Rimarrebbe deluso
chi andasse a vedere l’ultimo film di Roman
Polanski per assistere alla ricostruzione storica del famoso affare Dreyfus che scosse la Francia negli ultimi anni
dell’Ottocento.
Né rimarrebbe soddisfatto chi volesse vedere in questa
pellicola la risposta del regista alle accuse del movimento #metoo. Certo ambedue
gli aspetti sono presenti ma adombrano, soprattutto il primo, il punto di
partenza per narrare non tanto la storia dello scandalo quanto il ruolo di chi
quello scandalo ebbe il coraggio di denunciare mettendosi contro i propri
superiori e i loro ordini in nome della preminenza della propria coscienza.
Il
film ricostruisce, con dovizia di particolari e con un andamento da thriller,
come l’antisemita colonnello Picquart
giunga a riconoscere l’innocenza del capitano ebreo Dreyfus, accusato di spionaggio, e a individuare la vera spia che
passava informazioni ai tedeschi. Subito Picquart, che in un primo momento era
convinto della colpevolezza del capitano, avvisa i propri superiori dell’errore
giudiziario ma tutte le alte sfere militari gli consigliano di lasciar perdere
e poi lo osteggiano apertamente spedendolo in luoghi pericolosi, facendolo
pedinare e, infine, arrestandolo. A questo punto Picquart entra in contatto con
un piccolo ma determinato gruppo di innocentisti, costituito da uomini che
fecero la storia della Francia come Zola e Clemenceau, i quali in base alle sue
rivelazioni faranno riaprire il caso con un finale che, non descritto nel film,
in realtà fu meno lieto di quanto si possa credere visto che, formalmente,
Dreyfus non venne mai assolto da un tribunale militare e venne addirittura
aggredito in strada nove anni dopo la grazia.
Questa la trama
esteriore ed è una storia, a grandi linee, conosciuta da quasi tutti. La
particolarità e la ricchezza del film sta nella ricostruzione, fedele, del personaggio
Picquart. Il colonnello, magistralmente interpretato da Jean Dujardin, è un uomo che antepone alle proprie convinzioni
personali, come un blando antisemitismo, il culto inflessibile per la Verità e
la Giustizia, culto invero tutto laico e senza alcun riferimento religioso. Su
questo tema si snoda il racconto e la rivendicazione della superiorità della
legge morale rispetto a qualsiasi gerarchia che tale morale calpesta. Quella di
Picquart è una sorta di religione civile in cui l’esercito ha il compito di incarnare,
difendere la moralità e non calpestarla (si faccia attenzione al confronto con
il suo sottoposto Henry); con questa convinzione interiore di ciò che è giusto
e ciò che non lo è, Picquart ingaggia lo scontro con un sistema militar-giudiziario
che, colpo su colpo, nega la verità e tenta d’imporsi, fino all’ultimo, con
l’inganno, le falsificazioni, le menzogne.
La sceneggiatura
segue passo passo questo scontro ricostruendo ambienti e personaggi con acume
psicologico e dovizia di particolari. Di notevole interesse è l’ambientazione
del palazzo del controspionaggio dove Picquart
agisce in qualità di comandante. Il suo predecessore, tra i principali
accusatori di Dreyfus, ne aveva
fatto un luogo equivoco di incontri con i bassifondi e senza alcuna disciplina
militare; i cambiamenti apportati nell’organizzazione (sostituzione di parte
del personale, eliminazione dei rapporti “informali”, istituzione di un
registro per annotare chi entrava e chi usciva ecc.) sono la razionalizzante proiezione
esterna di un ordine morale interiore del protagonista. Così tra gli
scricchiolanti pavimenti di legno dei palazzi della burocrazia militare e gli
scintillanti salotti dell’alta società parigina, Picquart diventa il modello di
un uomo che, trovandosi al centro di avvenimenti ben più grandi di lui, sceglie
di agire in base alla voce interiore. Scelta non facile non solo per le
conseguenze nella vita personale (e Polanski
descrive bene a che livello di bassezza è disposto a scendere il Potere quando
si sente minacciato) ma anche per la vita dell’intera Francia.
Il film, come
detto, è interessato soprattutto al colonnello ma in almeno due casi allarga lo
sguardo, velocemente, all’intera società francese. Significativa è la scena in
cui gli “antidreyfusards” bruciano in un rogo lo scritto di Zola (“J’accuse”) a favore del capitano
ebreo; è chiaro il riferimento ai roghi che poco meno di quarant’anni dopo in Germania sarebbero stati allegramente
allestiti dagli studenti tedeschi. Ma ancor più significativo è un altro
dettaglio che la sceneggiatura mostra quasi di passaggio e quindi rende ancor
più interessante. Durante i vari processi intentati per la riabilitazione
vengono mostrati gli ingressi dei personaggi al tribunale e mentre Picquart è sottoposto agli insulti
della folla, i generali sono applauditi e osannati dalla stessa folla. Questo
particolare rispetta, purtroppo, la realtà storica: i “dreyfusards” erano una
piccola minoranza nella società mentre gli antisemiti rappresentavano la rumorosa
e, in nuce, squadristicamente determinata fazione violenta inneggiante allo
scontro fisico.
Con il saldarsi di
antisemitismo e nazionalismo (i generali si autoproclamano veri rappresentanti
degli interessi francesi) e con il relativo rogo di quanto ritenuto sbagliato
l’orrore nazionalsocialista è alle porte. Se pensiamo poi che solo poco più di quarant’anni
dopo centinaia di uomini diranno che hanno ucciso degli inermi nelle camere a
gas perché così erano gli ordini, possiamo apprezzare la condotta del colonnello Picquart ma anche la
debolezza, la fragilità di una coscienza umana in cui il male opera
continuamente. Picquart, si è detto, agisce secondo coscienza e una volta
scelta la via, la persegue sino in fondo. In fin dei conti per lui, per la formazione
che ha, per il codice d’onore che lo sostiene non è difficile ascoltare la
propria coscienza, è quasi banale, ma il tenere fermo alla propria coscienza
rappresenta la vera grandezza di un oscuro ufficiale superiore francese.
Picquart diventa cifra della possibilità del meglio.
Nicola F. Pomponio