Matilde Piana, attrice ed esperto d’arte catanese "testa tra le nuvole e piedi ben piantati a terra". L'intervista


«Appartengo all’ultima generazione di attori che ha avuto una formazione accademica senza seguire seminari e laboratori vari … le tavole del palcoscenico sono state il nostro “perfezionamento” … oggi per un giovane attore è impensabile non avere nel proprio curriculum almeno una decina di workshop!» - di Andrea Giostra

Ciao Piana, benvenuta e grazie per aver accettato il nostro invito. Se volessi presentarti ai nostri lettori cosa racconteresti di te quale attrice e appassionata d’arte nelle sue vari forme espressive? 
Sono io a ringraziarti perché, avendo scelto di non essere presente sui social, ho così modo di presentarmi a chi leggerà queste righe: testa tra le nuvole e piedi ben piantati a terra. 
Chi è Piana donna catanese e chi Piana artista? 
La stessa persona. Catania, dove ho vissuto fino ai miei trent’anni e dove ho iniziato a lavorare, ha determinato il mio essere attrice. Non sarei la stessa persona e non sarei la stessa attrice se fossi nata in un altro luogo. 
Come e quando è nata la tua passione per l’arte e per la recitazione?
Risalire a un momento preciso, aver avuto una sorta d’illuminazione sarebbe divertente da raccontare... Ma non è andata così, più banalmente, galeotte sono state le solite recite scolastiche al liceo: nell’ultimo anno di scuola mi è bastato assistere a teatro a una mediocre (col senno di poi) messinscena per decidere di dedicarmi a questo lavoro. 
Qual è stato il tuo training artistico/professionale/esperienziale che hai seguito nel tempo e che ti ha forgiato per essere l’artista che sei oggi?
C’è qualche tipo di approfondimento nel training attoriale che ritieni fondamentale per la formazione di un giovane attore? 
Ritengo sia utile lavorare su tecniche specifiche, il che ovviamente vale a tutte le età… per esempio, avrei partecipato volentieri a un corso di tecnica vocale con il Metodo Linklater tenuto da una collega che stimo molto, Emanuela Trovato, catanese come me! … un giovane insegnante può mettere in gioco oltre la preparazione, anche l’entusiasmo, fondamentale per comunicare qualcosa. E credo sia proprio il caso di Emanuela. 
Come attrice, chi sono e chi sono stati i tuoi maestri d’arte, se vogliamo usare questo termine? Quelli che vuoi ricordare in questa chiacchierata e perché proprio loro? 
Che bella occasione per parlare di loro… Primo fra tutti Giuseppe Di Martino, storico direttore della scuola di recitazione del Teatro Stabile di Catania: colto, disincantato e fortemente carismatico, ha formato tutti gli attori catanesi della mia generazione. Ci ha insegnato tanto ma soprattutto ci ha inculcato i concetti di rispetto, senso della responsabilità e disciplina. Concetti quasi ovvi per un attore, ma che non ritrovo spesso nei colleghi che hanno avuto un’altra formazione. Altra figura decisiva è stato il giovane Lamberto Puggelli, primo assistente di Strehler, venuto dalle nebbie milanesi a confrontarsi con entusiasmo alle drammaturgie terragne affidategli dal Teatro Stabile di Catania. La prima regia di Puggelli in quel teatro ha coinciso con il mio battesimo teatrale a cui sono seguite tante occasioni di lavorare insieme. Ma, poiché non si finisce mai d’imparare, eccezionale maestro è stato Gabriele Lavia, nei Giganti della montagna, le cui repliche sono appena finite a febbraio di quest’anno. Per quanto riguarda il cinema, i miei maestri sono stati i fratelli Taviani: dal primo Kaos del 1984 a Magnifico Boccaccio del 2015, ho avuto la fortuna di lavorare con loro in altri due film. 
Come definiresti il tuo stile recitativo? C’è qualche attore o attrice ai quali ti ispiri? 
Non lo definisco perché non credo di averne. Se a qualcuno mi ispiro è la inarrivabile Giulia Lazzarini. 
La tua carriera di attrice spazia tra il teatro, il cinema la TV, con grandi e importanti produzioni, lavorando con i più grandi registi e produttori italiani. Se volessi sintetizzare per i nostri lettori questi tre differenti approcci recitativi, cosa segnaleresti per far comprendere quali sono le differenze, i punti di forza e di debolezze di queste tre forme d’arte recitativa e di “messa in scena di narrazioni”? 
Il teatro è la forma espressiva più antica, la madre delle altre… e quella in cui è più difficile ottenere un buon risultato. Direi quasi impossibile. Fare teatro è ricerca e tensione continua. Direi dolorosa, anche perché si è direttamente responsabili del risultato, non ci sono alibi. In cinema è diverso: il risultato è in gran parte nelle mani del regista che deciderà che taglio dare alla scena, come girarla, come montarla. Di contro però se in teatro la parola e il gesto devono coprire la distanza tra te e lo spettatore, la macchina da presa è quel misterioso strumento che ti guarda dentro e riesce a fare emergere quello che é impossibile vedere a occhio nudo. In teatro devi trovare quella magica armonia per amplificare senza sforzo, in cinema sei magicamente amplificato. 
Quali sono le opere alle quali hai partecipato, che ami ricordare e perché proprio queste? 
Voglio citare solo quelle che hanno rappresentato per me le “prime volte”. Pensaci, Giacomino, di Pirandello, in cui mi misuravo in una scena a due col grandissimo Turi Ferro. La professione della signora Warren di G.B.Shaw, in cui ho ottenuto con un provino un ruolo tanto desiderato e in cui ero a tutti gli effetti coprotagonista. Nzula, di Francesco Randazzo, un personaggio che è stato scritto per me. Giorni felici, di Beckett, la grande sfida con me stessa. Per quanto riguarda i film a cui ho partecipato, ne cito uno, “Italiani” di Maurizio Ponzi, ma solo perché, quando mi capita di rivederlo, eccezionalmente mi dico che ho fatto un buon lavoro! 
«L’essenza della forma drammatica è lasciare che l’idea arrivi allo spettatore senza essere formulata con troppa nettezza. Una cosa detta in modo diretto non ha la stessa forza di ciò che le persone sono costrette a scoprire da sole.» (tratto da “Il più grande azzardo di Kubrick: Barry Lyndon”, di Marta Duffy e Richard Schickel, pubblicato su Time, 15 dicembre 1975). Cosa ne pensi di queste parole di Kubrik? Cosa bisogna fare secondo te in teatro, nel cinema e in TV perché la forza drammatica di un’opera arrivi allo spettatore? Qual è il ruolo dell’attore e quale quello della sceneggiatura e della regia?
Geniale Kubrick. Perché il messaggio e l’emozione arrivino allo spettatore quest’ultimo deve avere una parte attiva: attore, sceneggiatura e regia devono solo suggerire, fornire una chiave, non spiattellare un cibo preconfezionato. Alla seconda domanda che mi fai, accontentati di questa risposta: se un bravo attore può al limite sopperire a una regia e a una sceneggiatura insulse, una buona sceneggiatura non sopperisce a una regia e a un attore insulsi, così come una buona regia non sopperisce a una sceneggiatura e a un attore insulsi.
Charles Bukowski, grandissimo poeta e scrittore del Novecento, artista tanto geniale quanto dissacratore, in una bella intervista del 1967 disse… «A cosa serve l’Arte se non ad aiutare gli uomini a vivere?» (Intervista a Michael Perkins, Charles Bukowski: the Angry Poet, “In New York”, New York, vol 1, n. 17, 1967, pp. 15-18). Tu cosa ne pensi in proposito. Secondo te a cosa serve l’Arte, e l’arte della recitazione e del teatro in particolare? 
Il Teatro dalle sue origini ha collocato e continua a collocare l’uomo fisicamente e metaforicamente di fronte a sé stesso. Cos’è questo se non un mezzo che l’uomo ha per conoscersi e quindi cercare di affrontare più equipaggiato il percorso accidentato della vita? 
Esiste oggi secondo te una disciplina che educa alla bellezza? La cosiddetta estetica della cultura dell'antica Grecia e della filosofia speculativa di fine Ottocento inizi Novecento? 
Oggi, sembra che la disciplina che porti bellezza sia solo quella del chirurgo plastico - a ogni età. 
Se dovessi consigliare ai nostri lettori tre spettacoli teatrali, tre film da vedere e tre libri da leggere, quali consiglieresti e perché? 
Uno spettacolo teatrale vive generalmente non più di due stagioni; dunque sarebbe effimero consigliare questo o quello. Sul cinema, sui film, sarebbe inutile ricordare capolavori come C’era una volta in America di Leone o Coppola o altri. Forse meglio suggerire qualcosa di meno conosciuto – come La ballata di Stroszek di Herzog, Risorse Umane di Cantet, e Giorni perduti di Wilder. Sui libri, posso pensare a Le piccole virtù di Natalia Ginzburg, La vita davanti a sé di Roman Gary e Una questione privata di Beppe Fenoglio. 
I tuoi prossimi progetti? Cosa ti aspetta nel tuo futuro artistico che vuoi condividere con i nostri lettori? 
Con alcuni miei colleghi amici, o amici colleghi, stiamo lavorando all’Antigone di Alfieri, per le Dionisiache a Segesta in estate. Più sfida di così? 
Dove potranno seguirti i nostri lettori? 
Nell’immensità dell’infinito o, forse, su Vanity Fair! 
Come vuoi concludere questa chiacchierata e cosa vuoi dire a chi leggerà questa intervista?
Hasta siempre!

Matilde Piana

Andrea Giostra


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