “L’invasione degli ultracorpi”.
Mai disturbare e soprattutto mai far nulla che possa mettere in
discussione l’ordine economico e sociale. Tutto deve essere
standardizzato. La “media”
è diventata la norma, la “mediocrità”
è stata eletta a modello. Il
sistema incoraggia l’ascesa di individui mediamente competenti a
discapito dei super competenti e degli incompetenti.
Questi ultimi sono inefficienti, mentre i primi rischiano di mettere
in discussione il sistema e le sue convenzioni. Il mediocre deve
essere un esperto, deve avere una competenza utile ma non deve
mettere in questione i fondamenti ideologici del sistema. Lo
spirito critico deve essere limitato e ristretto all’interno di
specifici confini perché se così non fosse
potrebbe rappresentare un pericolo.
Consigli
ai nostri lettori tre film da vedere assolutamente? E perché proprio
questi?
Sarò
banale ma consiglio tutti i film di Stanley
Kubrick, sono dei viaggi onirici ad occhi
aperti, è cinema puro, e sono spunti di profonda riflessione
filosofica sulla vita e sull’uomo. Se devo dire tre titoli, di atri
registi, indico “Taxi Driver”
di Martin Scorsese,
sul quale si possono dare tante interpretazioni e riflessioni, ma
quello che non bisogna perdere mai d’occhio è che, passato
attraverso le lenti del cinema di Martin Scorsese, il dramma
esistenziale si trasforma in una pietra miliare assoluta del noir,
fusione perfetta tra cinema di genere e cinema d’autore come solo i
più grandi registi sanno creare; “Fahrenheit
451” di
François
Truffaut
che racconta di un mondo sterile,
dove si mettono al bando i libri. Truffaut inizia con una serie di
zoomate, ciascuna di diverso colore, sopra i tetti della case,
stracolme di antenne televisive. Un mondo saturo di pubblicità
onnipresente che appiattisce il pensiero, di reality e di media che
forniscono un’informazione che disinforma e che distorce la realtà,
e in tempi in cui si cerca di imbavagliare anche la Rete, la storia è
più che mai attuale e ci aiuta a riflettere quanto l’ignoranza
rende poveri e schiavi; terzo film, “Il
settimo sigillo”
di Ingmar
Bergman che adora raccontare la
spiritualità, indagata attraverso il binomio vita e morte. Il
protagonista si
imbatte in un oscuro personaggio, la “morte”, e
decide di sfidarla nella più famosa partita a scacchi della storia
del cinema,
giocandosi la sua stessa vita. Il film inizia dove molti altri forse
finirebbero, con la conclusione di un viaggio che in questo caso non
è altro che l’inizio
di un percorso di crescita per il cavaliere, che lo porterà a
riflettere sul senso della propria esistenza.
Bergman articola con
rara maestria alcuni dei quesiti esistenziali su cui l’uomo
riflette da sempre,
tessendo complesse allegorie anche a livello visivo e conduce
un’indagine atemporale e astratta sul senso della vita.
Tre
libri da leggere invece? Quali e perché?
Anche
qui, non è per nulla facile. “Il processo”
di Franz Kafka,
perché ti catapulta in un dimensione onirica
ma reale al tempo stesso e si manifesta in una
vicenda ben precisa che sembra preconizzare i grandi processi-farsa
staliniani degli anni Trenta in un ingranaggio burocratico
che ti schiaccia senza pietà. Dire tutto Pirandello, in particolare “Uno, nessuno e centomila”
una parabola esistenziali perfetta su chi siamo nei confronti
dell'altro. Uno:
è l'immagine che ognuno ha di se stesso; Nessuno:
è quello che il protagonista sceglie di essere alla fine del
romanzo; Centomila: indica le
immagini che tutti gli altri hanno di noi.
Luigi Pirandello è un autore che amo e che ho
avuto la fortuna di leggere fin da giovane e in particolari momenti
della mia vita, quelli di passaggio, in cui alcuni pensieri e
convinzioni mi sono apparse per quelle che erano: illusioni.
Pirandello
mi ha accompagnato in questo delicatissimo percorso e pur affondando
il colpo, mi ha aiutato a capire. Terzo libro, “Cecità”
di Josè Saramago, la
cui potenza simbolica è affascinante: la cecità
è l’incapacità umana di vedere ciò che gli occhi non mostrano.
Attraverso piccoli espedienti, Saramago ci suggerisce che la nostra
condizione è precaria. I personaggi, per esempio, non hanno un nome,
a dimostrazione che l’identità è collegata agli attributi che
possediamo.
Una domanda difficile
Massimo: perché i nostri lettori dovrebbero vedere i tuoi film?
Prova a incuriosirli perché li cerchino e li vedano nei canali
online dove sono disponibili.
Perché cerco di
raccontare storie estreme, al limite della nostra esistenza,
conflitti interiori atavici nell’uomo senza seguire le mode dei
tempi, attraverso un racconto sempre carico di suspense, colpi di
scena e con un ricercato gusto estetico con l’unico obiettivo di
emozionare il pubblico.
Quali
sono i tuoi prossimi progetti e i tuoi prossimi appuntamenti di cui
ci vuoi parlare?
Sto
lavorano sulla scrittura di alcune storie, con alcuni sceneggiatori,
e sto valutando alcune proposte che mi hanno fatto, ma non è mai
facile trovare un racconto che non mi faccia dormire la notte al
punto da farne un film. Da poco ho letto “Metropoli’s”,
una sceneggiatura molto interessante scritta da Camilla
Cuparo. La storia è molto forte, attuale e
infatti stiamo cercando di farne un film. Ho anche un progetto in
cantiere, che ho scritto, a cui tengo molto, un dramma/thriller che
parla di ricordi, malattia, intrighi e conflitti interiori che spero
di girare presto.
Dove
potranno seguirti i nostri lettori e i tuoi fan?
Sulle
mie pagine social di Facebook, Instagram e sui miei canali Vimeo e
You Tube. I miei lavori, invece, stanno su varie piattaforme in
streaming.
Come
vuoi chiudere questa chiacchierata e cosa vuoi dire ai nostri
lettori?
Il
cinema è magia e vedere un film in sala amplifica questa magia. Per
questo consiglio di vedere sempre i film al cinema, a casa magari
riguardateli.
Massimo
Coglitore
Trailer
ufficiale di “The elevator”:
Andrea
Giostra