«Appartengo all’ultima generazione di attori che ha
avuto una formazione accademica senza seguire seminari e laboratori vari … le
tavole del palcoscenico sono state il nostro “perfezionamento” … oggi per un
giovane attore è impensabile non avere nel proprio curriculum almeno una decina
di workshop!» - di
Andrea Giostra
Ciao Piana, benvenuta e grazie per aver accettato il
nostro invito. Se volessi presentarti ai nostri lettori cosa racconteresti di
te quale attrice e appassionata d’arte nelle sue vari forme espressive?
Sono io a ringraziarti perché, avendo scelto di
non essere presente sui social, ho così modo di presentarmi a chi leggerà
queste righe: testa tra le nuvole e piedi ben piantati a terra.
Chi è Piana donna catanese e chi Piana artista?
La stessa persona. Catania, dove ho vissuto fino
ai miei trent’anni e dove ho iniziato a lavorare, ha determinato il mio essere attrice.
Non sarei la stessa persona e non sarei la stessa attrice se fossi nata in un
altro luogo.
Come e quando è nata la tua passione per l’arte e per la
recitazione?
Risalire a un momento preciso, aver avuto una sorta d’illuminazione sarebbe
divertente da raccontare... Ma non è andata così, più banalmente, galeotte sono
state le solite recite scolastiche al liceo: nell’ultimo anno di scuola mi è
bastato assistere a teatro a una mediocre (col senno di poi) messinscena per
decidere di dedicarmi a questo lavoro.
Qual è stato il tuo training artistico/professionale/esperienziale
che hai seguito nel tempo e che ti ha forgiato per essere l’artista che sei
oggi?
La fortuna di aver lavorato tanto. Così ho
rubato, tanto rubato, non solo ai cosiddetti grandi, ma anche a colleghi a cui
riconoscevo delle qualità. Appartengo, credo, all’ultima
generazione che ha avuto una formazione accademica senza seguire poi seminari e
laboratori vari … le tavole del palcoscenico sono state il nostro
“perfezionamento”; sembra incredibile ma per tutti gli anni ’80 si lavorava con
una continuità tale che non ci sarebbe stato nemmeno il tempo di dedicarsi allo
studio. Oggi invece per un giovane attore è impensabile non avere nel proprio
curriculum almeno una decina di workshop!
C’è qualche tipo di approfondimento nel training
attoriale che ritieni fondamentale per la formazione di un giovane attore?
Ritengo sia utile lavorare su tecniche
specifiche, il che ovviamente vale a tutte le età… per esempio, avrei
partecipato volentieri a un corso di tecnica vocale con il Metodo Linklater tenuto da una collega che stimo molto, Emanuela Trovato, catanese come me! … un giovane insegnante può mettere
in gioco oltre la preparazione, anche l’entusiasmo, fondamentale per comunicare
qualcosa. E credo sia proprio il caso di Emanuela.
Come attrice, chi sono e chi sono stati i tuoi maestri d’arte, se
vogliamo usare questo termine? Quelli che vuoi ricordare in questa
chiacchierata e perché proprio loro?
Che bella occasione per parlare di loro… Primo fra tutti Giuseppe Di
Martino, storico direttore della scuola di recitazione del Teatro
Stabile di Catania: colto, disincantato e fortemente carismatico, ha
formato tutti gli attori catanesi della mia generazione. Ci ha insegnato tanto
ma soprattutto ci ha inculcato i concetti di rispetto, senso della responsabilità
e disciplina. Concetti quasi ovvi per un attore, ma che non ritrovo spesso nei
colleghi che hanno avuto un’altra formazione. Altra figura decisiva è stato il
giovane Lamberto Puggelli, primo assistente di Strehler, venuto
dalle nebbie milanesi a confrontarsi con entusiasmo alle drammaturgie terragne
affidategli dal Teatro Stabile di Catania. La prima regia di Puggelli in quel
teatro ha coinciso con il mio battesimo teatrale a cui sono seguite tante
occasioni di lavorare insieme. Ma, poiché non si finisce mai d’imparare,
eccezionale maestro è stato Gabriele Lavia, nei Giganti della montagna, le cui repliche sono appena finite a
febbraio di quest’anno. Per quanto riguarda il cinema, i miei maestri sono
stati i fratelli Taviani: dal primo Kaos del 1984 a Magnifico
Boccaccio del 2015, ho avuto la fortuna di lavorare con loro in altri
due film.
Non lo definisco perché non credo di averne. Se a
qualcuno mi ispiro è la inarrivabile Giulia Lazzarini.
La tua carriera di attrice spazia tra il teatro, il cinema la TV, con
grandi e importanti produzioni, lavorando con i più grandi registi e produttori
italiani. Se volessi sintetizzare per i nostri lettori questi tre differenti
approcci recitativi, cosa segnaleresti per far comprendere quali sono le
differenze, i punti di forza e di debolezze di queste tre forme d’arte
recitativa e di “messa in scena di narrazioni”?
Il teatro è la forma espressiva più antica, la madre delle altre… e quella
in cui è più difficile ottenere un buon risultato. Direi quasi impossibile.
Fare teatro è ricerca e tensione continua. Direi dolorosa, anche perché si è
direttamente responsabili del risultato, non ci sono alibi. In cinema è
diverso: il risultato è in gran parte nelle mani del regista che deciderà che
taglio dare alla scena, come girarla, come montarla. Di contro però se in
teatro la parola e il gesto devono coprire la distanza tra te e lo spettatore,
la macchina da presa è quel misterioso strumento che ti guarda dentro e riesce
a fare emergere quello che é impossibile vedere a occhio nudo. In teatro devi
trovare quella magica armonia per amplificare senza sforzo, in cinema sei
magicamente amplificato.
Quali sono le opere alle quali hai partecipato, che ami ricordare e perché
proprio queste?
Voglio citare solo quelle che hanno rappresentato per me le “prime volte”. Pensaci, Giacomino, di Pirandello,
in cui mi misuravo in una scena a due col grandissimo Turi Ferro. La professione della signora Warren
di G.B.Shaw, in cui ho ottenuto con un provino un ruolo tanto desiderato
e in cui ero a tutti gli effetti coprotagonista. Nzula, di Francesco Randazzo, un personaggio che è stato
scritto per me. Giorni felici,
di Beckett, la grande sfida con me stessa. Per quanto riguarda i film a
cui ho partecipato, ne cito uno, “Italiani” di Maurizio Ponzi,
ma solo perché, quando mi capita di rivederlo, eccezionalmente mi dico che ho
fatto un buon lavoro!
«L’essenza
della forma drammatica è lasciare che l’idea arrivi allo spettatore senza
essere formulata con troppa nettezza. Una cosa detta in modo diretto non ha la
stessa forza di ciò che le persone sono costrette a scoprire da sole.» (tratto da “Il più grande azzardo di Kubrick: Barry
Lyndon”, di Marta Duffy e Richard Schickel, pubblicato su Time, 15 dicembre
1975). Cosa ne pensi di queste parole di Kubrik? Cosa bisogna fare secondo te
in teatro, nel cinema e in TV perché la forza drammatica di un’opera arrivi
allo spettatore? Qual è il ruolo dell’attore e quale quello della sceneggiatura
e della regia?
Geniale Kubrick. Perché il messaggio e
l’emozione arrivino allo spettatore quest’ultimo deve avere una parte attiva: attore,
sceneggiatura e regia devono solo suggerire, fornire una chiave, non
spiattellare un cibo preconfezionato. Alla seconda domanda che mi fai, accontentati
di questa risposta: se un bravo attore può al limite sopperire a una regia e a
una sceneggiatura insulse, una buona sceneggiatura non sopperisce a una regia e
a un attore insulsi, così come una buona regia non sopperisce a una
sceneggiatura e a un attore insulsi.
Charles
Bukowski, grandissimo poeta e scrittore del Novecento, artista tanto geniale
quanto dissacratore, in una bella intervista del 1967 disse… «A cosa serve l’Arte se non ad aiutare gli
uomini a vivere?» (Intervista a Michael
Perkins, Charles Bukowski: the Angry Poet,
“In New York”, New York, vol 1, n. 17, 1967, pp. 15-18). Tu cosa ne
pensi in proposito. Secondo te a cosa serve l’Arte, e l’arte della recitazione
e del teatro in particolare?
Il Teatro dalle sue origini ha collocato e
continua a collocare l’uomo fisicamente e metaforicamente di fronte a sé
stesso. Cos’è questo se non un mezzo che l’uomo ha per conoscersi e quindi
cercare di affrontare più equipaggiato il percorso accidentato della vita?
Esiste oggi
secondo te una disciplina che educa alla bellezza? La cosiddetta estetica della
cultura dell'antica Grecia e della filosofia speculativa di fine Ottocento
inizi Novecento?
Oggi, sembra che la disciplina che porti bellezza sia solo quella del
chirurgo plastico - a ogni età.
Se dovessi
consigliare ai nostri lettori tre spettacoli teatrali, tre film da vedere e tre
libri da leggere, quali consiglieresti e perché?
Uno spettacolo teatrale vive
generalmente non più di due stagioni; dunque sarebbe effimero consigliare
questo o quello. Sul cinema, sui film, sarebbe inutile ricordare capolavori
come C’era una volta in America di Leone o Coppola o altri. Forse meglio suggerire
qualcosa di meno conosciuto – come La
ballata di Stroszek di Herzog, Risorse
Umane di Cantet, e Giorni
perduti di Wilder. Sui libri, posso pensare a Le piccole virtù di Natalia
Ginzburg, La vita davanti a sé di Roman
Gary e Una questione privata di Beppe
Fenoglio.
I
tuoi prossimi progetti? Cosa ti aspetta nel tuo futuro artistico che vuoi condividere
con i nostri lettori?
Con alcuni miei colleghi amici,
o amici colleghi, stiamo lavorando all’Antigone di Alfieri, per le Dionisiache a Segesta in estate. Più sfida di
così?
Dove potranno seguirti i nostri lettori?
Nell’immensità dell’infinito o, forse, su Vanity Fair!
Come vuoi
concludere questa chiacchierata e cosa vuoi dire a chi leggerà questa
intervista?
Hasta siempre!
Matilde Piana
Andrea Giostra