di Mario Narducci - Fu da
allora che il gambo dei fiori gli era diventato un chiodo fisso.
Le rose
soprattutto, rosse come porpora e vellutate a passarci le dita come una carezza
sulle labbra; le tea dalle cento sfumature che illanguidiscono verso il bianco;
le gialle, le bianche come quelle nate a coprire la roccia del suo giardino,
che richiedono cautela al tatto per le molte spine. Fosse una ragazza a passare
tra i tavolinetti dei ristoranti dove gli capitava di cenare a volte nelle sere
d’estate, con sua moglie, o fosse un ragazzo di colore, lui la prima cosa che
faceva era quella di guardare il gambo.
Le rose
erano la sua passione e ne faceva omaggio volentieri alla bellezza di una
donna. Non gli bastava che sul tavolo tremolasse la candela aromatica nel
bicchierino chiaro. Né gli bastava il vasetto risicato che gli facevano trovare
sul tavolinetto, magari con fiori finti. Finché sulla tovaglia non si posava una
bella rosa rossa era come se si sentisse a disagio. A volte doveva vincere la
ritrosia della signora, i suoi reiterati “non occorre” alitati appena con
suadenza, ma venati di desiderio.
Le sere d’estate, a Piazza Navona, sono cariche di complicità. Non c’è altro luogo che
le tenga testa. Le mille luci dentro l’agone sanno di festa discreta e
ammaliatrice. Lo scroscio delle tre fontane accompagna i sentimenti e li
lievita. E poi i pittori di strada, pronti per un ritratto o una caricatura che,
i turisti soprattutto, riportano a casa insieme ai souvenirs di San Pietro, del
Colosseo e della Lupa con i due poppanti che hanno fatto la storia della città.
A Piazza
Navona l’avverti tutta la magia del tempo e della quiete. E’ come entrare
in uno spazio unico e restarci senza assilli. Sentirsi appagati è la voglia che
aleggia dappertutto, dai terrazzi alti della buona borghesia alla Chiesa di Sant’Agnese in Agone fino
all’Ambasciata del Brasile dal
portone rigorosamente chiuso quando si apre la vita notturna. Ma a volte basta
una rosa rossa a fare la differenza.
Mario conosceva quei posti come le stanze di casa, al
Nomentano. Sulla Piazza s’affacciava un unico balcone ed era della redazione
interni in cui lavorava come giornalista. Da quel balcone osservava la vita
della piazza ammaliatrice e tornava anche ragazzo con i suoi colleghi quando
sotto le feste di Natale fiorivano le bancherelle di castagnaccio, giocattoli e
presepi e andavano gli ambulanti con i palloncini colorati che dal balcone facevano
esplodere a colpi di pistola a pallino, tra le risate più grasse quando il
malcapitato puntava il cielo per sapere da dove venissero quei tiri mancini.
Ai tavolinetti dei ristoranti di Piazza Navona, la fioraia passava
puntualmente a sera fatta, quando l’atmosfera prendeva la via della complicità.
Era una donna anziana alta e corpulenta, che tradiva dal volto, prima ancora
che dalla parola, la sua condizione di profuga istriana. Le sue rose le teneva
in un cesto appeso all’incavo del braccio sinistro. Aveva capelli grigi
radunati a crocchia sulla nuca, occhi dolci e chiari, e sulle spalle uno
scialle colorato che le calava oltre le ginocchia sulla lunga veste gonfia
d’antico. Più che parole bisbigliava suoni lievi che accompagnavano la rosa
rossa dal cesto al tavolo. Pochi spiccioli, un inchino fatto di sorriso
riconoscente, e passava all’altro tavolo, spostandosi da un ristorante
all’altro fino a rose esaurite. Solo allora spariva in uno dei vicoli abbuiati
che attorniavano la Navona, per ricomparire la sera successiva, con il suo
carico di rose e di cortesia grata.
A Mario
piaceva assai quella presenza gentile che andava oltre la bellezza sfiorita ma
ancora leggibile, come miniatura su pergamena rara. Guardasse dal balcone,
passeggiasse lungo l’anello della piazza, la prima cosa che cercava era la
vecchia fioraia e solo quando la scorgeva, tra i tavoli dei ristoranti,
avvertiva come un senso di sollievo profondo. Avrebbe notato sicuramente di
meno l’assenza di una delle tre fontane. E quando tornava a sedersi con Mariolina ad uno di quei tavoli,
incominciava a guardarsi intorno, ansioso di scorgerla, perché la serata non
sarebbe stata completa senza una sua rosa rossa da donare come cavaliere antico
alla sua donna, ritrosa sempre con i suoi reiterati “non ce n’è bisogno”, ma
felice per quel fiore da portare a casa a fine sera, per conservarlo nel
vasetto alto e stretto di cristallo che viveva solo tra una rosa e l’altra
assorbendone la bellezza e il profumo.
Era settembre quando, pure con le ancora calde
serate, la fioraia non si vide più. Dal balcone del giornale Mario cercava di scorgerla, ma
inutilmente. E quando tra una edizione e l’altra del quotidiano scendeva a Piazza Navona per due passi, anche
allora le ricerche furono inutili. E fu inutile l’attesa quando tornò ancora
una volta al tavolinetto del ristorante, e nessuna rosa si posò sulla tovaglia
bianca perché concludesse la serata nel vasetto di cristallo che rimase nudo.
Finché la notizia non prese a circolare.
“Ha saputo,
dottore, della vecchia fioraia? - gli disse una sera il proprietario del
locale dov’era tornato a cena con Mariolina
– E’ stata diffidata dalla Questura
perché i fiori che vendeva ai tavoli andava a rubarli al cimitero”. Per Mario fu una illuminazione improvvisa.
Ecco perché, si disse dandosi una palmata in fronte, i gambi di quelle rose
erano troppo corti rispetto a quelle che acquistava nel negozio di fiori
accanto a casa.
Ma dopo una prima reazione di sdegno, subito
rientrò in se stesso per argomentare che sì, quello della fioraia non era stato
un bel gesto, ma che tuttavia i morti non se l’erano avuta davvero a male se i
fiori che dovevano inaridire sulle loro tombe erano serviti a dare di che
vivere a una povera profuga istriana. Ma il rovello nessuno riuscì mai a levarglielo.
Per cui da quel giorno, ogni volta che si trovava con Mariolina o in cene tra amici e passava un fioraio, la prima cosa
che faceva, prima di acquistare una rosa, era quella di guardare il gambo. Se
era lungo la prendeva. Se era corto rifiutava gentilmente, accompagnando il
gesto con un “Requiem aeternam”
indirizzato all’anima del defunto depredato.