a cura di Andrea Giostra - La
28^ puntata dei Romanzi da leggere online è dedicata al sesto capitolo de “Il
sosia” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij In copertina: Giorgione (Castelfranco Veneto 1478 - Venezia 1510), “Doppio ritratto”, 1502, cm. 80x75, olio su tela.
IL SOSIA | Poema
pietroburghese
Capitolo 6°.
L'indomani, alle otto in punto, Goljadkin si svegliò
nel suo letto. Subito tutti gli eventi straordinari del giorno prima e quella
incredibile e selvaggia notte con le sue quasi impossibili avventure comparvero
di colpo, tutti insieme, nella loro spaventosa pienezza, alla sua immaginazione
e alla sua memoria.
L'odio così esasperato e infernale da parte dei suoi
nemici e, in particolare, l'ultima manifestazione di quell'odio agghiacciarono
il cuore di Goljadkin. Ma contemporaneamente tutto era così strano,
incomprensibile, assurdo e gli sembrava così lontano da ogni possibilità, da
non potersi decidere a credere a tutta quella faccenda; Goljadkin stesso
sarebbe stato persino disposto a ritenerla un vano delirio, uno squilibrio
momentaneo della sua mente, un ottenebramento dell'intelletto, se, per sua
fortuna, non avesse saputo, dall'amara esperienza quotidiana, fino a che punto
l'odio può a volte trascinare un uomo, fino a che punto può arrivare
l'accanimento di un nemico che voglia vendicare il suo onore e il suo amor
proprio. Per di più, le membra indolenzite di Goljadkin, la testa annebbiata,
le reni spezzate e un maligno raffreddore testimoniavano con evidente chiarezza
e sostenevano tutta la verosimiglianza di quella passeggiata notturna e, in
parte, di tutto quanto era accaduto durante quella passeggiata. E poi, infine,
Goljadkin stesso sapeva benissimo che quelle certe persone stavano complottando
da un bel pezzo qualche cosa e che, là con loro, c'era qualcun altro. Ma che
fare? Dopo averci riflettuto sù un po', Goljadkin prese la decisione di starsene
zitto, di rassegnarsi e di non protestare per quella faccenda fino a quando non
si presentasse un momento più opportuno. "Sì, forse hanno solo avuto
l'intenzione di spaventarmi e, quando vedranno che io me ne sto zitto, non
protesto, mi rassegno docilmente e sopporto con umiltà, forse faranno marcia
indietro, spontaneamente, anzi saranno i primi a fare marcia indietro."
Ecco quali pensieri giravano per la mente di Goljadkin mentre, stirandosi nel
letto e sgranchendosi le membra rotte, aspettava, come al solito, che Petruska
facesse la sua comparsa in camera.
Aspettava già da un quarto d'ora; sentiva che quel
poltrone di Petruska si affaccendava, là dietro il tramezzo, attorno al
samovàr, ma intanto in nessun modo si decideva a chiamarlo. Diremo di più:
Goljadkin, ora, temeva perfino un po' l'incontro con Petruska. "Sa
Iddio," pensava "sa Iddio cosa dirà quel lazzarone di tutta la
faccenda. Adesso se ne sta là zitto zitto, ma è un furbacchione,
quello..." Finalmente la porta cigolò e comparve Petruska col vassoio tra
le mani. Goljadkin lo guardò di traverso, con una certa timidezza, aspettando
impaziente ciò che sarebbe successo e se Petruska si sarebbe finalmente deciso
a dire qualcosa a proposito delle note circostanze. Ma Petruska non disse nulla,
anzi sembrò molto più taciturno, più arcigno e più irritato del solito e
guardava tutto di traverso; in complesso era evidente che era molto scontento
di qualche cosa; non rivolse al padrone neppure uno sguardo, il che, diciamolo
tra parentesi, ferì non poco Goljadkin; mise sul tavolo tutto quello che aveva
portato, si girò e uscì, senza aver aperto bocca, per andare dietro al
tramezzo.
"Sa, sa, sa tutto, quel fannullone!"
borbottava Goljadkin mentre beveva il tè. Il nostro eroe, però, non chiese
niente al suo domestico, nonostante che Petruska fosse in seguito entrato e
uscito diverse volte dalla camera per svariate incombenze.
Goljadkin si trovava dunque in uno stato d'animo
piuttosto agitato. Sentiva un senso di raccapriccio all'idea di dover andare
ancora al suo ministero. Aveva il vivo presentimento che sicuramente là
qualcosa non sarebbe andata bene. "Be', ora ci andrò" pensava,
"ma se là mi imbattessi in chissà che cosa? Non sarebbe meglio, per ora,
pazientare? Loro sono là... ci restino finché vogliono; io oggi me ne resterò
qui ad aspettare, a raccogliere tutte le mie forze, mi rimetterò un po' in
sesto, rifletterò più comodamente su tutta questa faccenda e poi
sceglierò il momento giusto per piombare come una
tegola sulla testa di tutti quelli là e non darò nell'occhio a nessuno."
Così rimuginando, Goljadkin fumava una pipa dietro l'altra; il tempo volava;
erano già quasi le nove e mezzo. "Ecco, ormai sono già le nove e
mezzo" pensava Goljadkin, "e arriverei in ritardo. E poi, oltre a
tutto, sono malato; malato, si capisce, senz'altro malato; e chi potrebbe dire
che non lo sono? che me ne importa! Mandino pure a verificare, venga pure
l'usciere; che me ne importa, in realtà? Ho mal di schiena, ho la tosse, sono
raffreddato; no, in conclusione, non posso andare, con questo tempo, e poi, non
è assolutamente possibile; posso ammalarmi, e poi magari morire; in questi
momenti c'è una tale mortalità...". Con questi ragionamenti Goljadkin
tranquillizzò del tutto la sua coscienza e si giustificò anticipatamente di
fronte a se stesso per la lavata di capo che gli avrebbe rifilato Andréj
Filìppovic' per negligenza nel servizio. In genere, in tutte le circostanze
simili, il nostro eroe amava giustificarsi ai propri occhi con vari
inappuntabili argomenti e calmare così i suoi scrupoli. Così ora, calmatili del
tutto, prese la pipa, la riempì e non appena si fu messo a fare proprio per
benino la sua fumata, ecco che si alzò di scatto dal divano, sbatté via la
pipa, si lavò energicamente, si rase, si lisciò i capelli, si infilò la divisa
e tutto il resto e andò volando al dicastero.
Goljadkin entrò mogio mogio nel suo reparto, nella
trepidante attesa di qualcosa di molto poco bello; attesa vaga e inconscia
quanto si vuole, ma lo stesso sgradevole; mogio mogio, prese il suo solito
posto vicino al capufficio, Antòn Antònovic' Setoc'kin.
Senza guardare niente, senza lasciarsi distrarre da
niente, si mise a esaminare il contenuto delle carte che gli stavano davanti.
Decise e si ripromise fermamente di tenersi il più possibile
in disparte da tutto quello che potesse provocarlo, da tutto quello che avrebbe
potuto comprometterlo; per esempio, dalle domande indiscrete, dagli scherzi o
dalle allusioni sconvenienti di qualcuno a proposito degli eventi della sera
prima; si ripromise perfino di fare a meno delle solite cortesie con i colleghi
d'ufficio, come domande sulla salute eccetera eccetera. Ma era anche evidente
che non poteva restarsene così; era impossibile.
L'inquietudine e l'ignoranza a proposito di un qualche
argomento che lo interessasse da vicino lo tormentavano sempre più che
l'argomento stesso. E ecco perché, nonostante la parola data di non
intromettersi in niente, qualsiasi cosa si facesse, e di tenersi completamente
in disparte in tutto, Goljadkin di tanto in tanto, di nascosto, alzava pian
piano la testa e di sottecchi guardava a destra e a sinistra, scrutava i visi
dei colleghi e da quelli si sforzava di capire se non ci fosse per caso
qualcosa di speciale che lo riguardasse e che, per non so quale riprovevole
scopo, gli fosse tenuta nascosto. Immaginava che esistesse un sicurissimo
legame tra tutti gli avvenimenti della sera precedente e quello che si svolgeva
ora intorno a lui. Finalmente, spinto dalla sua angoscia, cominciò a desiderare
che tutto si risolvesse nel modo che Iddio voleva, ma purché fosse presto,
anche con un guaio: pazienza! Ma fu proprio qui che il destino colse Goljadkin:
non aveva avuto tempo di dare concretezza al suo
desiderio che i suoi dubbi furono improvvisamente risolti, ma in modo molto
strano e impensato.
La porta che dava nell'altra stanza di colpo
scricchiolò con dolce timidezza, come per avvertire che la persona che stava
per entrare era una qualsiasi, e una certa figura, del resto ben conosciuta a
Goljadkin, apparve timidamente proprio davanti al tavolo dietro al quale stava
seduto il nostro eroe. Lui non sollevò la testa, no; osservò quella figura solo
di sfuggita, col più rapido dei suoi sguardi, ma ormai aveva riconosciuto
tutto, capito tutto, fin nei minimi particolari. Si sentì avvampare per la
vergogna e sprofondò tra le carte quella sua malcapitata testa, con lo stesso
preciso scopo con cui lo struzzo, inseguito dal cacciatore, nasconde la sua
nella sabbia infuocata. Il nuovo venuto si inchinò ad Andréj Filìppovic' e
subito dopo risuonò una voce formalmente affettuosa, quella tipica voce con cui
i superiori di tutti gli uffici parlano ai dipendenti da poco in servizio.
"Sedetevi qui" disse Andréj Filìppovic', indicando
al novellino il tavolo di Antòn Antònovic', "ecco, qui, di fronte al
signor Goljadkin, vi daremo subito del lavoro da sbrigare." Andréj
Filìppovic' concluse il discorsetto con un rapido gesto di cortese esortazione
al nuovo venuto, poi subito si immerse nel contenuto di diverse carte che
stavano in un mucchio davanti a lui.
Goljadkin alzò finalmente gli occhi e se non fu preso
da uno svenimento lo si dovette solo al fatto che, fin dall'inizio, aveva
presagito tutta la faccenda, fin dall'inizio era stato preavvertito di tutto,
avendo letto nell'anima del nuovo venuto.
Il primo gesto di Goljadkin fu di dare una rapida
occhiata intorno, se non ci fosse lì qualche pissi pissi, se non cominciasse a
circolare a quel proposito qualche barzelletta di cancelleria, se qualche viso
non si fosse sformato per lo stupore e se qualcuno, per lo spavento, non fosse
caduto sotto il tavolo.
Ma, con la più grande meraviglia di Goljadkin, in
nessuno ci fu niente di simile. Il comportamento dei signori colleghi e compagni
colpì Goljadkin. Gli sembrava che questo contegno fosse al di là di ogni senso
comune. Goljadkin addirittura si spaventò di un silenzio così fuori dal
normale. La sostanza dei fatti parlava da sola: era una cosa strana, assurda,
mostruosa. C'era proprio di che agitarsi. Tutte cose, queste, si capisce, che
frullarono soltanto nella testa di Goljadkin. Cuoceva a fuoco lento. E ce n'era
ben donde, del resto. Colui che adesso stava seduto di fronte a Goljadkin era
il terrore di Goljadkin, era la vergogna di Goljadkin, era l'ossessione di ieri
di Goljadkin, era, in una parola, lo stesso Goljadkin; ma non quel Goljadkin
che stava ora seduto sulla sedia con la bocca spalancata e con la penna rigida
in mano; non quello che era impiegato in qualità di aiuto del proprio
capufficio; non quello a cui piaceva scomparire e dileguarsi tra la folla; non
quello, infine, la cui andatura diceva a chiare note "non toccatemi, io
non vi toccherò", oppure "non toccatemi, vedete bene che io non vi
tocco". No, questo era un altro Goljadkin, assolutamente un altro, ma
nello stesso tempo identico al primo: la stessa statura, la stessa figura,
vestito allo stesso modo, con la stessa calvizie; in una parola, niente,
assolutamente niente era stato trascurato per avere una somiglianza perfetta,
tanto che, se si fossero presi e messi uno accanto all'altro, nessuno,
letteralmente nessuno, avrebbe osato dire chi fosse realmente l'autentico
Goljadkin e chi il falso, quale il vecchio e quale il nuovo, quale l'originale
e quale la copia.
Il nostro eroe, se è consentito un paragone, si
trovava ora nella condizione di un uomo alle cui spalle un monello si è
divertito a puntargli contro, per scherzo, uno specchio ustorio. "Ma che è
questo, un sogno o no?" pensava, "è il presente o la continuazione del
passato di ieri? Ma come mai? Con quale diritto si fanno queste cose? Chi ha
assunto un simile impiegato, chi ha dato il diritto di farlo?". Goljadkin
provò a darsi un pizzicotto, provò a pensare persino a darlo a un altro... No,
non era un sogno, e basta. Goljadkin si sentiva madido di sudore, sentiva che
gli stava capitando un fatto senza precedenti, mai visto fino ad allora, e per
questo, appunto, per colmo di sventura, anche sconveniente, poiché Goljadkin
capiva perfettamente tutto il discapito che gli derivava dal trovarsi, come
primo esempio, in un così buffo pasticcio. Infine cominciò addirittura a
dubitare della propria esistenza e, pur essendo in anticipo pronto a tutto e
desideroso che si risolvessero, in qualunque modo, i suoi dubbi, tuttavia la
sostanza stessa del fatto rendeva di per sé naturalmente plausibile la
sorpresa. L'angoscia lo opprimeva e lo tormentava. In certi momenti perdeva
addirittura il senno e la memoria. Rientrato in sé dopo uno di quei momenti, si
accorse che, in modo meccanico e incosciente, faceva scorrere la penna sulla
carta. Non fidandosi di se stesso, cominciava a ripassare tutto quello che
aveva scritto, e non ci capiva niente. Finalmente l'altro Goljadkin, che fino a
quel momento era rimasto tranquillamente seduto, si alzò e, attraverso la porta
che conduceva in un'altra sezione, scomparve per fare qualche faccenda.
Goljadkin si guardò intorno: niente; tutto tranquillo.
Si sentiva soltanto lo scricchiolio delle penne, il
fruscio dei fogli girati e il parlottare negli angoli più lontani dal punto in
cui sedeva Andréj Filìppovic'. Goljadkin guardò Antòn Antònovic' e, poiché
molto probabilmente l'aspetto del nostro eroe corrispondeva perfettamente alla
sua situazione e si armonizzava con tutto il senso della faccenda e, di
conseguenza, pareva sotto certi aspetti piuttosto fuori dell'ordinario, il buon
Antòn Antònovic,' posata la penna da una parte, si informò con insolito interesse
della salute di Goljadkin.
"Io, Antòn Antònovic', grazie a Dio..."
disse, inciampando, Goljadkin. "Io, Antòn Antònovic', sto perfettamente
bene; io, Antòn Antònovic', al presente non c'è male" aggiunse un po'
indeciso, non fidandosi ancora del tutto del più volte da lui menzionato Antòn
Antònovic'.
"Ah! mi sembrava che foste un po' indisposto; del
resto non ci sarebbe niente di straordinario, ma speriamo di no! In questi
tempi ci sono sempre tante epidemie... Sapete che..." "Sì, Antòn
Antònovic', conosco l'esistenza di queste epidemie...
Io, Antòn Antònovic', non è che..." proseguì
Goljadkin, fissando lo sguardo su Antòn Antònovic', "io, vedete, Antòn
Antònovic', non so neppure come voi, voglio dire, cioè, da quale lato voi
dobbiate prendere questa faccenda, Antòn Antònovic'..." "Che cosa? Io
vi... sapete... io confesso che non vi capisco bene; voi... sapete, voi...
spiegatemi meglio sotto che punto di vista vi trovate imbarazzato" disse
Antòn Antònovic', sentendosi a sua volta un po' imbarazzato nel vedere che
Goljadkin aveva persino le lacrime agli occhi.
"Io, davvero... qui, Antòn Antònovic'... qui c'è
un impiegato, Antòn Antònovic'..." "Su, su... Continuo a non
capire." "Voglio dire, Antòn Antònovic', che
qui c'è un nuovo impiegato." "Sì, c'è: è un vostro omonimo."
"Come?" grida Goljadkin.
"Un vostro omonimo, dico: si chiama anche lui
Goljadkin. Non è per caso vostro fratello?" "Non ne ho fratelli,
Antòn Antònovic'." "Uhm! Ma che dite? Mi era sembrato che fosse un
vostro stretto parente. Sapete, c'è una tale somiglianza..." Goljadkin
rimase paralizzato dallo stupore e per un po' la lingua gli si bloccò. Trattare
così alla buona una cosa così mostruosa, mai vista, una cosa veramente rara nel
suo genere, una cosa che avrebbe colpito anche il più disinteressato degli
osservatori, parlare di una semplice somiglianza, mentre era proprio come avere
davanti uno specchio!
"Sapete che cosa vi consiglio, Jakòv
Petrovic'?" prosegui Antòn Antònovic'. "Andate da un medico e sentite
il suo parere. Voi avete una cert'aria proprio di non star bene. Specialmente
gli occhi... sapete, specialmente gli occhi hanno un'espressione
particolare." "No, Antòn Antònovic', io, certamente, sento... cioè,
io vorrei chiedervi, come mai quest'impiegato?" "Cioè?"
"Cioè, non avete, Antòn Antònovic', osservato in lui qualcosa di
particolare, un qualcosa di troppo espressivo?" "Cioè?"
"Cioè, io voglio dire, Antòn Antònovic', una somiglianza troppo accentuata
con qualcuno, per esempio con me. Proprio adesso, Antòn Antònovic', avete parlato
di una qualche somiglianza di tratti, avete fatto, così di sfuggita,
un'osservazione... Sapete che a volte i gemelli sono così, cioè perfettamente
uguali come due gocce d'acqua, tanto che è impossibile distinguerli? Bene,
proprio questo voglio dire." "Sissignore" disse Antòn
Antònovic', dopo aver riflettuto un po' e come se per la prima volta fosse
stato colpito da una simile osservazione. "Sissignore! Giustissimo. E' una
rassomiglianza che colpisce veramente e voi avete fatto un'osservazione giustissima,
poiché realmente vi si può scambiare l'uno per l'altro" continuò,
spalancando sempre più gli occhi. "E sapete, Jakòv Petrovic', è una
somiglianza prodigiosa, fantastica addirittura, come si dice talvolta, e cioè è
perfettamente come voi... L'avete notato? Jakòv Petrovic'? Io volevo chiedervi
spiegazioni, lo confesso, sulle prime non ci avevo fatto abbastanza caso. E' un
miracolo, un vero miracolo! Eppure, Jakòv Petrovic', voi non siete neppure
nativo di qui, dico io!" "No, signore." "E nemmeno lui, sapete,
è di qui. Forse delle vostre stesse parti.
Vostra madre, mi permetto di chiedervi, dove abitava
per lo più?" "Avete detto... avete detto, Antòn Antònovic', che lui
non è di qui?" "Sì, l'ho detto; non è di qui. E veramente come è
strano, anche questo!" proseguì il ciarliero Antòn Antònovic', per il
quale era una vera festa mettersi a cianciare di qualcosa. "In realtà è
una cosa che suscita curiosità; eppure, gli passi spesso vicino, lo sfiori, lo
urti, magari, ma non te ne accorgi. Del resto, non turbatevi. Sono cose che
capitano. Vi dirò, ecco, che la stessa cosa successe a una mia zia da parte di
madre; anche lei prima di morire vide il suo sosia..." "Nossignore,
io... Scusate se vi interrompo, Antòn Antònovic', io, Antòn Antònovic', volevo
sapere come mai quest'impiegato, cioè a quale titolo si trova qui..."
"Al posto del defunto Semjòn Ivànovic', posto rimasto vacante; era rimasto
un posto vuoto e così hanno messo lui. Ecco, vedete, quel caro Semjan
Ivànovic', buon'anima, tre bambini, dicono, ha lasciato... uno più piccolo
dell'altro. La vedova è caduta in ginocchio ai piedi di sua eccellenza. Dicono
però che i soldi li nasconda: ha del denaro, ma lo nasconde..."
"Nossignore, io, Antòn Antònovic', io, ecco, ancora di quella circostanza,
dicevo..." "Cioè? Ah, sì! Ma perché ve ne occupate tanto? Vi ripeto:
non turbatevi. Tutto ciò è in parte provvisorio. Ebbene? Voi siete fuori causa;
tutto ciò l'ha combinato Iddio in persona, è stata la sua volontà, e
lamentarsene è peccato. In questo è evidente la sua saggezza. E voi qui, Jakòv
Petrovic', a quanto capisco, non siete colpevole per niente. Ci sono forse
pochi prodigi al mondo? Madre natura è generosa; ma di questo non si chiederà
certo conto a voi, non dovrete risponderne voi. Ecco, per esempio, avete sentito
dire, spero, che quelli sì... ecco, i fratelli siamesi, sono attaccati insieme
per il dorso e vivono, mangiano e dormono sempre insieme: e guadagnano, dicono,
un mucchio di soldi." "Permettete, Antòn Antònovic'..." "Vi
capisco, vi capisco! Sì! Ma che c'è? Niente! Io dico, secondo il mio giudizio,
che qui non c'è niente che debba turbarvi.
Ebbene? È un impiegato come un altro e sembra che sia
un buon lavoratore. Dice che si chiama Goljadkin, non è di queste parti, dice,
e è consigliere titolare. Si è spiegato personalmente con sua eccellenza."
"Ah! E lui?" "Niente, signore; dicono che ha dato spiegazioni
esaurienti, che ha presentato delle buone ragioni. Ha detto: le cose,
eccellenza, sono così e così, beni di fortuna non ne ho e desidero prestare
servizio in particolare sotto la vostra lusinghiera direzione...
e, sapete, ha esposto con abilità tutto quanto
serviva. È un uomo intelligente, credo. Be', si capisce che si era presentato
con una raccomandazione: senza di quella, si sa, non è possibile..." "Ma
da parte di chi... voglio dire, cioè, chi propriamente si è immischiato in
questa vergognosa faccenda?" "Sissignore. Dicono che fosse una
raccomandazione buona: sua eccellenza, dicono, ne ha anche riso con Andréj
Filìppovic'." "Ne ha riso con Andréj Filìppovic'?"
"Sissignore; ha riso soltanto così... e ha detto che sta bene, e che lui
da parte sua non è
affatto contrario, purché presti servizio
fedelmente..." "Be'?... e poi... andate avanti, signore. Voi mi
ridate animo, Antòn Antònovic'; vi supplico, signore, andate avanti..."
"Permettete, io di nuovo vi... Be'! sì... Be', ma non c'è niente; è una
circostanza che non ha niente di straordinario: voi, vi dico, non turbatevi, in
tutto questo non si può trovare niente di misterioso." "Nossignore.
Io, cioè, voglio chiedervi, Antòn Antònovic', se sua eccellenza non ha aggiunto
altro... a proposito di me, per esempio?" "Cioè, come sarebbe a dire?
Sissignore! Be', no... niente; potete stare perfettamente tranquillo. Sapete,
naturalmente, si capisce, si tratta di un affare abbastanza strano e
all'inizio... ma ecco, io, per esempio, all'inizio non ci avevo quasi fatto
caso. Non so proprio come mai non me ne sia accorto fino a che voi non me lo
avete fatto ricordare. Ma, del resto, potete stare perfettamente tranquillo.
Non ha detto niente, assolutamente niente di speciale" aggiunse il buon
Antòn Antònovic', alzandosi dalla sedia.
"Così, ecco, io, Antòn Antònovic'..."
"Ah, ma voi scusatemi, signore. Non ho fatto che ciarlare di quisquilie e
ecco che qui c'è un affare importante, urgente.
Bisogna prendere informazioni." "Antòn
Antònovic'!" risuonò la voce cortesemente invocante di Andréj Filìppovic'
"sua eccellenza vi desidera." "Subito, subito, Andréj
Filìppovic', vado immediatamente." E Antòn Antònovic', preso un mucchio di
carte, si precipitò prima verso Andréj Filìppovic', e poi nello studio di sua
eccellenza.
"Ma com'è dunque, questa storia?" pensava
intanto Goljadkin; "ecco che razza di giochetti si fanno qui da noi! Ecco
che venticello soffia da queste parti... Non c'è male: dunque, sembra che la
faccenda abbia preso una piega favorevolissima," diceva tra sé e sé il
nostro eroe, stropicciandosi le mani e, per la gran contentezza, senza nemmeno
sentire la sedia sotto di sé. "Così la nostra faccenda è una comunissima
faccenda. Così tutto finisce in un'inezia, si risolve in una cosa da niente. E
in verità nessuno dice niente, nessuno osa fiatare; i malandrini, se ne stanno
seduti, intenti agli affari loro. Benone, benissimo! Io voglio bene a una brava
persona, gliene ho sempre voluto e sono pronto a stimarla... D'altra parte,
però, c'è questo, che, a pensarci su, questo Antòn Antònovic'... ho quasi paura
a fidarmene: è un po' troppo bianco di capelli e mi sembra che la vecchiaia
l'abbia rimbambito alquanto... La cosa più importante, in ogni modo, e più
straordinaria è che sua eccellenza non abbia detto niente e che abbia lasciato
perdere: ottima cosa, questa! Non posso che applaudire! Soltanto quell'Andréj
Filìppovic', però, che c'entra qui con le sue risatine? Che gliene importa a
lui? Vecchio imbroglione! Ce l'ho sempre tra i piedi; cerca sempre di
attraversarti la strada come un gatto nero e continua con dispetti e ripicche,
dispetti e ripicche..." Goljadkin tornò a dare un'occhiata in giro e si
sentì rianimato dalla speranza. Però, continuava ad avere l'impressione che,
nonostante tutto, un pensiero lontano, un pensiero non buono, venisse a
turbarlo. Gli venne persino l'idea di avvicinarsi lui stesso agli impiegati con
una scusa o con l'altra, di anticiparli di corsa, come una lepre, e perfino (in
un modo qualunque o all'uscita dall'ufficio o avvicinandoli con qualche motivo
di servizio) tra una parola e l'altra accennare, così vagamente:
signori così e così... è veramente una rassomiglianza
stupefacente, una coincidenza stranissima, uno scherzaccio, addirittura...
Ossia scherzarci sopra lui per primo e sondare così la profondità del pericolo.
"Perché si sa che è l'acqua cheta che rovina i ponti..." concluse
mentalmente il nostro eroe.
Del resto, tutto questo il nostro eroe lo pensò
soltanto: in compenso cambiò idea presto. Capiva che quello avrebbe significato
mettere il carro davanti ai buoi... "Il tuo temperamento è questo!"
si diceva, battendosi un colpetto sulla fronte con la mano, "cominci subito
a rallegrarti... sei già tutto contento! Sei un'anima troppo ingenua! No, Jakòv
Petrovic', è molto meglio che noi due abbiamo pazienza, è meglio che abbiamo
pazienza e aspettiamo!" Ciononostante, come si è appena detto, Goljadkin
si sentiva già rinascere alla speranza, quasi fosse risuscitato alla vita.
"Non c'è male!" pensava, "mi sento proprio come se mi fossi
scaricato dalla schiena otto o dieci quintali! Ma, vedi un po' che
combinazione! 'Eppure lo scrigno si apriva tanto facilmente!'(1) Krylòv ha ragione,
ha proprio ragione, se ne intende... è una testa fina quel grande scrittore di
favole! E in quanto a quello là, presti pure il suo servizio, lo presti pure,
alla sua salute!
purché non imbrogli nessuno e non rompa l'anima a
nessuno; faccia il suo servizio e io sono d'accordo, e approvo!" Intanto
le ore passavano, volavano e, mentre meno te lo aspettavi, suonarono le
quattro. L'ufficio fu chiuso; Andréj Filìppovic' prese il cappello e, come si
conviene, tutti seguirono il suo esempio. Il signor Goljadkin si trattenne
ancora un po', giusto giusto il tempo necessario, e volutamente uscì dopo tutti
gli altri, proprio per ultimo, quando tutti si erano sparpagliati per diverse
direzioni. Uscito in strada, si sentì come in paradiso, tanto che sentì persino
il desiderio di fare un giretto e di passare per il Nevskij. "Guarda un
po' il destino!" pensava il nostro eroe. "Un inatteso capovolgimento
di tutto quanto. Il tempo si è rasserenato, c'è il gelo e appaiono le slitte. E
il gelo si addice veramente al russo, col gelo il russo va perfettamente
d'accordo! Mi piace l'uomo russo. E c'è anche un po' di neve, la prima
infarinatura, come direbbe un cacciatore; ecco, se su questa infarinatura ci
fosse una lepre!... Che peccato! Ma, però, non c'è
male!" Così si manifestava l'entusiasmo di Goljadkin e intanto qualcosa
continuava a frullargli per la testa: angoscia, no, non era... ma a tratti
sentiva una tale stretta al cuore da non sapere come confortarsi. "Del
resto, aspettiamo un giorno, e poi ci rallegreremo. Infine, che cos'è questo?
Suvvia, ragioniamo, vediamo... Su, mio giovane amico, lasciamo ragionare...
lasciamo ragionare! Be', è un uomo come te, prima di tutto, assolutamente come
te. E dunque? se c'è un uomo così, è forse una ragione perché io pianga? Che
importa a me? Io me ne sto in disparte; io faccio un fischio e basta! È così e
basta! Faccia pure il suo servizio, lui! Be', è un prodigio e una stranezza,
dicono là, come i fratelli siamesi... Ma perché, poi, siamesi? Loro sono
gemelli, poniamo, ma anche i grandi uomini a volte erano presi per originali.
Anche la storia ci insegna che al famoso Suvarov piaceva rifare il verso del
gallo... Be', tutto questo lo faceva per politica; e i grandi condottieri...
sì, del resto, perché i condottieri? Ecco, io me ne sto per conto mio, e basta,
e non voglio conoscere nessuno, e nella mia innocenza disprezzo i nemici. Non
sono un intrigante e di questo ne vado orgoglioso.
Sono onesto, retto, pulito, cortese e mitissimo di
animo..." Di colpo Goljadkin si fermò e cominciò a tremare come una foglia
e per un momento chiuse perfino gli occhi. Nella speranza, però, che l'oggetto
della sua paura fosse una semplice illusione, li riaprì infine e timidamente
lanciò una rapida occhiata alla sua destra.
No, non era un'illusione! A fianco a lui sgambettava
il suo conoscente del mattino, sorrideva, lo guardava in viso e sembrava in
attesa dell'occasione buona per attaccare discorso. Il discorso però non
veniva. Percorsero entrambi, così, una cinquantina di passi. Tutti gli sforzi
di Goljadkin erano rivolti a intabarrarsi il più possibile, nascondendosi nel
pastrano e calzando il cappello sugli occhi, fino al massimo possibile. Per
colmo di offesa, il pastrano e il cappello dell'amico erano proprio identici ai
suoi, come se fossero stati tolti di dosso a Goljadkin in quel preciso istante.
"Egregio signore" disse finalmente il nostro
eroe, facendo uno sforzo per parlare a voce bassa e senza guardare il suo
amico, "mi pare che noi andiamo per strade diverse... ne sono addirittura
sicuro" disse, dopo una pausa. "Infine sono certo che mi avete
compreso perfettamente..." aggiunse con voce abbastanza severa, come
conclusione.
"Io vorrei" disse finalmente l'amico di
Goliadkin, "io vorrei...
voi certamente mi scuserete, generosamente... io non
so a chi rivolgermi qui... le mie circostanze... io spero che voi scuserete la
mia audacia... ho avuto persino l'impressione che voi, stamattina, spinto dalla
compassione, aveste un po' d'interesse per me. Da parte mia, ho sentito fin dal
primo sguardo un'attrazione verso di voi, io..." E qui Goljadkin augurò
mentalmente al nuovo collega di sparire sotto terra.
"Se osassi sperare che voi, Jakòv Petrovic', mi
voleste benignamente ascoltare..." "Ma noi... noi qui... noi...
sarebbe meglio andare a casa mia" rispose il nostro Goljadkin, "noi
ora passeremo dall'altra parte del Nevskij, là ci troveremo più comodi e poi
per il vicolo... è meglio che prendiamo per il vicolo." "Bene,
signore. Prendiamo pure per il vicolo" disse timidamente il dolce compagno
di strada di Goljadkin, come se, rispondendo con quel tono, volesse far capire
che lui, manco a pensarlo! non poteva fare delle difflcoltà e che, nella
condizione in cui si trovava, era prontissimo a accontentarsi di un vicolo. Per
ciò che riguarda Goljadkin, non capiva assolutamente quello che gli stava
capitando. Non credeva a se stesso. Non si era ancora ripreso dallo
sbalordimento.
NOTE:
(1) Verso di Ivan Krylòv (1768-1864), famosissimo
autore di favole.
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Fëdor Michajlovič
Dostoevskij
Andrea Giostra