Quando Arte e
Business si incontrano: l’iniziativa di Aisico Srl e il Festival della Piana
del Cavaliere - di Massimo Mazzetti
CARSOLI (L’Aquila) - Con
immenso piacere abbiamo intervistato l’ing. Stefano Calamani dell’Aisico Srl, ideatore, creatore e promotore
del Festival della Piana del Cavaliere,
giunto alla sua terza edizione e svoltosi, quest’anno, nel comune di Configni in provincia di Rieti.
Aisico Srl, che si occupa di sicurezza stradale, è il
promotore principale della creazione del Festival della Piana del Cavaliere. Da
dove è nata questa esigenza?
L’esigenza, come tutti i bisogni umani, è nata dalla consapevolezza di una
mancanza. E quello che secondo me, e secondo Aisico, è venuto sempre più a
mancare, specialmente negli ultimi anni, è un importante investimento sulla
società e sulla popolazione. Tagliare i fondi alla cultura e all’educazione,
cosa che immancabilmente qualsiasi formazione politica al governo tende a fare,
è il primo e temibile passo verso una società che regredisce sempre di più, che
non sa integrarsi nel mondo globalizzato e veloce di oggi, che non trova il suo
posto nell’Europa unita perché non ha forza di argomentare le proprie posizioni
o di capire quelle degli altri, che non sa ragionare in maniera critica, ma
solo dar ragione a chi alza di più la voce. L’esigenza quindi è stata quella di
provare a colmare una lacuna: dove lo Stato non vuole o non può arrivare, il
privato può fare moltissimo, qualora creda che ne valga profondamente la pena,
qualora pensi che investire i propri fondi in un progetto culturale sia una
ricchezza più grande e duratura del comprare un altro immobile, qualora ritenga
il futuro dei propri figli e della propria società un valore su cui puntare
davvero.
Il Festival della Piana del Cavaliere che non si trova
nel territorio della Piana fa uno strano effetto. Perché questo cambio di
location?
In effetti è una domanda che ci è stata posta svariate volte quest’anno, ovvero
“perché il Festival della Piana del Cavaliere non si trova nella Piana del
Cavaliere?”. La risposta è semplice: è nato li, ci è stato due anni lottando
contro l’ostilità di un territorio complicato che sembra quasi aver subito l’evento,
ma senza condividerlo. Il risultato è stata la necessità o di fermarci o di trovare
un posto che guardasse al Festival come un’opportunità di crescita sociale ed
economica. Non bisogna infatti dimenticare che questa realtà muove diverse
centinaia di persone tra staff, studenti e pubblico, le quali durante il Festival
utilizzano le strutture recettive presenti nella zona. Difficile capire per
quale motivo i comuni della Piana non abbiano condiviso l’iniziativa, arrivando
in alcuni casi anche ad osteggiarla, ma non è di certo un bastone tra le ruote
che può fermare un progetto con dei valori e delle radici così ben salde.
Dispiace solo sapere che non tutti condividono questa filosofia.
Qual è il suo bilancio conclusivo di questa III edizione
del Festival? Possiamo davvero tornare ad affermare “Vivo d’arte, vivo
d’amore”?
Dopo l’edizione dell’anno scorso, possiamo dirci entusiasti di come sia
andata quest’anno. L’accoglienza nel territorio della Sabina è stata più che
calorosa, artisti e partecipanti alle Masterclass si sono detti felici di aver
partecipato e di aver respirato quest’atmosfera di gioia e condivisione. Anche
da parte del pubblico la partecipazione è stata inaspettatamente calorosa e
davvero numerosa. E non parlo solo dei grandi eventi che hanno visto il tutto
esaurito con persone che assistevano ai concerti in piedi, ma anche durante i
saggi conclusivi delle masterclass, durante i concerti di musica da camera e
solistici: non è mai capitato di dover fare concerti con la sala vuota o con la
sensazione di aver sprecato un momento di alta cultura. Ogni offerta è stata
accolta a braccia aperte. Una delle più grandi soddisfazioni è stata vedere le
persone che ogni giorno, dopo i concerti, si incontravano al bar per fare
colazione e commentavano quell’“atmosfera di silenzio e concentrazione che
si è creata durante il concerto” come una cosa meravigliosa, grate di aver
potuto prendere parte a quell’evento. Per non parlare del debutto
dell’orchestra: non posso nascondere quanto “vivo d’arte, vivo d’amore” sia
stato reale la sera del 14 agosto, alla vista di ciò che avevamo creato e
dell’effetto che ha avuto sulle persone in ascolto. Unico neo su cui ancora
dobbiamo continuare ad insistere: non è facile comunicare o far conoscere
quello che sta avvenendo, non è facile far capire quanto questa realtà sia
degna di essere sostenuta, soprattutto dalle istituzioni locali, perché i
risultati sociali sono tanti e tangibili, non è facile farsi ascoltare. Essere
una goccia nel mare non è un ruolo semplice, ma non smetteremo di provarci.
Cos’ha il Festival della Piana del Cavaliere di diverso
rispetto agli altri proposti in Italia?
Sicuramente il fatto che offra la grandissima possibilità di un’educazione alla
musica e all’arte democratica e aperta a tutti. Le Masterclass gratuite sono
sicuramente la più grande novità rispetto agli altri Festival simili in Italia:
dove altro puoi trovare un musicista di fama internazionale che ti fa 4 o 5
giorni di lezione a 100 €? Altro
aspetto è la grande adesione al progetto da parte di importanti musicisti
nazionali ed internazionali (non voglio citare nessuno perché rischierei di
fare torti ad altri), che ci ha consentito di svolgere corsi e fare eventi con
professionisti di altissima qualità. Fondamentalmente direi che la peculiarità
del Festival è che non si tratta di una macchina per fare soldi e che non cerca
di vendere un prodotto, vuole invece offrire uno spiraglio di cultura, vuole
regalare emozioni e vuole che chiunque possa permettersi di farne parte, possa
sentirsi parte integrante di un progetto di crescita sociale. Certamente è un
progetto che nel prossimo futuro deve essere condiviso per poterne consentire
la crescita.
Come giudica la partecipazione di un pubblico così nuovo
a queste iniziative, che non ne è abituato e che forse non sa bene come
comportarsi o cosa aspettarsi?
Mi rendo conto che aver avuto la possibilità di assistere ad un concerto di
musica classica dal vivo, ad uno spettacolo, ad un saggio o ad un’esposizione
di pezzi d’arte non sia un’esperienza comune a tutti, tanto più se ci si muove
fuori dai grandi centri culturali e si approda in piccoli paesini da cui non è
sempre facilissimo uscire o arrivare. Ma non è proprio questo il punto? Non è
una coincidenza che l’investimento fatto venga proposto non solo come offerta
culturale, ma anche educativa. La gente che non sa come comportarsi ai concerti
o che non ne ha mai visto uno, forse non ha potuto scegliere diversamente in
passato, non ne ha avuto l’opzione. E se noi invece di demolire l’ignoranza
come dato di fatto su cui non si può fare nulla, diamo modo alle persone di
sperimentare qualcosa di diverso, ecco che allora un piccolo miracolo avviene:
la gente arriva, senza pregiudizi e preconcetti, ad ascoltare un concerto di
musica contemporanea per trombone solo, come è capitato nell’edizione di
quest’anno, e ne esce entusiasta, capendo che ha assistito ad un evento unico
ed irripetibile. E tutto ciò nonostante non siano esperti o critici musicali. Senza
dubbio è già un enorme e sorprendente risultato: educare all’arte con l’arte
non è solo un modo di dire.
Cosa può fare l'Italia, in generale, e il cittadino, nel
particolare, per portare avanti un'idea di arte concreta e pratica che effettivamente
cambia la vita quotidiana delle persone?
La prima cosa che vorrei suggerire ad un cittadino che vuole capire, e
quindi portare avanti quest’idea, è di andare ai concerti, alle mostre, alle
esposizioni, agli spettacoli. Vivere l’arte per davvero, sperimentarla e farla
entrare nel quotidiano. Non conosco niente di più efficace per capirne il
potere educativo: l’arte non ha bisogno di altro che di sé stessa per
spiegarsi. Quindi, da cittadini consapevoli, sforzatevi di provare a vivere
l’arte, in una qualsiasi o in tutte le sue forme, una volta iniziato non
riuscirete a smettere. E portare avanti un’idea che vive nella nostra
esperienza è la cosa più naturale del mondo: siamo noi in prima persona che ci
facciamo esempio concreto di quell’idea. Non riesco a pensare a nulla di più
efficace.
Il discorso è più difficile se si vuole parlare dell’Italia. Senza entrare
nel merito delle pantomime politiche degli ultimi tempi, penso che il primo
grande passo debba essere fatto nel ritorno alla sostanza, o meglio nel
rinnovato sguardo a ciò che davvero conta nella vita di uno stato sano,
produttivo e felice. E senza dubbio non si tratta di aizzare all’odio del diverso,
ma di incoraggiare alla scoperta del diverso. Questo non significa che deve
piacermi tutto o devo andare d’accordo con tutti, significa che devo essere
capace di farmi un’opinione, di ascoltare e aprirmi a ciò che non conosco per
imparare qualcosa. Solo dopo posso sapere se condivido oppure no. Ma partire
prevenuti, pensando di sapere già tutto e non volendo nemmeno ascoltare chi
propone il diverso, bè questa è una sconfitta in partenza. L’apertura di cui
sto parlando è quella che si impara andando ad ascoltare un concerto che non hai
mai sentito prima, andando a vedere una mostra e prestando attenzione
all’osservazione di ogni quadro, assistendo ad uno spettacolo teatrale che alla
fine mi emoziona e mi fa riflettere. Ecco che quindi vivere l’arte può effettivamente
trasformarsi in una scuola di vita nel momento in cui, inconsciamente, essa mi
insegna ad aprirmi al nuovo, ad ascoltare e ad essere ascoltato. Non so a lei,
ma a me questa sembra la base di una società civile e democratica. Forse è su
questo che l’Italia dovrebbe cominciare ad investire.
Quali sono state le sue esperienze più significative,
personali e professionali, che l'hanno portata alla consapevolezza che la
cultura ha un ruolo primario per tutti i cittadini, anche per chi, come lei, non
lavora di cultura.
Non ci sono esperienze personali o professionali, basta guardarsi intorno e
magari confrontarlo con quello che vediamo fuori dall’Italia. L’Italia e la
Grecia sono la patria della cultura, con la differenza che noi abbiamo prodotto
cultura ininterrottamente per quasi venti secoli. Da dove possiamo ripartire se
non ancora dalla cultura? Perché Paesi con tradizioni culturali meno forti della
nostra ci stanno surclassando con proposte che noi neanche ci immaginiamo? E
poi perché se tanti Paesi investono in cultura, magari italiana, noi stiamo
andando controcorrente? Non sarà forse che la cultura sia una reale opportunità
di crescita per un Paese? Porsi queste domande è obbligatorio; ciascuno poi si
dà le risposte che ritiene giuste, l’importante è farlo, darsi delle risposte,
e non pensare che il problema riguardi sempre qualcun altro. Noi ci siamo posti
queste domande e vogliamo dare delle risposte concrete, sperando che in futuro
non ci sia più nessuno che, parlando della nostra capitale, la città più bella
del mondo, la definisca “un uomo che si mantiene
mostrando ai viaggiatori il cadavere di sua nonna in cantina”, come disse oltre cento anni fa un illustre visitatore irlandese.