di Andrea Giostra.
L’incipit dell’ultimo romanzo di Charles
Bukowski potrebbe essere racchiuso in queste parole: «Nei tempi
andati la vita degli scrittori era più interessante di quello che scrivevano.
Al giorno d’oggi né le loro vite né quello che scrivono è interessante» (p. 52).
Chi le pronuncia nel romanzo è Céline, uno dei personaggi
del racconto, che nella realtà è Louis-Ferdinand Céline (1894-1961), pseudonimo di Louis Ferdinand Auguste Destouches, grande e
influente scrittore, saggista e medico francese del Novecento.
Céline |
Lo pseudonimo
con cui lo scrittore francese firmò tutte le sue opere era il nome della nonna
materna Céline
Guillou ed è questo
il motivo per il quale Bukowski nel suo romanzo lo chiama allo stesso modo. Il
protagonista di Pulp, l’investigatore Nick Belane - che
rappresenta lo stesso Bukowski – ha avuto l’incarico da una certa Signora Morte di rintracciare questo Céline,
che a detta della sua bellissima, irresistibile ed eccitante cliente, è proprio
Louis Ferdinand Destouches nato a Courbevoie nel 1894 e che, nonostante risulti
morto il 1° luglio 1961, non si è ancora presentato al cospetto della splendida
signora! «Controllai Céline sul Webster. 1891-1961. Era il 1993. Se era
ancora vivo doveva avere centodue anni. Sfido che la Signora Morte lo stava
cercando» (p.4). Così dice a sé stesso Belane quando nella libreria di Red
di Los Angeles incontra un tizio molto somigliante al Céline della foto che
Signora Morte poco prima gli aveva dato per trovare il fuggitivo. Céline
rappresenta anche il suo interlocutore privilegiato per parlare di letteratura
e di scrittura. Poco dopo il loro primo incontro, davanti all’edicola vicino
alla libreria di Red, i due si scambiano un paio di battute sui giornalisti e
sugli scrittori di allora: «C’è solo un problema» dice Céline a Belane
sfogliando il “The New Yorker” «Non sanno proprio scrivere. Nessuno di loro»
(p.24). Questi dialoghi di Pulp fanno il paio con quello che davvero
pensava e aveva pubblicamente detto nel 1974 Bukowski a proposito degli
scrittori e dei poeti del suo tempo. «Direi che sono disgustato, o ancor
meglio nauseato … C’è in giro un sacco di poesia accademica. Mi arrivano libri
o riviste da studenti che hanno pochissima energia … non hanno fuoco o pazzia.
La gente affabile non crea molto bene. Questo non si applica soltanto ai
giovani. Il poeta, più di tutti, deve forgiarsi tra le fiamme degli stenti.
Troppo latte materno non va bene. Se il tipo di poesia è buona, io non ne ho
vista. La teoria degli stenti e delle privazioni può essere vecchia, ma è
diventata vecchia perché era buona … Il mio contributo è stato quello di
rendere la poesia più libera e più semplificata, l’ho resa più umana. L’ho resa
più facile da seguire per gli altri. Ho insegnato loro che si può scrivere una
poesia allo stesso modo in cui si può scrivere una lettera, che una poesia può
perfino intrattenere, e che non ci deve essere per forza qualcosa di sacro in
essa.»
(Intervista di William Childress, Charles
Bukowski, “Poetry Now, vol. 1, n.6, 1974, pp. 1, 19, 21). Oppure, in un’altra
intervista del 1967: «No, a me l’intero panorama poetico
sembra dominato da somari banali, senz’anima, ridicoli e solitari. Da gruppi
universitari da un lato fino alla banda dei beat dall’altro, includendo anche
tutti quelli né carne né pesce che stanno in mezzo. Quello che mi stupisce è
che non ho sentito nessuno dire questa cosa nel modo in cui te la sto dicendo
io adesso». (Intervista
a Michael Perkins, Charles Bukowski: the
Angry Poet, “In New York”, New York, vol. 1, n. 17, 1967, pp. 15-18). Per
poi ricordarci, nel 1975, che è la
scrittura il vero cuore pulsante della narrazione… non la storia, perché se la
scrittura funziona, allora quella narrata è una storia che penetra il lettore e
gli regala emozioni, se la scrittura non funziona, anche una bella storia
diventa piatta, insignificante, banale, scontata, mediocre come chi l’ha
scritta… così diceva Bukowski a proposito della sua di scrittura: «Non mi preoccupo di cosa sia o meno una poesia, di
cosa sia un romanzo. Li scrivo e basta… i casi sono due: o
funzionano o non funzionano. Non sono preoccupato con: “Questa è una
poesia, questo è un romanzo, questa è una scarpa, questo è un guanto”. Lo butto
giù e questo è quanto. Io la penso così.» (Ben
Pleasants, The Free Press Symposium: Conversations with Charles Bukowski, “Los
Angeles Free Press”, October 31-November 6, 1975, pp. 14-16). “O
funzionano o non funzionano”: non c’è altro da aggiungere in merito!
La narrazione di Pulp è
strutturata intorno a Nick Belane, l’investigatore cinquantacinquenne squattrinato,
perseguitato dalla sfiga e ossessionato dall’alcool e dalle scommesse alle
corse di cavalli, che vende i suoi servigi per sei dollari l’ora ad alcuni
strani personaggi extraterrestri e di fantasia. Investigatore privato che
volutamente richiama, facendosene gioco, Philip Marlowe, il celebre
detective nato nel 1934 dai noir del famoso scrittore Raymond
Chandler. Il racconto Pulp, per certi versi “alieno” e grottesco,
rappresenta da un lato una sarcastica metafora dei suoi tempi, ma al contempo la
rappresentazione dei desideri, dei timori, delle speranze, delle delusioni
della vita del nostro scrittore. Una narrazione in cui Belane-Bukowski incontra
la morte (imminente nella vita reale) che appare bellissima, seducente, eccitante,
con una voce molto sexy: «Quella voce incredibilmente sexy cominciava a
mandarmi su di giri, sul serio … “Mi racconti qualcosa di più – dice Belane
al telefono a Signora Morte che lo aveva appena ingaggiato come investigatore
privato - Mi parli, signora: Continui a parlare…” … “Chiudi la cerniera” gli
replicò imperiosa dalla cornetta Signora Morte … Guardai in basso … “Come
faceva a saperlo” le rispose Belane…». E così poco dopo, quando gli
appare improvvisamente spuntata dal nulla nel suo squallido e disordinato
ufficio, ne rimane rapito e disorientato: «In un certo senso mi persi,
cominciai a fissarla su per le gambe. Ero semplicemente stato il classico tipo
“da gambe”. Erano la prima cosa che avevo visto quando ero nato. Ma allora stavo
cercando di uscire. Da quel momento in poi avevo sempre cercato di darmi da
fare nella direzione opposta, con scarsi risultati» (p. 17). L’ironia
insieme al sarcasmo non mancano mai nella sua scrittura e nella sua narrazione,
soprattutto nelle tragicità degli eventi, come in questo caso la morte!
Pulp fu completato nel 1993, ma fu pubblicato dopo la morte di
Bukowski, nel 1994. È un romanzo col quale lo scrittore
losangelino si diverte a narrare accadimenti improbabili con una scrittura
diretta, sporca, semplice, penetrante, proprio per far capire al lettore che in
fondo più che le storie conta come sono scritte. La sua scrittura è quella di
strada, popolare, colta e folk insieme, ma soprattutto è una scrittura che
sa emozionare attraverso l’ironia e il sarcasmo che mai mancano anche nei fatti
terribili quali la malattia, la sofferenza, la morte, il dolore, la miseria, la
povertà… sarcasmo che emerge dirompente anche quando si diverte a prendere per
il “culo” i divi hollywoodiani: «Guardate i divi del cinema, prendono
la pelle del culo e se la fanno mettere in faccia. La pelle del culo è l’ultima
a ringrinzirsi. Passano gli anni ad andarsene in giro con facce da culo»
(p. 25).
Sicuramente
quello che accomuna tutti gli scritti di Bukowski, sia nelle poesie che nei
romanzi, sono gli elementi umani ed emozionali dei suoi personaggi di
bassofondo, che vivono in tuguri, che passano ore in luridi bar di periferia
dove il whisky e l’alcool scorrono a fiumi in gole secche e assetate di avventori
di tutte le razze metropolitane: spacciatori, killer, mafiosi, delinquenti,
rapinatori, usurai, puttane, donne di facili costumi, vedove, divorziate, fedifraghe,
etc.… Le emozioni forti e i dolori umani sono componenti narrative che il
nostro autore conosce molto bene perché li ha vissuti sulla sua pellaccia dura
e resistente allo sconforto della quotidianità della grande metropoli dell’arte
e del cinema statunitense quale la Los Angeles del Novecento. Li ha
conosciuti bene queste emozioni e sentimenti, non perché - come oggi invece avviene
per la stragrande maggioranza di quelli che vengono definiti con torto imbarazzante
grandi scrittori solo perché pompati dai grandi editori e dai mass media di
parte - li ha mediati leggendo libri e articoli di giornali e riviste, ma
perché hanno segnato la sua vita sin dall’infanzia vissuta in una famiglia
“multi-problematica”, come direbbero oggi gli assistenti sociali che
onestamente si occupano di tutela dei minori e gli psicologi dell’età evolutiva
che nei circuiti penali e di devianza minorile delle città metropolitane hanno
reale esperienza professionale con migliaia di casi irrisolti come quelli del
nostro scrittore quand’era un infante-adolescente! Una vita infantile e
adolescenziale, quella di Bukowski, fatta di privazioni, di violenze fisiche e
psicologiche intrafamiliari, di solitudine, di paure, di una innata speranza
che mai lo ha abbandonato in tutta la sua tormentata e dissoluta vita. Da
adulto - operaio, scaricatore di porto, puliziere, postino, fattorino,
lavavetri, ma anche poeta e scrittore sconosciuto e bistrattato dalle grandi
case editrici e dai famosi e “competenti” critici letterari di allora -
sono invece le sbronze, le scopate seriali da ubriaco con prostitute e donne di
strada, la vita immonda e senza mai un dollaro in tasca vissuta tra lavoro e
alloggi in catapecchie che come arredo essenziale hanno la sua macchina da
scrivere Olympia SG e un comodo letto sempre disfatto per dormire e per
scopare.
Pulp
fu scritto da Bukowski col fiato sul collo di Signora Morte, come la
chiama quale personaggio del suo romanzo. Sapeva bene infatti che da lì a poco
sarebbe morto per la sua grave malattia. Pulp lo scrive con la stessa
frenesia con cui Fëdor Michajlovič Dostoevskij scrisse il suo romanzo
breve “Il giocatore” (1866). Il primo inseguito da Signora Morte, il
secondo inseguito dai suoi strozzini ai quali se non avesse restituito da lì a trenta
giorni i prestiti che aveva utilizzato per perderli alla roulette, l’avrebbero
certamente ucciso. Dissoluti entrambi: dall’alcool, dalle femmine e dalle
scommesse alle corse di cavalli Bukowski, dal gioco d’azzardo dei casinò Dostoevskij. La dissolutezza, la precarietà,
l’approssimarsi della “fine”, le lacrime, il pianto, il dolore… sembrano
essere i necessari ingredienti dei più grandi scrittori di tutti i tempi. Lo
furono essenziali per Dostoevskij nell’Ottocento, lo furono essenziali per
Bukowski nel Novecento, non lo sono più per i cosiddetti grandi scrittori del
Ventunesimo secolo!
Queste poche righe di riflessione ad
alta voce condivise con voi che state leggendo fino alle fine queste righe su
uno dei più grandi scrittori del Novecento, non posso che chiuderle con quanto
disse in una intervista del 1970 lo stesso Bukowski, per rimanere
all’interno della cornice che ci siamo dati – gli scrittori contemporanei e i
loro scritti – perché da un lato condivido pienamente le parole di Bukowski e
perché dall’altro non credo che a questo proposito saprei trovarne di migliori
e più efficaci per far capire il concetto del quale abbiamo discusso… «Be’, nella maggior parte dei casi devo dire che gli
scrittori non sono brave persone. Preferisco parlare con un meccanico di
un’autofficina che sta mangiando un panino al salame per pranzo. In effetti,
potrei imparare più cose da lui. È più umano. Gli scrittori sono una brutta
razza. Cerco di stare alla larga da loro.» (Intervista a William J. Robson and
Josette Bryson, Looking for the Giants:
An Interview with charles Bukowski, “Southern California Literary Scene”,
Los Angeles, vol. 1, n. 1, December 1970, pp. 30-46).
Detto
questo, non posso che consigliarvi di leggere Charles Bukowski, di leggere Pulp e di leggere tutto il
resto… di divorare i suoi scritti, di gustarli, di capirli e magari di
studiarli con attenzione e curiosità… poi, terminato questo “esercizio”,
confrontate i suoi racconti e la sua scrittura con quelli degli scrittori
contemporanei (definiti!) di successo convinti di essere i nuovi Pirandello o i redivivi Hemingway che – come abbiamo già scritto –
vengono pompati come geniali narratori del Ventunesimo secolo dai loro sponsor
editoriali e massmediatici, e capirete facilmente, senza l’aiuto di nessuno,
che da un lato avete letto un vero grande scrittore, dall’altro lato riconoscerete
finalmente dei ridicoli e mediocri scribacchini da strapazzo convinti di essere
i Dostoevskij dei giorni nostri!
Charles Bukowski, “Pulp”,
Giangiacomo Feltrinelli ed., 1994, Milano
Sinossi, tratta da “la Feltrinelli”:
«Depresso, appesantito da una pancia
ingombrante, il conto in rosso, i creditori sempre alle porte, tre matrimoni
alle spalle, Nick Belane è un detective, "il più dritto detective di Los
Angeles". Bukowski gioca con un vecchio stereotipo e vi aggiunge la sua
filosofia di lucido beone, il suo esistenzialismo da taverna e un pizzico di
cupa, autentica disperazione. I bar, le episodiche considerazioni sul destino,
il cinismo, l'ormai sbiadito demone del sesso, il fallimento professionale ed
esistenziale, insieme alle mere invenzioni narrative, diventano il
"pulp" del titolo. Lontano dalle atmosfere tenebrose delle ordinarie
follie, il testamento spirituale di uno scrittore che non ha mai esitato a
immergersi nel degrado della società contemporanea.»
Andrea Giostra