mi
appresto a scriverti cosa penso della tua opera “Mastr’Antria e altri racconti”.
Ho scelto un foglio perché ci sarebbe molto da dire o, diciamo pure che sono io
a volerti consegnare molto di quanto ho colto nelle tue pagine.
Ci sono
aspetti che mi hanno colpita più di altri e visto che mi hai chiesto di darti
un parere senza peli sullo stomaco, non mancherò di dirti anche di questi
ultimi, quelli che per me e in me, hanno funzionato meno.
Le tue
opere, i tuoi racconti, sono di una straordinaria potenza evocativa, oserei
dire, alla stregua di una scena pittorica o di una moderna sceneggiatura
cinematografica in cui le parole bastano da sole a comporre un‘armonica
sequenza di accadimenti e a trasferirli oltre la carta, la tela, lo
schermo. Anche là dove gli eventi più direttamente legati all’intreccio
narrativo sembrano non esserci o essere quantitativamente sacrificati
alla volontà di descrivere (a volte con insistenza e abbondanza, a volte con
una melanconica avarizia di dettagli), le scene “parlate” riempiono l’attesa di
chi ti legge. C’è una fortissima galvanizzazione degli oggetti e della Natura
(molti i riferimenti a nomi botanici di piante e fiori): le vie, le piazze, i
baretti dall’aria sopita, la Sicilia che si sveglia quando il sole è già caldo,
quasi vaporosa (sì, io la Sicilia me la ricordo così) e i siciliani che non possono
non fare un tuffo in mare prima di qualsiasi cosa al pari di fare all’amore o
fare colazione in piazza. Le tue scene sono tele di olio ovattate, tamponate,
proprie di un Macchiaiolo moderno.
Ti muovi
con estrema sapienza linguistica: mi ha colpito l’utilizzo degli aggettivi mai
banali ma di una semplicità ricercata, macchiaiola anche questa. E mi
colpisce poi l’astuzia narrativa che instauri col tuo racconto (e col lettore)
quella che si incontra in quasi tutti i racconti ovvero, si accenna ad un evento
lontano, ad un compagno di scuola del protagonista, ad un elemento fuori la
scena principale che viene riportato alla memoria presente, per poi farlo
scivolare via alla fine del racconto, insieme a tutto il resto, con una frase
di cerniera, la stessa che hai utilizzato qualche passaggio prima proprio
quando parlavi di questo oggetto che ha distratto la tua memoria, e la
nostra lettura. Finisce la scena, finisci di raccontare e il personaggio
finisce di ricordare e la frase del finale è capace di trascinarsi via tutto,
di ingoiare tutto quanto, come uno sgorgo di flussi di memoria, in una frase
-cerniera che appunto cicatrizza tutto quanto. La struttura circolare, che
ritorna sui passi iniziali, o addirittura che evoca un racconto – fuori – il
racconto (sembrano tutte legate tra loro...) è molto potente e ben riuscita.
È
riuscita anche sul piano emozionale: ci vedo molta melanconia, una melanconia
mai solamente del tutto triste, e mai solamente del tutto gaia.
PS: una
parentesi sull’uso del dialetto. Bellissimo... ma starei attenta a non
esagerare. In una frase ci sono troppi rimandi al dialetto e credo che non ce
ne sia bisogno se lo scopo è quello di rafforzare la sicilianità del “set”. Lo
userei con parsimonia soprattutto per evitare di inflazionare la sua energia:
meno ne usi, più sarà di effetto.
Quello
che invece devo confessare mi ha “disturbata” è oltre la scrittura.
Non
risiede dentro di essa ma è nel rapporto che si instaura tra
scrittore–lettore, o meglio, tra il racconto e l’affezione che aumenta (o
diminuisce) con quanto si legge. Man mano che avanzavo con la lettura qualcosa
si è rotto: mi sono cioè accorta di non essere il tuo lettore.
Mi pare
che la Sicilia di cui parli sia una trasposizione in chiave moderna, di quella
del Gattopardo, della “cerchia perfetta”, di coloro che abitano
la fetta giusta di questo mondo. Sembra che i tuoi personaggi abitino e si
muovano tutti nel palazzo Pietralunga, che si chiamino tutti Manfredi o
Tancredi, senza macchie, affettati, perfetti appunto.
Beati
loro! mi sono detta, che la loro vita sia questa: l’insistenza sulla
bellezza delle cose (non c’è una cosa che è alla portata di noi essere umani,
brutti e troppo normali) viventi e non viventi, le citazioni insistenti di brand,
mi sembrano conferire all’opera un voluto edonismo narcisistico da cui sono
esclusi alcuni topoi letterari particolarmente siciliani, e alcuni lettori.
A questo
si aggiunge una predilezione quasi voyeristica (conseguenza dell’edonismo), e
con un certo compiacimento, ai rapporti personali tanto effimeri quanto
innaturali.
Ecco: ad
un certo punto non mi sono più rivista, o ritrovata in questi spazi esclusivi
che non MI includono.
Questo
non fa di te un dilettante, al contrario: sei uno scrittore da fare
invidia...Ti ho invidiato!
Paola Milicia, scrittrice, lettrice,
laureata in lettere, vincitrice Premio Inedito 2019
Paola Milicia, Vincitrice Premio Inedito 2019
https://www.facebook.com/PremioInediTO/
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