“Felicemente Folle con i Piedi per Aria e la Testa per
Terra, una ‘giullaressa’ racconta-storie”
Ciao Pina, io partirei parlando della quarantena che è
appena terminata. Cosa hai fatto in questo periodo? Ho visto dei video sul tuo
canale YouTube che hai nominato L’Angolo di Monna Pina”.
“MonnaPina è un
nome che mi fa sorridere. È nato durante i festeggiamenti di un Capodanno,
nello specifico quando mi feci una foto al fianco del quadro della Monna Lisa.
Un’amica mi chiese: ‘Perché non ti fai un angolo tutto tuo? Monna…’ e da lì è
stato creato L’Angolo di Monna Pina.
Comunque, in
questa quarantena ho letto, ho ascoltato, ho studiato, ho osservato. A fine maggio mi sono specializzata in
Scienze Pedagogiche. Ho passato tutto il primo mese della quarantena ad
ultimare la stesura della tesi che intendo trasformare in un saggio artistico
sul Teatro che ho definito una ‘Scienza’ ed oltre, un’‘Empatiagogia’, Tempio
del Perdono, Sacro e Profano, dove si ‘fa finta di’ raccontare, comprendere e
perdonare ciò che altrimenti non sarebbe comprensibile, raccontabile e
perdonabile. Tratto il tema in tre parti distinte con un banchetto dialogico
assieme ai commensali Franca Rame, Carlotta Natoli, Andrea Pangallo, Gabriella
Lanzara e Maria Procino, con il reperto storico de la Legge Eduardo, il tutto
contornato da una danza di poesie che possano parlare al cuore, dando allo
scritto un volto quasi da copione i cui protagonisti sono la Passione, gli
occhi degli esclusi, la “mossa” della Sciantosa, frammenti di Arte varia,
l’ultima battuta della Tradizione, ma il colpo di scena sul gran finale è del
Matto, della Signora Morte e della Prostituta con le loro leggi amorose e
l’ironia dello sberleffo osceno. Sono convinta che il teatro possa essere
un’arma oscena per scuotere le coscienze”.
Prima parlavi di Franca Rame, sei mai riuscita ad
incontrarla?
“Mi ha onorata con telefonate,
per molto tempo non ho voluto cancellare il suo numero di telefono dopo la sua
scomparsa. Non ho fatto in tempo ad incontrarla di persona, nonostante mi
avesse invitata in un teatro a Firenze durante i primi passi della mia ricerca;
ho atteso di concludere gli studi accademici per presentarmi ai suoi occhi come
mestierante, oltre che da studiosa che rincorre la propria passione. Le feci
recapitare la mia tesi. Ricordo che la mia madrina Anna mi disse di aver letto
l’intervista a Franca e ne rimasi sbigottita, allora non avevo social e mi
chiedevo come fosse possibile, ma poi la sorpresa di cliccare sul motore di
ricerca google il mio nome e scoprire la pubblicazione della nostra intervista
sul sito di archivio storico teatrale “Fo-Rame”. Amava i giovani e una volta mi
disse “Scrivi tu, sarai più capace di me, voi giovani siete più capaci, credo
in voi!”
Ci sono dei progetti che stai portando avanti in questo
periodo?
“Sì,
attualmente sto lavorando sugli Haiku et “similia”, poesie che si legano
all’esperienza sensoriale, grazie all’Associazione Ex-Alunni Liceo Durante
capitanata dalla professoressa Teresa Maiello, il folletto dalla chioma rossa.
Mi sono lanciata in questa avventura e mi sono inventata un metodo che associa
la Poesia, il Teatro e il Linguaggio Audio-visivo; ho denominato in modo
alquanto bizzarro ‘Méthode MonnaPina Vergara Experience’ il mio metodo di
lavoro cinematografico”.
Dici
“bizzarro”?
“L’ironia
è la miglior strategia umana di adattamento. Mi diletto a giocare con le parole
e ad inventarne di nuove, se pensi all’‘empatiagogia’ che unisce in sé empatia,
pedagogia e logos-studio, il ‘fallologocentrismo’ come il ‘fallo al centro’ che
si presta a suggestioni e sperimentazioni; il linguaggio vocale così come
quello corporeo offre sfaccettature infinite che ci permettono di giocare e
sperimentare per consentire il passaggio delle emozioni instaurando un dialogo
diretto con chi ci ascolta e osserva. Anche per “monnapina experience” devo
dire che mi è stata messa la pulce nell’orecchio da alcuni amici che hanno
definito così le mie suggestioni”.
La
tua associazione della Poesia al Linguaggio Cinematografico…
“La
Poesia è già dentro l’esistenza, risuona dentro di noi mediante la forza delle
immagini, noi stessi siamo eco e riverbero di ciò che accade e facciamo
accadere. Una stessa parola può dare suggestioni diverse, così come le
inquadrature, il montaggio, il ritmo, la musica, le battute, la vocalità e le
sue sperimentazioni: lo spazio che adoperi per una costruzione scenica può
modificarsi, trasformarsi così come si trasforma l’attore e in base alle
inquadrature, immagini, suoni può darti significati totalmente contrastanti. Ma
come? Lo stesso spazio è foriero di più sensi? Sì, è la poesia che vive nei
posti che abitiamo e dai quali ogni volta dobbiamo scorgere il senso poetico,
liberarlo e condividerlo. Passi accanto ad un muro tutti i giorni e per te è un
semplice muro, poi fai un’inquadratura su quel muro e di quel muro, un
dettaglio, tutto, un lato, un pezzo e, toh!, suggestioni diverse, sensi
diversi; e inizi ad amare quell’ammasso di cemento con edere d’erba che ti fa
emozionare, eppure tutti ci passiamo accanto e raramente nello scorrere
“normale” della quotidianità si accorgiamo di lui. ‘Non è un semplice muro’ ci
dicono la Poesia, il Teatro e il Linguaggio Cinematografico”.
Prima della quarantena a cosa ti stavi dedicando?
“La mia Accademia d’Arte drammatica Cassiopea
ha fatto sì che potessi essere contattata per girare il film Qui Rido Io di
Mario Martone come figurazione speciale, dato che stavano cercando degli
artisti specializzati. Nel cast del film sono presenti Toni Servillo ed altri attori
napoletani. È stata un’esperienza bella perché il set cinematografico è un
microcosmo quotidiano in cui ognuno ha il suo ruolo finalizzato ad un obiettivo
comune: è un lavoro di ensemble, dal parrucchiere che passa e ti aggiusta la
mollettina all’incedere del ciak, dal macchinista, al fonico, all’attrezzista…
Ho girato soltanto un giorno, ma c’è stato un ascolto reciproco, Mario Martone
è un regista che tratta gli attori con totale rispetto. Sia lui che Servillo ci
hanno ringraziato più volte”.
Oltre ad essere un’attrice sei anche drammaturga e
regista…
“Beh, mi diverto, sono una povera pazza schizofrenica, mi
salgono alla mente immagini, storie e non posso fare a meno di dar loro
ascolto, altrimenti ne rimarrei tormentata. Finché non do loro una forma mi
interpellano a tutte le ore, mi ritrovo a sperimentare con la vocalità melodie
improvvise, a scrivere in preda a flussi emotivi e pensieri. Ora sto
raccogliendo tutti i miei scritti elaborati negli anni, ci saranno degli
interventi in radio e sto lavorando a dei cortometraggi, alcuni inerenti a
delle psicologie su cui ho scritto nel tempo: La Donna Escort, Carmela Colomba
e il Fallologocentrismo, il tutto condito a suon di mosse da Sciantosa”.
Qual è il tema che unisce queste psicologie su cui tessi
le tue storie?
“Sono due i temi a me cari: la Follia e l’Oscenità. La
Follia è un ‘tempio’, il tempio della follia, proprio come lo è il Teatro, che
bacia le persone profonde, chi non teme di abbracciare il cuore umano nei suoi
vizi e virtù, perversioni, ipocondrie, manie e patologie. La pazzia creativa
dona la grazia di essere straordinari nella quotidianità e il coraggio di
andare a fondo e di vedere oltre, così come l’oscenità. Paradossalmente la
follia e l’oscenità ci abituano al bello, a sperare, perché ci mettono in
discussione e ti ritrovi a riconoscerti proprio in quei personaggi o parti
degli stessi che nella vita non riconosceresti mai”.
Hai parlato di speranza…
“Sì, per me la speranza è un’intelligenza, ‘intelligenza
della speranza’ che va allenata così come l’intelligenza immaginativa ed
emotiva e in questo l’Arte e la Cultura sono Maestre”.
Il tuo rapporto con gli studi classici da cui vieni.
“Ho bisogno di avere sempre sul letto dei libri, altrimenti non mi
trovo, beh, sono gli amanti perfetti. Ho dormito anche con i vocabolari di
greco, italiano e latino: vado sempre a cercare l’etimologia delle parole per
scoprire il mondo che c’è dietro, anche quello che nasconde il nome, un termine
su un personaggio che devo interpretare. Amore per esempio significa senza
morte, crisi, invece, opportunità per interpretare e scegliere, per cui inizi a
vedere la realtà da più angolazioni. In teatro l’errore diventa un’occasione
fenomenale. Anche nel montaggio di una scena e di un video, l’inconveniente
diventa l’occasione per fare qualcosa di interessante, magari molto più poetico
di quello che avessi immaginato. Ecco, la cultura classica mi ha influenzato
per una forma mentis aperta, nel suo pensare all’Arte. I greci parlano di
catarsi, io mi diletto a parlare di ‘orgasmo artistico’”.
Ecco, chiariscimi meglio questa definizione.
“È l’orgasmo che
provo quando faccio arte, quando un’opera mi porta a quel piacere che congiunge
il sacro e il profano. L’orgasmo artistico ingloba tutto ciò che possa significare
il piacere: l’arte si fa con i sensi, cuore, muscoli, respiro, con tutti i
nostri arti ma anche con l’energia, lo spirito, il corpo sottile, la volontà,
il desiderio. È un orgasmo che ti vivifica e può portarti alla contemplazione,
addirittura all’estasi. Quando uno spettacolo, un’opera d’arte, un film, un
artista ti colpiscono, in quel momento stai provando un orgasmo, quella cosa
che ti fa dire: ‘Sono arrivato’, ma che ti lascia in sospensione perché
desideri di volerlo rivivere ancora. Prova a mettere insieme le due espressioni
‘orgasmo artistico’ e ‘catartica oscenità’”.
Anche perché l’arte, dal mio punto di vista, è la
continua ricerca del bello.
“Esatto. Il “c’era una volta” del “far finta
di” è il LA che suggella un patto di fedeltà per un qualcosa di autentico e
vero che conferisce poesia perfino alla bestialità umana…, l’arte ha il potere
di rendere bello quello che è brutto, il contrappunto scenico per fare la rima,
il gobbo di Notredame che canta la sua poesia. Se non ci fosse il brutto, non
ci sarebbe neanche l’arte. Non a caso quando guardiamo un film o uno spettacolo
teatrale o leggiamo una storia, ci affezioniamo ‘ai brutti, sporchi e cattivi’,
agli scartati, esclusi, emarginati, a coloro che nella vita normale non saremmo
disposti ad accogliere e perdonare e a delle parti di noi che non siamo
disposti ad osservare, e di lì sperimentiamo la bellezza della tenerezza per
gli altri e per noi stessi”.
Quando è nata in te la passione per l’arte e la
recitazione?
“Mamma dice ‘Non ti preoccupare perché anche
quando morirai avrai modo di rallegrare il Paradiso. Farai teatro pure là.
Secondo me, l’amore per l’arte mi è nato nella pancia di mammà. A quattro anni
ho iniziato danza, una disciplina che mi ha fatto capire l’amore e il senso di
sacrificio che bisogna avere per l’arte, una dedizione con una cura continua
che mira all’obiettivo di un progetto performativo finale che in realtà non ha
mai fine. Sai che calpesterai quello spazio, che può essere teatro
convenzionale o ‘off’, anche la strada, per donare emozioni. A 15 anni ho
smesso di fare danza, che però ho ripreso in Accademia, teatro-danza, classica
e musical theatre; ho cominciato a fare teatro al liceo con un laboratorio sotto
la regia di Sasà Trapanese, un artista molto in gamba. Il Teatro è un amore
inconsapevole per il quale non ho mai conosciuto limiti sin dalla prima
lezione, durante la quale mi sono trovata nel bel mezzo di un provino per
Dorotea, psicologia di Eduardo Scarpetta in ‘O Scarfalietto e sono risultata
vincitrice della parte condividendola con una ragazza dell’ultimo anno, io mi
sarei esibita nella matinée e lei nella serale. Come avevo fatto a vincere? Non
conoscevo nessuno dei presenti che da tempo frequentavano il laboratorio uniti
da quella passione; fra l’altro non avevo la benché minima idea di come si
facesse a recitare. Ma al “Chi vuole provare questa parte?” ho agito senza
pensare, per un impulso inconscio che ti fa dire sì a un qualcosa per il quale
sei destinato e non lo sai. L’amore per l’arte l’ho dovuto mettere alla prova”.
In che modo?
“L’ho trattata un po’ come si fa con un amato
segreto, sapevo di amarlo ma volevo capire se fosse lo stesso anche per lui.
Mio padre mi consigliò di laurearmi in contemporanea per avere una valida
alternativa per pararmi i cosiddetti, ho accettato di conseguire gli studi
nelle discipline pedagogiche perché comunque ho sempre associato l’educazione
al teatro. Mi ero ripromessa però, subito dopo la laurea di andare a Roma. Ho
fatto diversi lavori per mantenermi,
dalla badante, banconista, cameriera, pasticciera alla responsabile staff in
animazione, ma la passione è il motore di tutte le cose, mi ha dato la forza
per svegliarmi alle 4:45 del mattino, e se mi andava bene alle 5, rientrare di
sera o a notte inoltrata per i viaggi quotidiani della speranza Napoli-Roma e
Roma-Napoli, in cui bisogna farsi subito le ossa. Non avevo la possibilità di
vivere a Roma ma la meravigliosa fortuna di avere un nonno, il mio “Godot” don
Gennaro, che ha atteso il suono della sveglia per me, i passi di rientro, si è
vestito da cuoco per prepararmi i pasti da portare in quel viaggio, ha dato
credito a questa follia, perché per lui essere attori è praticare un mestiere!
Lui che amava l’Opera ed era il mio re. Ricordo con tenerezza le corse per rassicurarlo
‘Sono tornata!’. Mi sono persa nelle stagioni del cuore, nel volto di uomini e
donne, bambini, barboni, anziani, folli e artisti, cani che mi accompagnavano,
ma anche nella totale assenza di gente per strada. La mia casa era il treno. Posso
dire di avere vissuto davvero la strada. Di lì mi sono innamorata ancora di più
dei suoi bizzarri abitanti. Però voglio ringraziare chi ha accettato questa mia
‘odissea’ come i miei genitori, fratelli, la mia madrina, oltre alle mie amiche Giusi e Floriana; i miei zii Pasquale
e, soprattutto Zi’ Michele, che venivano a ‘raccattarmi’ per strada quando i
treni non passavano, perché all’epoca mamma e papà vivevano in Toscana. Ecco
perché ho capito di amarlo davvero e ho iniziato ad avere i primi riscontri del
suo amore, al terzo anno ebbi la borsa di studio”.
Senti di dover ringraziare anche qualcun altro?
“Posso dirti che
mi sono innamorata dell’arte anche grazie ai ricordi della mia infanzia. I miei
nonni Gennaro e Giuseppina erano comici nati, un teatro a cielo aperto; sono
convinta che se Eduardo avesse visto nonna l’avrebbe ingaggiata. Ringrazio anche
i nonni, gli ‘Amarrani’ Gaetano, Antonietta. Ho preso spunto inconsciamente
dalle mie zie Carmelina, le Sisine, Filomena, Peppina, Anastasia, Giulietta, giusto
per fare alcuni nomi. La prima volta che ho incontrato l’oscenità ironica è
stata nella mia infanzia, zia Carmelina era solita portarmi a passeggiare in
auto con zio Eduardo e mi raccontava storie, mi faceva vedere mondi; una volta
mi raccontò di una bella signora tutta preparata che uscì con un bel tizio…,
oggi mi piace pensare che fosse una Escort transessuale, da quella storia ne ho
poi tratto la psicologia. A un certo punto, quando stanno per andarsi a
coricare, l’uomo non riconosce più questa signora, si è tolta tutto, tacchi,
begli abiti succinti, parrucca e chi è davvero, adesso? Shock! Ecco quella
sensazione di suspense da shock è la chiave dell’oscenità che ci smaschera, ci
sveglia, ci mette di fronte al fatto compiuto e alla realtà dei fatti”.
Parliamo del tuo modo di fare pedagogia. Com’è?
“È una pedagogia
oscena, che ‘sfruculea’. Sono molto legata alla figura della Sciantosa che fa
da sottofondo alle mie psicologie, un ‘leitmotiv’, per me è una ‘giullaressa’
che racconta la strada.
Prima della
quarantena ho lavorato per un progetto europeo in carcere e le strategie
teatrali mi sono state sempre di supporto, il Teatro mi ha svezzata
pedagogicamente ed è la valigia degli strumenti da cui attingo. Mi piace cercare
ed intervistare persone che possano raccontare qualcosa che metta in
discussione. Intervisto tutti: dagli intellettuali e studiosi al detenuto,
passando per Franca Rame a Carlotta Natoli, fino ad arrivare ad intervistare il
trans turco Efe Bal. Tutte persone che la vita mi ha fatto incontrare per caso,
anche se per me il caso non esiste, tutto ha un suo senso e riverbero con il
Mondo. Le psicologie forti mi intrigano ed incuriosiscono, per questo sono
affascinata dalla poesia filmografica di Almodóvar, Ozpetek…, loro si
abbeverano alle storie di persone che vivono fino in fondo, senza paura di
esternare la propria follia dalle terrazze condivise in cui la porta è sempre
aperta e con la quale ho avuto un rapporto tormentato per anni”.
Perché tormentato?
“Mi dicevo che dovessi essere normale,
altrimenti avrei vissuto come una dannata. Ad oggi invece la follia è la mia
chiave di lettura della realtà, ti fa vedere con gli occhi della ‘grazia’: ci
sono i santi e poi ci sono i folli che ti fan vedere la vita per quella che è.
Se ti metti a parlare con loro in un minuto viene fuori un mondo che non
immagini, quella famosa poesia. Sono contenta che il Papa abbia voluto fare la
via Crucis con i detenuti, ha dato loro voce e dignità; con il mio gruppo di
lavoro abbiamo spedito lettere ai detenuti di Sollicciano per far sentire la
nostra vicinanza e abbiamo pensato alla necessità di accompagnare il detenuto
che ha scontato la sua pena all’uscita dal carcere verso la libertà: un
passaggio forte ed estremamente delicato. Sarebbe bello se ognuno di noi
instaurasse un rapporto epistolare con un detenuto, un dialogo con un barbone
e/o un escluso che si incontra sulla nostra strada. I folli, le prostitute, gli
emarginati sono la nostra storia, i giullari del popolo, ‘ci precederanno nel
regno dei Cieli’”.
Hai già citato la Sciantosa e gli altri personaggi da te
creati. Vuoi parlarmene?
“Ho scritto un
copione teatrale sulla ‘donna’, monologhi e soggetti. Il primo soggetto è nato
in un laboratorio con Carlotta Natoli che mi ha stuzzicata a lavorare sulle
psicologie sopra le righe, come ‘la prostituta’ e che mi ha portato fra l’altro
a lavorare su Filumena Marturano. Si chiama Carmela Colomba, un personaggio su
cui sto per realizzare un corto come omaggio alla follia: nonostante sia una
donna calpestata e violata, Carmela mantiene il suo candore, forte
dell’intelligenza della speranza, ha un suo motto ‘non salvano i farmaci, ma
l’amore’. Psicologia che verrà associata a La Donna Escort. Poi ci sono
personaggi comici come la ‘Cuoca Vip…sss’, personalità ‘Chic and Shock’, sceneggiatrice di sperimentazioni e bislacche
descrizioni di piatti preparati non tanto per essere mangiati, bensì per
praticare il così detto rito ‘budù’…, d’altronde ‘Mica si cucina solo per
magnà. Insapidi!’. Cucina Thriller alla ‘Fatti i cachi tuoi ’a li mortazzi tua’
con metafore continue fra gli ingredienti culinari e le storie di comune
“ordinazione”. Poi c’è Donna Carmela alle prese con i figli ‘scostumati e
screanzati’, per i quali mastica suppliche e il ‘Rosario della disperazione’,
sempre pronta ad elargire massime di fronte alle vicissitudini alle quali
risponde a suon di motivetti canori, tra questi “Tu vuò fa’ ‘o scostumat”
contro la mala gente. Le sue ‘friccicarelle’ armi di battaglia sono l’inconfondibile
Fischietto, la Macchinetta del Caffè, Santi, Santini e le allegre Infatuazioni
platoniche fra cui predilige i giocatori ‘fresconi’, ma mica è colpa sua se ha
un ‘core grande in cui c’è spazio per molti?’. Ed ecco la Ri-Animatrice Radical
Chic, abbigliata come ‘Rac-Cat Wuaoman’ affiancata dal suo bodyguard ‘Batti Le
Mani’ e una bambina che rappresenta il “Fanciullo che abita in noi”. In
risposta a chi vuole fare l’‘influencerato’ e il ‘social marketteting’,
promuove il lavoro di ri-animazione proponendo attività ricreative che ‘Se le
volete fare è bene, altrimenti vi fottete!’. Prorompe col megafono,
costringendo a ballare la da lei detta Baby-Dans, una danza speciale ‘per non
buttare avanti sempre i bambini ma per buttarci anche Noi’: ogni ballo ha la
sua storia, ne ‘Il Coccodrillo come fa’ la spiegazione del perché ci troviamo il
Mondo così. I suoi motti: ‘Facciamo uscire il Fanciullo che abita in noi, non
solo le donne incinte come dice un mio amico carissimo Giovanni Pascoli’, il
tutto contornato dal suo Urlo di Ggggioia Oooohhhh. E poi in punta di piedi la
Signora Parfum che si intravede un po’ nelle varie psicologie.
Chiudi questa
intervista con uno dei tuoi motti che ti rappresenta