a cura di Andrea Giostra - In copertina: Diego Rodriguez de Silva y Velàzquez (Siviglia 1599 - Madrid 1660), “Venere allo specchio”, 1615, cm. 122,5x175, olio su tela.
IL SOSIA | Poema pietroburghese
Capitolo 5°.
A tutte le torri di
Pietroburgo che segnano e battono le ore stava scoccando la mezzanotte, quando
Goljadkin si precipitò come un pazzo sul lungofiume della Fontanka (uno dei
bracci della Neva), proprio vicino al ponte Izmajlovskij, per sfuggire ai nemici,
ai persecutori, alla grandine dei colpetti che gli piovevano addosso, alle
grida delle vecchiette impaurite, alle esclamazioni e ai gemiti delle donne e
agli sguardi micidiali di Andréj Filìppovic'.
Goljadkin era
annichilito, sì, annichilito, nel vero senso della parola, e se in quel momento
aveva conservato ancora la forza di correre, si trattava di un miracolo, solo
di un miracolo, al quale lui stesso, alla fin fine, si rifiutava di credere. La
notte era orribile, una notte di novembre umida, nebbiosa, piovosa, nevosa,
piena di congestioni, di raffreddori, di angine, di febbri di ogni specie e
qualità possibili: a farla breve, di tutti i regali che elargisce il novembre
pietroburghese! Il vento urlava nelle strade desolate, sollevando l'acqua scura
della Fontanka fin sopra le catene del ponte e sfiorando minaccioso i sottili
lampioni del lungofiume, che a loro volta rispondevano ai suoi ululati con
scricchiolii acuti e penetranti, il che costituiva un concerto infinito di
stridii e tremolii, ben conosciuto a tutti gli abitanti di Pietroburgo. La
pioggia cadeva mista a neve, violente spruzzate di acqua lacerate dal vento
schizzavano quasi in orizzontale, come da una pompa antincendio, e pungevano e
frustavano il viso dell'infelice Goljadkin, con la forza di migliaia di spilli
e forcine. Nel silenzio della notte, rotto soltanto dal rumoreggiare lontano
delle carrozze, dall'ululato del vento e dallo scricchiolio dei lampioni, si
sentivano tristemente risuonare le sferzate e il ribollire dell'acqua che
scrosciava dai tetti, dai terrazzini, dalle grondaie e dai cornicioni sul
granito dei marciapiedi. Non c'era anima viva né vicina né lontana, e sembrava
impossibile che ce ne potessero essere, a quell'ora e con quel tempo. Soltanto
Goljadkin, solo con la sua disperazione, trotterellava in quel momento sul
marciapiede lungo la Fontanka coi suoi soliti passetti fitti e rapidi,
affrettandosi per arrivare al più presto possibile nella sua via delle Sei
Botteghe, al suo quarto piano, nel suo appartamentino.
Nonostante il fatto
che la neve, la pioggia e tutto quello a cui non è neppure possibile dare un
nome quando dal cielo di Pietroburgo precipitano tormente e bufere,
assaltassero tutte insieme l'infelice Goljadkin - già completamente a terra
senza bisogno di questo - senza dargli un attimo di respiro e di riposo,
entrandogli fino al midollo, accecandolo, soffiandogli addosso violentemente da
tutte le parti, facendogli perdere la strada e l'ultima briciola di senno;
nonostante che tutto ciò si fosse abbattuto in un solo colpo su Goljadkin, come
per un comune accordo coi suoi nemici, per premiarlo con una giornatina, una
seratina e una notte... proprio speciali; nonostante tutto questo, dico,
Goljadkin, tanto forte era stato il colpo e lo smarrimento patiti per quello che
gli era successo poco prima in casa del consigliere di stato Bernadeiev, rimase
quasi insensibile a quest'ultima mazzata del destino! Se in quel momento un
qualunque osservatore estraneo, del tutto disinteressato, avesse dato
un'occhiata, così, di sfuggita, all'andatura depressa di Goljadkin, sarebbe
stato anche lui colpito dallo spaventoso orrore delle sue sventure e avrebbe
certamente detto che Goljadkin si guardava attorno come se volesse nascondersi
da qualche parte a se stesso e, lontano da se stesso, come se cercasse di
fuggire chissà dove... Sì! Era proprio così. Diremo di più: Goljadkin non
soltanto desiderava fuggire da se stesso, ma addirittura annientarsi, non
esistere più, polverizzarsi. In quei momenti non faceva attenzione a quello che
lo circondava, non capiva niente di ciò che stava capitando intorno a lui, e
guardava con un'aria come se per lui non esistessero né le avversità di quella
notte tempestosa né il lungo cammino né la pioggia né la neve né il vento né
tutte quelle tremende intemperie. Un copriscarpa, staccatasi dallo stivale
destro di Goljadkin, rimase abbandonata tra il fango e la neve del marciapiede
lungo la Fontanka, e a Goljadkin non passò nemmeno per il cervello di tornare
indietro a riprenderla e direi che non si era nemmeno accorto di averla persa.
Era così preso dai suoi pensieri, che parecchie volte, d'improvviso, nonostante
quel po' po' d'inferno che gli si scatenava intorno, tutto preso dall'idea
della sua terribile, recente caduta, rimase fermo, immobile come un palo in mezzo
al marciapiede; in quei momenti si sentiva mancare, svanire; ma poi, di colpo,
scattava come un pazzo e si metteva a correre senza girarsi indietro, come per
cercare scampo da un inseguimento, da qualche sventura ancora più orribile...
E, in realtà, orribile era la condizione in cui si trovava. Infine, stremato,
Goljadkin si fermò, si appoggiò al parapetto del lungofiume, come quando a un
uomo improvvisamente esca sangue dal naso, e rimase immobile, con lo sguardo
fisso all'acqua nera e torbida della Fontanka. Non si sa quanto tempo di
preciso passasse in quella posizione. Si sa solo che in quei momenti Goljadkin
era giunto a un così alto grado di disperazione, si sentiva così tormentato,
così sfinito, era così allo stremo dei suoi ormai deboli brandelli di forza
d'animo, che dimenticò ogni cosa, e il ponte Izmajlovskij, e la via delle Sei
Botteghe e la sua condizione attuale... E che poteva fare, in realtà? Tutto,
ormai, gli era indifferente; tutto era ormai fatto, concluso, controfirmato e
sigillato; che gli importava? Ma all'improvviso... all'improvviso ebbe un
sussulto in tutto il corpo e, senza volerlo, fece di slancio due passi da una
parte.
Con inspiegabile
agitazione cominciò a girare lo sguardo intorno: ma non c'era nessuno, non
succedeva niente di particolare, eppure... eppure... aveva l'impressione che
qualcuno, in quel preciso istante, fosse lì dritto vicino a lui, al suo fianco,
appoggiato come lui al parapetto del lungofiume e, miracolo! gli avesse anche
detto qualcosa, gli avesse detto qualcosa in fretta, a scatti, qualcosa di non
perfettamente comprensibile, ma qualcosa che lo riguardava molto da vicino, che
si riferiva a lui. "Che sia stata solo un'impressione?" disse
Goljadkin, continuando a guardarsi intorno. "Ma dove sono mai? Eh... Eh..."
concluse, scuotendo la testa, e intanto, con una sensazione inquieta e
angosciosa, direi anche di terrore, cominciò a scrutare in lontananza
attraverso l'aria torbida e trasudante, aguzzando gli occhi e cercando con
tutta la forza di penetrare col suo sguardo miope in quell'acquosità che gli si
stendeva davanti. Niente di nuovo però, niente di speciale saltò agli occhi di
Goljadkin.
Sembrava che tutto
fosse in ordine, come doveva; la neve cadeva più fitta, più densa e con più
intensità di prima; a una distanza di venti passi era buio pesto: i lampioni
scricchiolavano più forte e il vento sembrava cantare con un tono più lamentoso
e più dolente la sua triste canzone, simile a un mendicante fastidioso che chiede
supplichevolmente un soldino di rame per poter mangiare. "Eh, eh, ma che
mi sta succedendo?" ripeté Goljadkin nel riprendere il cammino e
continuando a guardarsi intorno. Intanto una nuova strana sensazione lo
attraversò tutto; angoscia non era, paura nemmeno... un brivido di febbre gli
corse nelle vene. Fu un momento insopportabilmente sgradevole! "Be', non è
niente" esclamò, tanto per farsi coraggio, "non è niente, forse non è
proprio niente e non macchia l'onore di nessuno. Forse doveva proprio essere
così" continuò senza neppure capire cosa dicesse, " forse tutto
questo si aggiusterà per il meglio quando sarà tempo e non ci saranno pretese
da avanzare e tutti saranno giustificati." Così parlando e rinfrancandosi
per effetto delle sue stesse parole, Goljadkin si scosse, si scrollò di dosso i
fiocchi di neve, che gli si erano ammonticchiati densi e fitti sul cappello,
sul bavero, sul cappotto e sulla cravatta, sugli stivali e su tutto il resto:
ma non riusciva ancora a liberarsi da quella strana sensazione, da quella
strana oscura angoscia, non riusciva a scacciarsi tutto questo di dosso. In
qualche posto lontano, risuonò un colpo di cannone. "Che razza di bel
tempo!" pensò il nostro eroe. "Be', non ci sarà mica pure
l'inondazione? L'acqua, si vede, è salita con troppa rapidità." Goljadkin
aveva appena finito di pensare e di mormorare questo, che vide venirgli
incontro un passante che probabilmente si era, come lui, attardato per qualche
motivo. Il fatto sembrava banale, casuale; ma, non si sa perché, Goljadkin si
turbò e direi quasi si spaventò e sentì un certo smarrimento. Non che temesse
l'incontro con qualche malintenzionato, ma così... forse... "E chi lo
conosce, questo ritardatario..." passò per la testa a Goljadkin.
"Forse fa parte
anche lui di tutto il resto, forse qui è la cosa più importante e non viene qui
per caso, ma con qualche scopo mi attraversa e mi dà uno spintone." Forse,
però, Goljadkin non pensò esattamente a questo, ma è certo che sentì subito
qualcosa di simile e di molto sgradevole. D'altronde, non gli restò più tempo
né di sentire né di pensare: il passante si trovava già a pochi passi da lui.
Goljadkin, secondo la sua abitudine di sempre, si affrettò ad assumere un'aria
del tutto particolare, un'aria che dava chiaramente a vedere che lui,
Goljadkin, se ne stava per conto suo, che non faceva niente, che la strada era
abbastanza larga per tutti e che lui, Goljadkin, da parte sua, non toccava
nessuno. All'improvviso si fermò, come inchiodato a terra, come colpito dal
fulmine, poi velocemente si girò verso l'individuo che lo aveva appena
sorpassato, come se qualcosa lo avesse tirato per le spalle, come se il vento
gli avesse fatto fare un giro a mo' di banderuola. Il passante andava
rapidamente scomparendo nella bufera di neve. Anche lui camminava di fretta e
anche lui, come Goljadkin, era imbaccuccato dalla testa ai piedi, e anche lui
tirava dritto sgambettando sul marciapiede lungo la Fontanka a passetti rapidi
e fitti, quasi al piccolo trotto. "Chi è costui, chi è?" mormorò
Goljadkin, sorridendo incredulo, e nello stesso tempo sussultando in tutto il
corpo. Un brivido gelato gli era corso per la schiena. Intanto il passante era
scomparso del tutto e non si sentiva nemmeno più il rumore dei passi; ma
Goljadkin continuava a restare fermo e a guardare nel punto in cui quello era
sparito. Finalmente, a poco a poco, si riprese. "Ma che diavolo mi
succede?" pensò con stizza.
"Che io sia
veramente impazzito o che altro?" poi si girò e riprese la sua strada,
accelerando e intensificando sempre più l'andatura e facendo il possibile per
non pensare a niente. E per questo chiuse persino gli occhi.
All'improvviso, tra
l'ululare del vento e l'imperversare del tempaccio, arrivò di nuovo al suo
orecchio il rumore di passi di qualcuno che camminava molto vicino a lui.
Sussultò e aprì gli occhi. Davanti a lui, a una ventina di metri di distanza,
nereggiava di nuovo un certo omino che gli si stava avvicinando...
L'omino aveva fretta,
accelerava il ritmo, correva, quasi: la distanza diminuiva rapidamente.
Goljadkin poteva già vedere benissimo il suo nuovo compagno ritardatario; lo
guardò e gli sfuggì un grido di stupore e di paura: sentì che le gambe gli si
piegavano. Era quello stesso passante da lui già notato, che dieci minuti prima
lo aveva sorpassato e che ora, inaspettatamente, gli appariva di nuovo davanti.
Ma non soltanto questo miracolo aveva colpito Goljadkin; e Goljadkin ne fu
colpito tanto che si fermò, gli scappò un grido, volle dire qualcosa e si
lanciò all'inseguimento dello sconosciuto, gli urlò perfino qualcosa, volendo,
probabilmente, fermarlo al più presto. E in realtà lo sconosciuto si fermò a
circa una decina di passi da Goljadkin, in maniera che la luce del lampione lì
vicino illuminava perfettamente tutta la sua persona: si fermò, si girò verso
Goliadkin e, con aria impaziente e preoccupata, aspettò che parlasse.
"Scusate, ma
forse mi sono sbagliato" disse il nostro eroe con voce tremante.
Lo sconosciuto, senza
dire una parola, con un gesto pieno di stizza, gli girò le spalle e proseguì
rapidamente per la sua strada, quasi avesse fretta di riguadagnare i due
secondi persi con Goljadkin. Per quanto riguardava Goljadkin, sentì un tremito
guizzargli nelle vene, le ginocchia gli si piegarono sotto, perdettero ogni
forza, e con un gemito si lasciò cadere su un paracarro. Del resto, c'era
davvero motivo di rimanere così sconcertato. Il fatto è che quello sconosciuto
ora non gli sembrava più tale. Ma questo non sarebbe stato ancora niente. Il
fatto è che ora aveva riconosciuto, aveva quasi completamente riconosciuto
quell'uomo. L'aveva visto spesso, quell'uomo, l'aveva visto tempo prima e anche
molto di recente; ma dove? ieri forse?
Del resto, ciò che più
contava non era il fatto che Goljadkin l'avesse visto spesso (in quell'uomo,
d'altronde, non c'era quasi niente di particolare); decisamente niente di
particolare aveva quell'uomo per suscitare attenzione al primo sguardo. Era
così, un uomo come tutti, perbene, si capisce, come tutte le persone perbene, e
forse aveva anche alcuni meriti e anche abbastanza notevoli: in una parola, era
un uomo che se ne stava per conto suo. Goljadkin non sentiva né odio né
ostilità e nemmeno vedeva minimamente di mal'occhio quell'uomo; al contrario,
anzi, si direbbe; ma intanto (e proprio in questo il punto), intanto per nessun
tesoro al mondo avrebbe voluto incontrarsi con lui e tanto meno incontrarsi
così, come era successo adesso. Diremo di più:
Goljadkin riconosceva
perfettamente quell'uomo; sapeva perfino il suo nome e il suo cognome; ma
intanto proprio per niente, e, di nuovo, nemmeno per tutto l'oro del mondo
avrebbe voluto pronunciare il suo nome, ammettere di sapere, ecco, che si
chiamava così e così, e che così era il suo patronimico e così il suo cognome.
Se molto o poco fosse durata la perplessità di Goljadkin e se fosse rimasto
veramente a lungo seduto sul paracarro, non saprei dire, ma quello che posso
dire è che, ripresosi un po', si mise di colpo a correre, senza guardarsi
indietro, con tutte le sue forze; gli mancava il respiro, per due volte
inciampò, e fu lì lì per cadere e in questa circostanza rimase orfano anche
l'altro stivale di Goljadkin, pure quello abbandonato dal suo copriscarpe. Alla
fine Goljadkin rallentò un po' la corsa per riprendere fiato, si guardò
frettolosamente intorno e vide che, senza nemmeno accorgersene, aveva già
percorso tutta la strada lungo la Fontanka, aveva attraversato il ponte
Amickov, superato una parte del Nevskij e si trovava ora alla curva verso la
Litèjnaja. E lì girò Goljadkin.
La sua condizione in
quel momento assomigliava alla condizione dell'uomo in piedi su di un
precipizio spaventoso, mentre la terra si apre sotto di lui e già frana, già si
muove, trema per l'ultima volta, crolla, lo trascina nell'abisso, e intanto
l'infelice non ha più né la forza né la fermezza d'animo di fare un balzo
indietro, di distogliere gli occhi dal baratro spalancato; l'abisso lo attrae e
lui finalmente vi si slancia, affrettando da se stesso il momento della sua
rovina. Goljadkin sapeva, sentiva e era matematicamente certo che qualche altro
malanno gli sarebbe capitato per strada, che qualche altra contrarietà gli
sarebbe piombata addosso, che, per esempio, avrebbe di nuovo incontrato lo
sconosciuto; ma, cosa strana, lo desiderava perfino, quell'incontro, lo
riteneva ineluttabile e pregava soltanto che tutto ciò finisse al più presto,
che la sua posizione si chiarisse in un modo qualsiasi, purché fosse presto. E
intanto continuava a correre, a correre come spinto da non si sa quale forza
esterna, e sentiva in tutto il suo essere non so quale impressione di debolezza
e di torpore: non era capace di pensare a niente, anche se le sue idee, proprio
come prugnoli, si aggrappavano a ogni cosa. Un cagnolino randagio, tutto
bagnato e intirizzito, si era attaccato a Goljadkin e correva pure lui al suo
fianco, di lato, frettolosamente, con le orecchie basse e la coda tra le zampe
e lanciandogli di tanto in tanto occhiate timide e comprensive.
Un'idea lontana e
imprecisa, già da tempo dimenticata - il ricordo di non so quale avvenimento
già da tempo accaduto - gli tornò ora in mente, colpendogli la testa come un
martelletto, e lo infastidiva senza staccarsi da lui.
"Eh, che brutto
cagnaccio!" bisbigliava Goljadkin, senza nemmeno capirsi. Finalmente vide
il suo sconosciuto alla curva della via Italjànskaja. Ora, però, lo sconosciuto
non gli si dirigeva più incontro, ma camminava nella sua stessa direzione e
correva persino, sopravvanzandolo di pochi passi. Finalmente arrivarono in via
delle Sei Botteghe. Goljadkin si sentì mozzare il respiro. Lo sconosciuto si
fermò proprio davanti all'edificio in cui si trovava l'appartamento di
Goliadkin. Si sentì squillare un campanello e quasi nello stesso momento lo
stridere di un paletto di ferro. Il cancelletto si aprì, lo sconosciuto si
chinò, balenò e scomparve. Quasi nello stesso momento arrivò anche Goljadkin e
come una freccia volò sotto il portone. Senza dare retta al brontolio del
portiere si precipitò nel cortile dove vide immediatamente il suo interessante
compagno di strada, che per un momento aveva perso. Lo sconosciuto sfrecciò
nell'ingresso della scala che portava all'appartamento di Goljadkin, e ecco
Goljadkin lanciarsi sulle sue tracce. La scala era buia, umida, sudicia. Su
tutti i ballatoi erano accumulati mucchi di ciarpame di ogni genere di
proprietà degli inquilini, tanto che un estraneo, che, non pratico del luogo,
fosse capitato nell'oscurità in quella scala, sarebbe stato costretto a
aggirarcisi per mezz'ora, sempre rischiando di rompersi le gambe e maledicendo,
insieme con la scala, anche i suoi conoscenti andati ad abitare in posto così
scomodo. Ma il compagno di strada di Goljadkin sembrava fosse pratico del
posto, sembrava uno di casa: correva disinvolto, senza inciampare, e dimostrava
una perfetta conoscenza dell'ambiente.
Goljadkin stava già
per raggiungerlo; anzi due o tre volte la falda del cappotto dello sconosciuto
gli aveva sbattuto sul naso.
Si sentiva il cuore
mancare. L'uomo misterioso si fermò proprio davanti alla porta
dell'appartamento di Goljadkin, bussò e (circostanza, del resto, che in un
altro momento avrebbe meravigliato Goljadkin) Petruska, come se fosse rimasto
lì in attesa e senza neppure coricarsi, aprì immediatamente la porta e seguì
con la candela in mano lo sconosciuto che era entrato. Il nostro eroe, fuori di
sé, si precipitò in casa sua; trascurando di togliersi cappotto e cappello,
percorse il piccolo corridoio e, come colpito dal fulmine, rimase sulla soglia
della propria camera. Tutti i presentimenti di Goljadkin si erano avverati alla
perfezione. Tutto quello che lui temeva e aveva previsto, si era avverato. Il
respiro gli mancò e la testa cominciò a girargli. Lo sconosciuto era seduto
davanti a lui, anch'egli in cappotto e cappello, sul suo letto, sorrideva
lievemente e, strizzando gli occhi, accennava amichevolmente col capo.
Goljadkin voleva gridare, ma non poté; voleva protestare in un modo qualsiasi,
ma non ne ebbe la forza. I capelli gli si drizzarono sulla fronte e, preso dal
terrore, si abbandonò privo di sensi. E ce n'era veramente motivo. Goljadkin
aveva perfettamente riconosciuto il suo amico della notte. L'amico della notte
non era altri che lui stesso, Goljadkin, un altro Goljadkin assolutamente
identico a lui; era, in una parola, quello che si chiama il proprio sosia,
sotto tutti i profili...
Per leggere le puntate
precedenti, clicca qui:
Fëdor Michajlovič
Dostoevskij
Andrea Giostra