Intervista di Andrea Giostra. «Tutto
quello che creo nasce da un’urgenza, da un bisogno di prendere per
mano il pubblico e di trascinarlo con me in un luogo dove le speranze
diventano realtà»
Ciao
Erica, benvenuta e grazie per la tua disponibilità. Se volessi
presentarti ai nostri lettori cosa racconteresti di te quale artista
della settima arte?
Grazie
a te, Andrea. Inizierei così: il cinema mi ha conquistata cinque
anni fa. Io vengo dalla danza prima e dal teatro poi. Credevo che
sarei rimasta in questi ambiti per il resto della mia vita fino a
quando, nel 2014, mi è
stato regalato un viaggio in California
e a Los Angeles ho
cambiato idea. Anzi no, non ho cambiato idea, la mia idea si è
espansa. All’epoca mi occupavo già di regia ma solo in ambito
teatrale. Quando ho sentito che avevo un messaggio da portare a un
pubblico più ampio non ho avuto molta scelta se non l’espansione.
Ecco, per me la regia cinematografica è espansione.
Nel
tuo sito ufficiale ti definisci una “Registra
Trasformazionale”. Vuoi spiegare ai
nostri lettori cosa significa esattamente?
Mi
definisco Regista Trasformazionale
perché non mi occupo solo dell’arco di trasformazione dei
personaggi della storia ma anche e soprattutto di quello del
pubblico. Tutto quello che creo ha lo scopo di cambiare il punto di
vista degli spettatori sulla realtà circostante e, di conseguenza,
il loro approccio alla vita. Il mio obiettivo è di farli uscire
dalla sala con la convinzione che anche loro possono cambiare vita e
possono farlo da subito. Utilizzo tecniche che appartengono al mondo
del life e spiritual coaching
(da qui il termine ‘trasformazionale’)
nella struttura, nella scrittura e nei contenuti del film. In molte
creazioni esplicito anche quali tecniche utilizzo e come e in questo
modo le passo direttamente al pubblico. Attraverso quello che creo
mostro al pubblico come rompere la quarta parete della vita, quella
cioè che divide il possibile dall’impossibile e rendere possibile
tutto.
Qual
è stato il tuo percorso artistico che ti ha condotto dove sei ora
professionalmente?
È
stato un percorso artistico molto vario. Tanti anni di danza e
coreografia che oggi m’ispirano nel montaggio video, nel gioco con
i contrasti immagini-musica, nel creare composizioni a effetto e nel
prediligere un girato fatto di movimento, anche azzardato, della
camera. Poi il teatro, da attrice prima e da regista poi, con la sua
profondità e con il suo bisogno di contatto con il pubblico mi ha
insegnato ad avere un rapporto di onestà e di rispetto con lo
spettatore: è lui che rende possibile l’esistenza dell’atto
scenico, ha pagato un biglietto per salire su un mezzo che possa
condurlo a una verità e a te, che stai in scena, spetta di
trasportarlo. Poi il teatro sociale, il master in drammaterapia
e i percorsi di crescita personale e spirituale hanno reso possibile
la mia espansione al mondo del cinema: tutto quello che creo nasce da
un’urgenza, da un bisogno di prenderlo per mano quel pubblico e di
trascinarlo con me in un luogo dove le speranze diventano realtà,
dove il paradiso esiste ed è già qui, dove la vita ti porta
esattamente dove vuoi tu. E solo il cinema può rendere visibile
questa trasformazione e questo nuovo modo di vivere nel mondo.
Come
nasce la tua passione per il cinema?
Sono
l’ultima di quattro figli e i miei fratelli sono molto più grandi
di me. Sono cresciuta senza cartoni animati, solo film, tutto il
tempo. Alternavo serie televisive a film, film a serie televisive.
Guardavo lo stesso film, anche tre, quattro volte al giorno, per
imparare a memoria le battute e poi le recitavo in giro per casa. A 8
anni avevo le idee molto chiare e ripetevo che un giorno sarei andata
a vivere a Hollywood.
Così fino alle medie. Ricordo certe estati in cui, con i miei cugini
al mare, passavamo i giorni a girare corti tra il paradossale e
l’horror. I miei genitori pensavano che tutto si sarebbe ‘risolto’
una volta arrivata alle scuole superiori e invece no: a quattordici
anni mi sono iscritta all’Istituto d’Arte
di Parma a un corso sperimentale in
Discipline dello Spettacolo
e ho iniziato ad appassionarmi al cinema
espressionista tedesco e al cinema
neorealista. Mia madre ha visto con me film
muti e in bianco e nero per anni. In casa avevamo VHS ovunque,
registravo qualsiasi cosa in TV. A tredici anni ho rubato la
videocamera a mio fratello, a diciassette ho comprato la mia prima.
Giravo video alle feste con amici, ai concerti, in vacanza. Solo
adesso, pensandoci, mi rendo conto da dove nasce una certa passione
per i documentari…
Chi
sono i tuoi modelli e chi sono stati i tuoi maestri che vuoi
ricordare in questa intervista?
In
primis, il Fritz Lang
di Metropolis.
Questo film mi ha segnata e per certi aspetti, sconvolta. Qui ci ho
visto, per la prima volta, il genio. Non sto parlando solo della
regia o della musica: sto parlando dell’urgenza di narrare un
disagio interiore e di riuscire a rifletterlo, come uno specchio,
nella realtà circostante. Poi il cinema
neorealista con la sua verità e il
bisogno di stare con la gente, di raccontare la gente. Lì, ho
trovato una dimensione sociale che mi appartiene. Un cinema fatto
dalle persone, per le persone. In questo caso è difficile scegliere
un regista ma, influenzata da un incontro pubblico tenuto da Martin
Scorsese qui a Roma
qualche mese fa in cui elencava i suoi autori preferiti, direi che ci
sono ottime motivazioni per preferire, su tutti, lui: Pierpaolo
Pasolini. Poi Terrence
Malick, con il suo stile riflessivo,
filosofico e spirituale che appartiene anche ai miei lavori. Le opere
di Malick le ho scoperte dopo aver esordito con il mio primo
cortometraggio: in quell’occasione mi è stato detto che forse
avrei potuto apprezzare l’Albero della
Vita, e così è stato. In generale amo
molto le storie vere e i biopic. Amo coniugare una certa ‘necessità’
di fare cinema (come se quest’ultimo diventasse, a un certo punto,
una protesi dell’anima) e scelte tecniche e stiliste azzardate.
Chi
sono secondo te i più bravi registi nel panorama internazionale e
nazionale? E con chi di loro ti piacerebbe lavorare e perché?
Tra
gli italiani: Matteo Rovere
per l’audacia di un cinema che grazie a lui ha alzato l’asticella
dello standard anche in questo paese sia a livello narrativo che
tecnico; Paolo Virzì
per la profondità dei contenuti, per le trame interiori - intricate
e per la caratterizzazione dei personaggi; Paolo
Genovese per la genuinità mai scontata e mai
banale: riesce sempre a farti sentire ‘uno di casa’ in ogni suo
film. Tra gli stranieri: Christopher Nolan
per l’intelligenza dei contenuti e dello stile dei suoi film; anche
se di Damien Chazelle
ho amato solo Whiplash,
ne ammiro l’eclettismo: gli ultimi suoi tre film sembrano girati da
tre paia di mani diverse; l’unico di cui davvero non mi stanco mai
è Steven Spielberg ma
credo che su questo siamo tutti d’accordo. Lavorerei con tutti loro
più uno: Martin Scorsese.
«Il cinema deve essere spettacolo, è questo che
il pubblico vuole. E per me lo spettacolo più bello è quello del
mito. Il cinema è mito». Sergio
Leone (1929-1989). Cosa pensi di questa frase detta dal grande
maestro Sergio Leone? Cosa deve essere il cinema per chi lo crea e
per chi ne gode da spettatore?
‘Wow’.
Non solo rispondo così all’affermazione di Sergio
Leone ma rispondo così anche in merito a
quello che dovrebbe essere il cinema per chi lo crea e per chi ne
fruisce. ‘Wow’ e non sto parlando solo di spettacolo. Sergio
Leone parla di mito e il mito ha una componente di epicità
fondamentale. L’epicità è quella cosa che tutti ci aspettiamo di
vedere al cinema. La vediamo nelle storie raccontate e nel modo in
cui vengono raccontate. L’epicità è alla base anche del moto
delle emozioni, quelle emozioni che ci tengono incollati alla
poltrona della sala. Quando da spettatori esclamiamo ‘Wow’ allora
stiamo vedendo il film che fa per noi e non solo: stiamo vedendo un
film che potenzialmente potrebbe cambiarci la vita. Mito, epicità e
‘Wow’. Il mito narra storie che ammiriamo, racconti potenti che
hanno cambiato la storia di uno o di molti. Attraverso il cinema
trasformazionale mi piacerebbe trasmettere al pubblico l’idea che
ogni vita, anche la loro, può avere tutte queste caratteristiche. La
trasformazione di cui parlo è carica di una forza che plasma la
realtà, di un finale che crea valore per se stessi e per gli altri,
di un percorso che mostra l’epicità anche nella nostra
quotidianità. In questo senso il cinema diventa mito quando si fa
mezzo di un modo per riappropriarsi della profondità e della unicità
delle nostre esistenze: essere qui per fare la differenza. Anche per
questo chi lavora nel mondo del cinema dovrebbe sempre pensare di
essere tramite di un effetto ‘Wow’.
«Il
cinema lo chiamerei semplicemente vita. Non credo di aver mai avuto
una vita al di fuori del cinema; e in qualche modo è stato, lo
riconosco, una limitazione.» Bernardo
Bertolucci (1941-2018). Qual è la tua posizione da addetto ai
lavori, di chi il cinema lo vive come professione ma anche come
passione, rispetto a quello che disse Bertolucci? Oltre ad essere
un’arte, cos’è il cinema per te?
Un
mezzo per una trasformazione. Prima di tutto lo è stato per me, per
la mia di vita. Se non avessi visto il cinema, cinque anni fa, nelle
mie possibilità future forse avrei smesso di fare ricerca sia a
livello artistico che personale. Se non credessi profondamente nelle
possibilità che ha il cinema di plasmare la mente e l’anima delle
persone, forse oggi mi starei dedicando ad altro. Io vivo di una
ricerca costante nel campo della crescita personale e spirituale, il
cinema è solo un mezzo per portare al pubblico l’esito di queste
ricerche con la presunzione che questo mio ‘andare’ cambi la vita
di altre persone e lo faccia per un numero sempre maggiore
d’individui e in modo sempre più veloce. Il cinema ha dato una
casa alle mie ricerche, alle mie intuizioni, alle mie creazioni.
«Tutti i film che ho realizzato sono partiti
dalla lettura di un libro. I libri che ho trasformato in film avevano
quasi sempre un aspetto che a una prima lettura mi portava a
domandarmi: “È una storia fantastica; ma se ne potrà fare un
film?” Ho sempre dei sospetti quando un libro sembra prestarsi
troppo bene alla trasposizione cinematografica. Di solito significa
che è troppo simile ad altre storie già raccontate e la mente salta
troppo presto alle conclusioni, capendo subito come lo si potrebbe
trasformare in film. La cosa più difficile per me è trovare la
storia. È molto più difficile che trovare i finanziamenti, scrivere
il copione, girare il film, montarlo e così via. Mi ci sono voluti
cinque anni per ciascuno degli ultimi tre film perché è
difficilissimo trovare qualcosa che secondo me valga la pena di
realizzare. (…) Le buone storie adatte a essere trasformate in un
film sono talmente rare che l’argomento è secondario. Mi sono
semplicemente messo a leggere di tutto. Quando cerco una storia leggo
per una media di cinque ore al giorno, basandomi sulle segnalazioni
delle riviste e anche su lettura casuali.»
(tratto da “Candidamente Kubrick”,
di Gene Siskel, pubblicato sul Chicago Tribune, 21 giugno 1987). La
maggior parte degli scrittori ha un grande sogno: quello che un loro
libro, un loro romanzo diventi un film realizzato da un grande
regista. Tu a questo proposito cosa pensi delle parole di Kubrick
sulle storie raccontate nei libri per farne dei film? Cosa serve
secondo te perché un romanzo possa catturare l’interesse di un
grande regista cinematografico?
Io
credo dipenda soprattutto dall’incontro romanzo/storia-regista. Il
momento giusto, la persona giusta, l’ispirazione giusta a volte
dissolvono improvvisamente i molti ostacoli e i molti dubbi che
normalmente si presentano nel momento in cui pianifichiamo una
creazione. Quella sincronicità è qualcosa che non si può
controllare. Avviene, punto. Quando avviene, un romanzo che pareva
impossibile diventasse un film viene girato. Io posso dire quello che
cattura la mia attenzione: la realtà potenziata. Storie che parlano
di una vita completamente trasformata, un mondo che si trasforma in
un paradiso, la materializzazione di qualcosa che sembrava
impossibile. Questo è quello che cerco io nelle storie che ispirano
i miei lavori. Ho detto che amo le storie vere e i biopic, mi
piacciono le storie che narrano di cose impossibili diventate
possibili. Mi piace l’idea di avere dei riferimenti concreti, di
portare al pubblico esempi reali, vite vissute, strutture di pensiero
e azione che possono replicare. In questi giorni sto ricevendo molte
storie di persone che hanno affrontato situazioni tragiche nella loro
vita, che si sono rialzate e oggi stanno aiutando altre persone a
superare le difficoltà. Sto leggendo due libri diversi che narrano
di storie vere e potenzialmente, entrambi, potrebbero diventare un
film. Per me non è difficile trovare storie, sono circondata da
storie vere che secondo me potrebbero fare la differenza per molte
persone e le racconterei tutte. Anzi, in realtà, sto pianificando di
raccontarle tutte. Solo negli ultimi mesi ho proposto quattro
progetti diversi alla casa di produzione con cui collaboro. Io non so
quando avverrà la sincronicità che dissolve ostacoli e dubbi e
manda un progetto in produzione ma so che mi devo far trovare pronta
e le molte storie che ho in mente e che ricevo mi permettono di
esserlo.
«La
sceneggiatura è il genere di scrittura meno comunicativo che sia mai
stato concepito. È difficile trasmettere l’atmosfera ed è
difficile trasmettere le immagini. Si può trasmettere il dialogo; se
ci si attiene alle convenzioni di una sceneggiatura, la descrizione
deve essere molto breve e telegrafica. Non si può creare
un’atmosfera o niente del genere…» (Conversazione
con Stanley Kubrick su 2001 di Maurice Rapf, 1969). Cosa ne pensi
delle parole di Kubrik sulla sceneggiatura? Quanto è importante la
sceneggiatura per la realizzazione di un’opera cinematografica?
Strutturalmente
è fondamentale. Perché dico strutturalmente? Perché condivido
l’idea che sia difficile trasmettere atmosfera e immagini
all’interno della sceneggiatura. La struttura della sceneggiatura è
una mappa che ti fa capire se stai andando nella direzione giusta.
Come Google Maps nella visualizzazione delle mappe, puoi scegliere
tra predefinita, satellite e rilievo ma poi la realtà che vedi dal
parabrezza della tua auto è di molto diversa. Se ami improvvisare,
la sceneggiatura ti mostra una linea da seguire, una visualizzazione
‘predefinita’ del film e il resto lo scopri mentre giri. Se vuoi
avere maggiore chiarezza dall’inizio, una ‘visualizzazione
satellitare’ del film ti premette definirne meglio i dettagli.
Secondo il ruolo della sceneggiatura in un film dipende molto dal
genere di film che giri, dal cast, dal budget, dall’esperienza e
dall’intuito del regista. Io giro partendo almeno da una struttura:
i corpi dei miei film, senza scheletro, non si muoverebbero… ma
esistono registi che non utilizzano nemmeno questa.
Perché
secondo te oggi il cinema e il teatro sono importanti?
Sono
fondamentali per trasformare la realtà e ridare alle persone quel
potere personale che sentono di aver perso.
A
cosa stai lavorando in questo momento? Quali i tuoi prossimi
appuntamenti di lavoro che vuoi anticiparci?
Sto
lavorando al mio primo documentario. Racconto storie di vita di
persone che hanno vissuto una grande trasformazione, che hanno fatto
esperienza di quell’effetto ‘Wow’ di cui prima. Come dicevo
“persone per le persone”.
Racconto storie vere che, sono certa, prenderanno per mano il
pubblico e lo porteranno in una dimensione in cui la realtà cambia e
si potenzia. E quella realtà, quella nuova vita, sarà già
possibile.
Immagina
una convention all’americana, Erica, tenuta in un teatro italiano,
con qualche migliaio di adolescenti appassionati di cinema. Sei
invitata ad aprire il simposio con una tua introduzione di quindici
minuti. Cosa diresti a tutti quei ragazzi per appassionarli al mondo
del teatro e della settima arte? Quali secondo te le tre cose più
importanti da raccontare loro sulla tua arte?
“Quanti
di voi conoscono Iron Man?
Io lo adoro. È il mio super eroe preferito. A casa ho una sua
riproduzione in miniatura, un modellino che guardo spesso quando mi
sento triste e debole. Amo il suo essere così concreto, intelligente
e forte. Quanti di voi vorrebbero avere il successo di Tony
Stark anche nella loro di vita? E quanti
di voi vorrebbero la sua armatura da Iron Man? Io vorrei tutte queste
cose più una: il suo equilibrio come persona. Tony è una persona
profondamente equilibrata, uno che sa gestire contemporaneamente
affari, famiglia e la missione di salvare il mondo. Il suo equilibrio
è così profondo che non vacilla nemmeno di fronte alla scelta della
morte nel finale di Avengers Endgame.
Cosa pensereste se vi dicessi che conosco un modo o più modi per
gestire l’equilibrio esattamente come Tony? Forse non
v’interesserebbe più di tanto. E se vi dicessi che nelle mie
creazioni racconto di storie di vita di persone che hanno avuto
successo esattamente come lui? Forse avrebbe il sapore per voi di
qualcosa di già visto e sentito. Invece io sono qui a dirvi che nei
miei film parlo di come avere e indossare quell’armatura che vi
protegge negli scontri più difficili, che dissolve i problemi più
ostici, che rivela la parte migliore e più forte di voi in qualsiasi
momento. Nei miei film vi parlo di come potete essere un pilastro in
mezzo al disastro e salvare la vita delle persone intorno a voi.
Questo è quello che mostro con il cinema trasformazionale.”
Erica
Muraca
http://ericamuraca.com/
http://heartsfromearth.me/
http://www.youtube.com/c/ericamuraca
Foto
di Emanuele Giacomini
Andrea
Giostra