di Mario Narducci - Se
c’era la piazza, ci sarebbe stato anche lui. Lui c’era a prescindere: della
gente, delle domeniche, delle feste, e dei colombi che s’alzavano in volo al
suo lento passare da un lastrone all’altro, con un nugolo di palloncini
colorati assicurati ad una mano da una selva di fili, e la miriade di girelle
che era un miracolo a vedergliele tutte nell’altra mano.
Se ne stava lì dal
primo pomeriggio, spuntato non si sa da quale via del centro, e scompariva a
sera, per ritornarci nel mistero delle ombre che calavano di botto. Se poco
poco tardava, la piazza appariva desolatamente vuota, anche se c’erano ragazzi
a correre sotto lo sguardo vigile di mamma e papà. Ma se c’era, la piazza
appariva gremita, anche senza nessuno.
Perché
lui era la piazza, come l’edificio con i merli a lato della Chiesa, sulla
terrazza del quale, nelle solennità, si tirava la tombola popolare; come gli
uomini di bronzo del D’Antino al centro delle due fontane; come lo storico Bar Nurzia dalle cui vetrine lo si
poteva tenere d’occhio. Lo conoscevano tutti con il nomignolo di “Collega”: non si sa perché, non si sa
di chi. Sicuramente era stato il collega di qualcuno, magari in un’altra vita
che s’era lasciata alle spalle non si sa quale secolo prima. Perché Collega appariva carico d’anni come
Matusalemme, pur senza invecchiare mai. Si diceva fosse venuto di lontano,
forse da un paese della Ciociaria,
in un anno imprecisato che doveva affondare i suoi giorni nella fantasia
immemore della gente, che lui salutava con gentilezza come un cavaliere d’altri
tempi che al posto dell’alabarda e della mazza teneva girelle e palloncini e in
luogo dell’elmo con la feritoia teneva un cappellaccio a tese larghe che quasi
gli coprivano le spalle ingiacchettate strette come da cotta ferrata.
Con
la sua mercanzia di colori e di vento, Collega
si portava, strategicamente, là dove intravvedeva fanciulli e ragazzi
gridare al cielo la loro verde età. Allora la sua voce d’angolo acquisiva toni
suadenti mentre lanciava il suo singolare spot pubblicitario: “mettete a piagne (mettiti a piangere) che mammina te lo compra”, ripetuto
all’infinito, come un disco con la punta ferma sul solco, fino a che una
girella o un palloncino non passavano dalla sua mano a quella dei bambini
acquietati. Aveva i piedi piatti ma non lo dava a vedere. Sotto il nugolo di
palloncini lui sembrava volare come una mongolfiera, e le girelle al tenue
alitare dei fiati, sembrava gli dessero la spinta anche se vento non c’era.
“Mettete a piagne che mammina te lo compra”.
La piazza se ne riempiva come fosse la sola voce a levarsi, anche nelle
domeniche quando ad essa si aggiungeva il traballare del piccolo motore che
tostava, spandendo odore soave, le noccioline americane (che brutta sensazione,
oggi, a sentire chiamare arachidi) della banca venuta da fuori, e lo sfrigolio
dello stecchino lungo che si gonfiava, in punta, profumando di dolcezza l’aria,
della calda e vaporosa bambagia di zucchero filato. Lui era sempre il re della
piazza. Anche quando i ragazzi sedevano irrequieti davanti al teatrino dei
burattini dei fratelli Ferraiolo, a
lato della fontana alta, e sembravano averlo dimenticato.
Volando
sotto i palloncini, allora, Collega si
posizionava anch’egli davanti al teatrino, per ridere con i ragazzi alle gesta
di Pulcinella, tra languori amorosi e bastonate della moglie Zeza, e fughe
affarraginate all’arrivo dei carabinieri. Calato il siparietto di tela rosso,
Collega discretamente si allontanava, per permettere ai teatranti la vendita dei
burattini, esposti in bella vista sotto il palchetto. Fuori stagione, quando in
città s’accorciavano i giorni e il sole anzitempo ammoriva, mentre la piazza si
svuotava di altri venditori di trastulli e dolciumi e il teatrino dei burattini
scendeva al Sud in cerca di piazze ancora calde di sole, Collega restava là, con la sua mercanzia povera fatta d’aria e di
nulla aspettando famiglie sempre più rade, solo un po’ immalinconito, non per i
ricavi scarsi, ma per l’ansia di trattenere in gola la cantilena che lo aveva
reso famigliare: “Mettete a piagne che
mammina te lo compra”.
Una
segreta, insistente speranza mi colse nei giorni primi del mio ritorno
all’Aquila: quella di portare i miei figli in Piazza perché godessero dello
spettacolo del venditore dei palloncini, gentile come un cavaliere d’altri
tempi, che viveva solo per regalare sorrisi ai ragazzini irrequieti. Trovammo
solo, era luglio, la banca dello zucchero filato e delle noccioline americane
(cui si era aggiunta, alla moda, quella delle crepes alla nutella) e il teatrino dei fratelli Ferraiolo con le
sedie quasi tutte sgombre, ché i ragazzi ormai gli preferivano film e giochi
davanti al televisore. Collega non
c’era. Se n’era volato via, un giorno, con la sua mongolfiera di palloncini
colorati spinta dal vento delle girelle, e s’era perso per sempre. Il venditore
di sogni aveva raggiunto finalmente la sua casa vera, da qualche parte del
cielo, sopra qualche nuvola bianca che, da allora, non si tramuta mai in
pioggia per tenerselo stretto.