Il Prof. Alberto Folin è uno
dei più grandi studiosi di Leopardi in Italia, è membro del Comitato
Scientifico Del Centro Nazionale di Studi
Leopardiani e Vicepresidente del Centro Mondiale della Cultura e della Poesia
G. Leopardi.
Folin ha insegnato
Ermeneutica Leopardiana all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli ed è
stato nominato dal Ministero della Cultura Membro del Comitato Nazionale per le
celebrazioni del Bicentenario della Composizione dell’Infinito (1819-2019).
Sempre con l’Editore
Marsilio, il Professore ha pubblicato: “Leopardi e la notte chiara”, “Pensare
per affetti. Leopardi , la natura, l’immagine”, “Leopardi e l’imperfetto
nulla”, “Leopardi e il canto dell’addio”.
Chi scrive ha avuto ad Erice,
nell’ambito delle tre giornate Letterarie del Concorso L’Anfora di Calliope, la
possibilità e l’onore di sedere al suo fianco ed assistere ad un suo intervento
su vari interrogativi che i giovani si pongono con la frequentazione dei versi
di questo grande ed amato Poeta.
Il libro di riferimento è il
“Celeste Confine. Leopardi e il mito moderno dell’infinito” ultimo saggio del
Professore sempre editato da Marsilio, ora arruvato, in soli sei mesi, alla
terza edizione.
D. Professore, a parer suo,
data la frequentazione con i giovani, perché quando in età scolastica ci
affacciamo sul mondo Leopardiano consideriamo difficile questo approccio ma ci
innamoriamo di questo Poeta?
R. Sulla base della mia esperienza di
lettore, oltre che di docente, posso dire che la “difficoltà” cui lei fa
riferimento deriva molto spesso da un eccessivo tecnicismo che una certa
tendenza della critica privilegia nel far accostare i giovani non solo al verso
leopardiano, ma anche alla poesia in generale. So bene che molti studiosi
guardano con diffidenza all’emotività “adolescenziale” con cui fin dalla scuola
media, molti ragazzi leggono alcuni testi di Leopardi (si pensi, oltre che all’Infinito,
a Alla Luna, o a La sera del dì di festa) anche assai complessi,
con un’empatia istintiva priva di consapevolezza critica e/o letteraria, ma inviterei questi studiosi
a riflettere che è stato proprio Leopardi a comprendere come la poesia moderna
può essere attuale solo a condizione di “fingersi” antica, ossia cercando di
cogliere la sensibilità moderna, attraverso una “finzione”: fingersi
antichi per rapprentare il mito (l’Illusione) come ultima possibilità di essere
ancora vivi in un mondo dominato dal deserto delle idee e dall’oblio
dell’immaginazione. È proprio questa operazione, che presuppone una padronanza della lingua
straordinaria, a far scattare nei giovani questo istintivo “innamoramento”. Certo,
tale empatia non basta ed è il primo livello da cui partire per scoprire
nella poesia leopardiana tutto il senso
della scrittura poetica moderna (operazione molto complessa). Ma perché svilire
questo trasporto immediato, che ha indubbiamente una sua autenticità innervata in
un’esperienza esistenziale irripetibile (quella del primo affacciarsi alla luce
del mondo)?
D. Ci
può fare un Distinguo tra l’Uomo e il Poeta?
R. Ritengo
che distinguere l’uomo dal poeta sia un’operazione artificiosa. Solo il
“letterato” di professione (il quale
cioè usa la poesia come “mezzo” per altri scopi che non siano quelli del puro
interrogare il senso della propria presenza al mondo) sente l’esigenza di costruirsi
artificialmente la veste di “poeta”. Ma il vero poeta non ha bisogno di una
veste. La sua espressione lirica nasce da un’assoluta necessità di
linguaggio (e di canto).
D. L’Infinito è una poesia consolatoria?
Se si, perché?
R. Anche recentemente è stata avanzata
l’ipotesi che la composizione de L’infinito, ubbidisca in qualche modo alla
necessità per Leopardi di costrursi un fàrmakon, cioè una “consolazione”
rispetto alle delusioni cui va incontro in quel fatidico 1819: il fallimento
della sua tentata “fuga” da Recanati, l’oftalmia che lo costringe alla cecità
per diversi mesi, l’amarezza nel constatare di aver passato l’età
adolescenziale in uno studio “matto e disperatissimo” che - a suo avviso - gli
avrebbe rovinato la parte più bella e feconda della giovinezza. Io non sono
d’accordo con questa interpretazione. Non dobbiamo dimenticare che nel 1819
Leopardi ha solo 22 anni, è poco più di un adolescente. Ma ha già accumulato
nella sua mente prodigiosa un’esperienza intellettuale irripetibile, che egli
coniuga con la freschezza conoscitiva della sua età: lo stupore di
fronte all’apparire delle cose, alla bellezza incantata della natura e alla
sensualità dell’amore. La lingua greca è
diventata per lui una specie di “lingua materna”. Giacomo pensa e vede
come gli antichi greci, e cerca di cogliere il sublime che anima la
poesia di Saffo, di Teocrito e di Anacreonte, di Esiodo e, soprattutto, di
Omero, in forma moderna. Sa, però, che la modernità ha distrutto la persuasione
con cui gli antichi vedevano la natura vivente, distruggendo irreversibilmente
- con la conoscenza scientifica - le figure metaforiche del mito (ossia
le “illusioni”). Ma sa anche che il mito è ineliminabile nella vita dell’uomo. L’infinito,
questo capolavoro assoluto della lirica di tutti i tempi, può essere letto
anche come apertura dell’io verso il linguaggio inteso in quanto “parola pura”.
La poesia, d’ora in poi, potrà parlare solo dell’io, della sua coscienza e del suo inconscio
separati da una linea sottile.
D. Questo Idillio si può definire una grande
avventura spirituale?
R.: Certamente. È il racconto dell’io che si trova di
fronte alla domanda fondamentale: perché le “cose” e non il “nulla”? Quale confine
o ultimo orizzonte disgiunge e congiunge il visibile dall’invisibile che
noi tutti siamo?
D. Lo
spazio infinito, il tempo, il silenzio contenuti nella Poesia sono strumenti che
possono aiutare l’uomo a superare i propri limiti?
R.: Ogni volta che l’uomo cerca di
superare i propri limiti si verificano disatri: guerre, stragi inaudite,
orribili violenze (anche con il silenzio e con l’idea dell’infinito). Io credo
che la poesia abbia una funzione esattamente contraria: far accettare all’uomo
la propria finitezza. Non è esattamente questo il senso della “lenta ginestra”
che - di fronte alla violenza del
vulcano (e cioè all’enigma dell’essere) -
china il capo “non renitente” in un gesto di sublime sprezzatura,
accettando “eroicamente” la propria irriducibile “fragilità”?. Solo il
riconoscimento e l’accettazione di questa “fragilità” potrà portare alla
fratellanza fra gli uomini, che è così lontana dai giorni del nostro
inquietante presente.
D. Non
è errato, a parer suo, definire Leopardi un irriducibile “pessimista”?
R. Sì, lo è. Leopardi non è affatto
un “pessimista”. O meglio, lo è è rispetto a coloro che pensano alle
“magnifiche sorti e progressive” senza nessuna possibilità di fondare questa
convinzione su basi certe e scientificamente dimostrabili . Non si
tratta di pessimismo o ottimismo. Si tratta di realismo. Vorrei citare a questo
proposito una frase tratta dallo Zibaldone, ricordata anche recentemente
su Facebook dalla contessa Olimpia Leopardi: “Quella vita ch’èuna cosa bella,
non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita
passata, ma la futura”. Le sembra un messaggio pessimista?
D.
Perché Leopardi è stato poco conosciuto fuori dall’Italia?
R: Già nell’Ottocento, un filosofo
come Friedrich Nietzsche, assieme ad altri studiosi (soprattutto francesi e
tedeschi) avevano compreso la grandezza di Leopardi. Tuttavia, è assolutamente
vero che c’è stata, e contìinua a
esserci , una sottovalutazione nel mondo della grandezza di questo
poeta-filosofo. Oggi però, grazie all’attività el Centro Nazionale di Studi
Leopardiani, il nome di Leopardi si diffonde sempre più, con saggi critici e
traduzioni. Il motivo di questo ritardo, a
mio avviso, sta soprattutto nella specificità del pensiero e della
filosofia italiani, che - per motivi che sarebbe troppo lungo qui spiegare -
sono refrattari alla sistematicità e all’organicità nei confronti del potere
politico.
Grazie Professore per il suo
illuminato parere su questo Grande, non solo Poeta ma anche Uomo,per averlo sempre,
con le sue parole, reso più accessibile a tutti noi, per parlarne anche con
umiltà,lasciando a chi ascolta la possibilità di darsi delle risposte.
Non esistono, comunque,
verità assolute perché come dice questo “immenso” Poeta: “Il
forse è la parola più bella del vocabolario italiano, perché apre delle
possibilità, non certezze… Perché non cerca la fine, ma va verso l'infinito."
Caterina
Guttadauro La Brasca