Con il contest "#andràtuttobene C’è poesia, oltre il virus" Kaos Festival, in collaborazione con Fattitaliani.it, l'Accademia BB. AA. “Michelangelo” di AG, Casa editrice Medinova e la Fondazione Teatro “L. Pirandello” di Agrigento, invita a raccontare questi giorni tramite versi, immagini, parole. Tutti i lettori sono invitati a raccogliere emozioni, incertezze, ansie, scoperte di un tempo inconsueto e imposto e a condividerle mandando fino al 3 aprile una poesia, un racconto, un aneddoto, una foto, una canzone, un video a premiokaos@gmail.com o tramite whatApp al numero +393284234076. Oggi pubblichiamo il racconto di Giuseppe Graceffa di Aragona (AG).
Piccole mani che
cercano un colore per riempire il bianco e trasformarlo in oro, dita sottili che
spingono una matita in lievi tratteggi, che si stringono attorno a una fede a
cui aggrapparsi, che cercano una luce che illumini la speranza.
Piccole mani che si
muovono furtive su un foglio bianco da colmare di meraviglia perché anche il
suo piccolo cuore possa essere partecipe di un sogno più grande, il sogno di
una vita ritrovata, di una vita scampata alla reclusione in casa, di un
pericolo invisibile che si aggira per le strade e la costringe a rimanere chiusa
e distante, senza i compagni, senza le maestre, senza le corse felici e i
giochi sfrenati.
Tutti ripetevano
che tutto sarebbe andato bene e anche Elisa ci sperava. Le piaceva stare a casa
e non andare a scuola, ma con il passare
del tempo e il trascorrere dei giorni, la mancanza dei compagni e delle maestre
cominciava a farsi sentire.
I compiti erano
tanti e Marta faticava a stare dietro a tutto, a scaricare le lezioni da
guardare, le schede da completare, le lezioni da studiare. Elisa era una
bambina che si applicava molto, era sempre stata brava a scuola, ma era pur
sempre una bambina. E come tutte la bambine doveva essere spronata,
incentivata, sgridata in continuazione se voleva che facesse tutti i compiti
ogni santo giorno.
Era una continua
battaglia per fare in modo che quel barlume di normalità e di quotidianità
facesse da diga alle preoccupazioni e da argine alla disperazione.
Marta era sempre
stata una donna forte. Aveva affrontato la vita con un piglio deciso e
determinato nonostante tutti i problemi che la quotidianità le aveva posto
davanti, e insieme a suo marito Filippo avevano combattuto per creare e mandare
avanti una piccola attività e ottenere quello che avevano. Una piccola casa, un
lavoro che permetteva loro di vivere dignitosamente e soprattutto quella
splendida bambina che riempiva le loro vite di luce purissima e di amore
incondizionato e feroce.
Filippo amava sua
figlia di un amore viscerale, totale, sintomatico. I suoi lunghi capelli lisci
che avvolgevano un viso dalla pelle morbida e vellutata, un nasino che faceva a
gara con la forza di gravità e due occhi d’ebano scuri e profondi, lo avevano
fatto innamorare ogni giorno di più.
- Elisa, la tua
bellezza trascende la realtà e sconfina nell’immaginazione – le diceva mentre
la osservava giocare, mentre rideva, mentre scherzava. Non si saziava mai di
guardare quello splendore che gli gironzolava intorno ogni giorno e lo spingeva
a chiedersi sempre come avesse fatto a partecipare alla sua creazione.
La bambina, ogni
volta che sentiva quelle parole, lo ammoniva bonariamente, si scherniva e gli
intimava di smetterla, prima di donargli uno dei suoi sorrisi che gli incatenavano
il cuore e gli riempivano gli occhi di tenera commozione.
- sei l’essere più
meraviglioso di tutti gli universi conosciuti e sconosciuti – continuava però
lui imperterrito e incurante dei rimproveri della figlia, incapace di frenare
il desiderio ardente di manifestare alla sua bambina tutto lo stupore e la
meraviglia che lei gli suscitava.
E ancora lei lo
rimproverava per quelle frasi che la imbarazzavano, protestava, insorgeva,
disapprovava, chiamava in aiuto la mamma, ma alla fine, rimaneva sempre
incollata a suo padre a ricevere tutti i complimenti che lui continuava a
rivolgerle.
Poi arrivò la
febbre. E con la febbre i dolori in tutto il corpo. E con i dolori, la tosse.
Sempre più insistente. E la spossatezza.
Poi fu il turno dei
tamponi e dell’attesa. Poi quello dell’ambulanza. Infine quello dell’ospedale e
della lontananza.
E dell’angoscia.
- che stai facendo?
– le chiese Marta guardando la bambina che rovistava tra i colori, davanti a un
foglio che cominciava a riempirsi di varie tinte
- sto facendo un
disegno per papà – rispose la bambina senza alzare lo sguardo da quel foglio
che la teneva così impegnata e senza distogliere lo sguardo assorto dal suo
prezioso lavoro. La donna si mise dietro di lei e la baciò sul capo soffermandosi con le labbra
tra i suoi capelli di seta che profumavano di mela e di giovinezza
- lo sai che non
possiamo andare all’ospedale a trovare papà –
- si lo so – disse
Elisa - ma potremmo fare avere il disegno a qualcuno che possa darglielo per me
–
Marta sorrise
stanca e le accarezzò i capelli. Si allontanò da lei prima che la piccola si
accorgesse delle lacrime che non riuscì a trattenere. Non riusciva a evitare di
piangere ogni volta che pensava a suo marito ricoverato in terapia intensiva
senza che potessero nemmeno vederlo da dietro un vetro. E ci pensava spesso. E
piangeva spesso. Sola. Di nascosto. Perchè sua figlia non doveva vederla
piangere.
Dopo qualche minuto
la bambina si alzò tutta trionfante con in mano il foglio su cui aveva lavorato
fino a qualche istante prima, accuratamente piegato e sigillato con del nastro
adesivo trasparente. Su un lato c’era scritto “PER PAPA’” tra una nuvola
festosa di cuoricini colorati di rosso.
Diede il foglio
alla madre e la pregò di farlo avere al papà prima possibile.
Marta anche quella
volta non pianse. La guardò con gli occhi gonfi di disperazione e si sforzò
ancora una volta di sorridere. Prese il foglio e baciò la bambina con tutto il
trasporto e l’emozione che provava in quel momento.
Poi le disse di
andare a giocare e che ci avrebbe pensato lei, e mentre la bambina era
impegnata con i suoi giochi, si chiuse nella sua stanza e iniziò a piangere
come mai aveva fatto prima di allora. Ma fu solo un attimo perché si costrinse
a ricomporsi e si attaccò subito al telefono. Chiamò tutti quelli che potevano
aiutarla a recapitare al marito la lettera di sua figlia, e continuò a farlo
fino a quando non ci riuscì.
L’indomani passò da
casa l’amico di un loro amico, un uomo che lei non conosceva e che non aveva
mai visto ma che si era dichiarato disponibile per quel compito per il quale lo
avevano pregato. Si chiamava Guido e faceva l’infermiere nell’ospedale dove era
ricoverato Filippo anche se in un reparto diverso da quello della terapia
intensiva.
Presero tutte le
precauzioni del caso per rispettare la quarantena e non mettere in pericolo la
salute dell’infermiere che era stato così generoso e disponibile a eseguire
quel compito. Marta gli fece trovare sotto casa la lettera di sua figlia dentro
una busta di plastica trasparente, sigillata e disinfettata. Se non fosse stata
la letterina di una bambina al proprio papà sarebbe potuta sembrare una missiva
di importanza vitale per la nazione, data la cura e l’attenzione con cui era
maneggiata.
L’uomo la prese con
i guanti, la infilò in un contenitore ermetico e la portò con se mentre si
recava al lavoro in quell’ospedale che era diventato la prima trincea di una
guerra silenziosa e mortale, una guerra che stava cambiando la vita di molte
persone e che stava radicalmente trasformando l’intera società.
Una società che si
sentiva protetta dalla sua tecnologia e dalla sua scienza e che si era
improvvisamente ritrovata spiazzata e
impotente, privata di quelle certezze che fino ad allora l’avevano accompagnata
nella sua recente storia.
Una società che non
si era ancora perduta e che poteva ancora vincere e che probabilmente avrebbe
vinto, ma che non sarebbe più stata la stessa.
Arrivato in
ospedale, Guido si recò per prima cosa nel padiglione che avevano destinato
alle infezioni da Covid-19 dopo aver
indossato tutti i dispositivi di protezione, e andò direttamente nel reparto di
terapia intensiva dove lavorava un amico medico che lo avrebbe sicuramente
aiutato nonostante l’immenso e gravoso lavoro dal quale tutti loro erano
gravati.
Dietro la
mascherina e gli occhiali di protezione, il medico aveva gli occhi stanchi e si
muoveva lentamente, forse per lo sforzo fisico di quel lavoro spossante ma
anche per l’impegno psicologico di un’attività come quella, che sottoponeva
tutti loro a pressioni e responsabilità indicibili.
Nonostante ciò, il
medico prese la lettera, la guardò e scosse lentamente la testa senza riuscire
a trattenere le lacrime
- il paziente è
morto proprio poco fa – disse con un filo di voce mentre quella lettera
sembrava scottargli tra le dita – ma il corpo non è ancora stato portato via ed
è ancora adagiato sul letto e fosse l’ultima cosa che faccio, ti prometto che
gli farò avere questa lettera –
Guido rimase
impietrito e incapace di proferire alcuna parola mentre osservava l’amico
allontanarsi con passo svelto e la lettera in mano.
Il medico entrò
nella stanza dove si trovava il corpo di Filippo che non era più intubato e in
attesa di essere trasferito altrove per fare posto ad un altro ammalato. Aprì
la busta di plastica, dispiegò il foglio e lo appoggiò sul petto dell’uomo che
aveva da poco smesso di vivere.
All’interno della
lettera era disegnato un grande arcobaleno di tanti colori sorretto da due
nuvolette bianche, e sotto di esso la scritta “ ti voglio bene papà, mi manchi
moltissimo” # ANDRA’ TUTTO BENE
Giuseppe Graceffa