a cura di Andrea Giostra -Nel sesto capitolo de “La luce negli occhi” … Haria ricorda il suo sangue drusco… e come crebbe tra i boschi allevata dall’amorevole madre che le insegnò tutti i segreti della sua arte di predire il futuro…
6° capitolo - 1653 d.C.
Ho ricordo del mio sangue drusco: Ottia L’Indovina fu crocifissa nei boschi
di Selvòla da Costantino il Piacente; Marvia la Folle fu impalata Cosimo il
Piccolo nella piazza di Tomba; Selvia l’Incantatrice fu torturata a morte da
Giovanni il Disperato nel cimitero di Volpara; Drusca la Veggente, mia madre,
fu arsa sul rogo di Porcile da Remigio il Galantuomo. Io, Haria la Strega,
fuggo inseguita da Giustizio il Giustiziere, il più spietato della stirpe dei
Signori di Anzol.
Mia madre predisse la peste anni prima che un bubbone apparisse sul logoro
costato di un soldato di ventura; nessuno le credette e fu cacciata da Anzol
come donna di malaugurio. Con me sulle sue spalle trovò rifugio nei boschi
delle Rocce Rotolate; erano rocce drusche, erano rocce sacre e mia madre ne fece la nostra dimora.
Presto conobbi tutti i passaggi fra le rocce, i
labirinti, ogni anfratto, ogni buco; perdermi e ritrovarmi fu il mio gioco
preferito di bambina guidata da un’intensa luce verde negli occhi. La notte,
presso il fuoco di legna di ginepro, mia madre mi raccontava di leggende,
storie di magia e conoscenza. Seppi di Haria sorella di un lupo, di Haria la
guerriera ribelle, di Haria la vendicatrice veggente. Haria: questo nome mi
ossessionava e mi attirava, era il mio nome. Mia madre sorrideva e il suo
sguardo entrava nei miei occhi e vi navigava. Crebbi libera e consapevole della
magica bellezza che mi circondava e appresi i segreti delle erbe.
Remigio il Galantuomo era un vecchio piegato da un’oscura e tenace
malinconia; il suo sguardo assente e il suo pensiero smarrito erano facile
preda di meschini e adulatori. Un numero crescente di bravi e tirapiedi prese a
circondarlo e ad irretirlo. Ignaro della canaglia che gli divorava le sostanze
e affollava il suo palazzo, tirò avanti la sua esistenza strascicata, finché
l’Inquisizione si impossessò della sua sorte: fu acclamato Paladino del Bene,
gli misero in mano una spada e in testa una corona dipinta e lui, coccolato
dalla vanità, cavalcò ebete e convinto l’ombra furiosa dell’Inquisitore,
seguito dallo scherno sguaiato dei bravi e dall’intransigente spietatezza della Legge.
Mia madre fiutò il pericolo nella luna rossa di
ottobre. Mi chiamò e mi rivelò l’energia che animava i miei occhi: da epoche
remote una luce verde si tramandava negli occhi di fanciulle destinate a
trasmettere un potere immortale, nella bellezza. Un giorno il mistero di quel
potere si sarebbe svelato e un mondo magico e puro sarebbe sorto. I suoi occhi
neri entrarono nei miei: vidi la mia forza e la mia sorte.
In cerca di bocconi per l’Inquisizione Remigio il
Galantuomo risalì montagne e attraversò foreste, percorse vallate e frugò
villaggi preceduto dal saccheggio dei bravi, tallonato dall’ossessione
dell’Inquisitore e seguito da una retroguardia di scalmanati tirapiedi che si assottigliava
di giorno in giorno.
Poi si ricordò di Drusca la Veggente, rintanata in
qualche buco spettrale nell’umidità dei boschi, nel nord remoto. Fece marcia
indietro sormontato dagli insaziabili bravi, irretito dall’ostinazione
dell’Inquisitore e raggiunto dall’ormai sparuta retroguardia. Ci mise un po’ a
trovare una traccia convincente, ma alla fine arrivò.
Sulla cima della Roccia Alta lo vedemmo arrancare sul suo cavallo spossato:
barcollava dietro i bravi che avanzavano a ventaglio raccontandosi storielle
sconce, affiancato dall’Inquisitore e davanti alla retroguardia accaldata e indispettita. Ci guardammo, io e mia madre: lessi
nei suoi occhi il suo destino e lei benedì il mio; ci abbracciammo in silenzio
cullate dal respiro della bellezza che ci aveva accolte, e ci separammo per
sempre; lei restò lassù, consapevole di ciò che andava fatto. Era una drusca.
Gli schioppi dei bravi puntarono la sua sfida e gli
scagnozzi dell’Inquisitore la odiarono sudati; ai piedi della rupe Remigio
scrutava inebetito il cielo blu e aspettava. Mia madre liberò il suo coltello
drusco e lo conficcò nel cuore di Fernando da Jeréz, ambasciatore di
persecuzioni. Prima che il calcio di uno schioppo ne fermasse l’impeto, la lama
di Drusca la Veggente squarciò la gola di Dolcino Estudiante e il fegato di
Brandino Asiago, due famosi pederasti cacciati dai corridoi di nobili palazzi e
accolti dall’Inquisitore come solerti messi.
Mia madre fu presa e incatenata dai bravi sbalorditi
dalla sua rapidità. Remigio il Galantuomo la guardò e non disse niente, girò il
cavallo, congedò con un gesto annoiato i tirapiedi e la retroguardia e trottò
fra gli alberi odorando un’aria sconosciuta.
A Porcile, trogolo arroccato su un picco spoglio, l’Inquisitore istruì un
ambizioso processo contro Drusca detta la Veggente, figlia di Evio e Scura,
megera, strega e assassina. Per l’occasione spedì inviti ai quattro venti e
fece arrivare dieci suonatori di tromba e altrettanti
di tamburo per accompagnare le sue requisitorie e amplificarne l’effetto. Mia
madre fu torturata in un pollaio per apparire ghignante e sfigurata, com’era
richiesto a un’autentica strega.
All’alba, davanti a una platea di intronati nobili
locali, prelati inviperiti, commentatori e inviati di principi stranieri,
l’Inquisitore intonò la prima arringa, tacque, partirono le scariche di tromba
e i rulli di tamburo, riprese con veemenza, si fermò, riprese. La luce ramata
di un insolito tramonto inquadrò i volti sfatti dei presenti; la faccia storta
dell’Inquisitore restò nell’ombra e la sua voce rauca berciò la pena: il rogo.
Gli occhi di mia madre volarono sui suoi e li maledissero e la sua voce
predisse che la peste era fra i presenti e in quaranta giorni li avrebbe
falciati tutti. La bocca aperta dell’Inquisitore emise un singulto e la platea
si afflosciò. Fu allora che mia madre gridò la sua libertà, poi tacque e si
lasciò condurre al rogo.
Sbronzo e percorso da brividi inspiegabili Remigio
dette fuoco alla catasta di legna; mia madre sorrise di disprezzo.
Quando il primo bubbone fu scoperto Anzol era già appestata. Il panico
percorse la gente e la fuga si trasformò in rotta. Gli adulatori sparsero il
contagio e la peste fluì ovunque. Remigio il Galantuomo durò due giorni di sfrenato delirio, i bravi stramazzarono in bettole e
bordelli e gli anzolani morirono senza avere il tempo di chiedersi perché. Solo
l’Inquisitore sopravvisse, trincerato in una stanza asettica in cima alla torre
della spocchia del Potere. Si decise a sporgere la testa fuori soltanto dopo
che il cigolio dell’ultimo carretto si fu spento in lontananza e il silenzio
ebbe avvinghiato Anzol. Ma la ritrasse subito, inorridito dall’insospettata
quiete che dilagava. Sopravvisse come poté, consapevole di essere prigioniero
di un mondo spento.
Uscì un mattino d’inverno, uscì sporco e svuotato,
lasciando impronte barcollanti sulla neve candida. Cercò un cavallo, trovò un
mulo ostile e lo spronò fino a farlo scoppiare. Allora camminò, corse, cadde,
si rialzò, ricadde, si sedette e pianse.
Il mio coltello lacerò il suo collo secco: fu un
taglio profondo e deciso. L’Inquisitore mi guardò incredulo e la luce verde nei
miei occhi gli ricordò chi ero io e chi era stato lui. Lo lasciai rantolare
come un vecchio e inutile maiale, poi lo trascinai a Porcile, il suo luogo
preferito.
E corro verso il bosco, sentiero dei miei avi.
Lungo il Rio del Lago, nel fitto di antichi carpini e castagni, nascosta da
intrichi di rovi e protetta dal silenzio: dimora in pietra, porta robusta,
un’unica finestra, era la mia casa; magia di bosco,
di erbe, di stagioni, e consapevolezza, percezione, abbandono, erano il mio
vivere.
Giustizio il Giustiziere, nipote di Remigio, entrò ad
Anzol due anni dopo con la benedizione del vescovo di Bard e la speranza di
trovare viva una strega da bruciare. Al suo fianco un nuovo Inquisitore
procedeva in carrozza; dietro incedevano due file di messi, consiglieri e
carnefici, quattro file di soldati armati di moschetti marciavano al ritmo di
tamburi e vivandieri, bravi, adulatori e povera gente richiamata ad Anzol
chiudevano il corteo.
I bravi ripresero a spadroneggiare nelle bettole, la
gente si ridiede da fare e Giustizio sguinzagliò i suoi soldati per campagne,
boschi e montagne; non gli mancava niente, tranne la ragione di ostentare il
suo nome.
Arrivarono con la spocchia degli armati; erano in
cinque, guardavano tutto e non vedevano niente. Trovarono per caso un varco ed
entrarono. Non opposi resistenza, non sarebbe servito a niente. Fui trascinata
ad Anzol con una corda al collo. Muta e trasognata la gente mi guardò
attraversare il villaggio fino all’entrata della torre. Il portone di ferro si
aprì, una guardia si fece da parte e fui spinta dentro.
L’occhio azzurro di Felipe da Toledo, l’Inquisitore, mi scrutò dallo
spioncino della grande porta che sigillava la
segreta; sostenni il suo sguardo e la mia luce entrò nella sua pupilla: vidi
cattiveria, furbizia, inflessibilità; quell’uomo non si piegava nemmeno davanti
al suo dio. L’occhio si ritrasse, lo spioncino si richiuse e la porta si
spalancò: due grassi carnefici si avvicinarono; i loro occhi mi fissarono duri.
Fui condotta in una minuscola cella, orrore e fetore di antichi patimenti, di
urla, di indicibili torture. Una vasta botola aperta, al centro della stanza,
mi costringeva a stare ritta contro la parete. Per tutta la notte i topi mi
guizzarono intorno, all’alba due guardie vennero a prendermi.
Felipe da Toledo mi fissava di traverso, io lo
guardavo di sottecchi; parlò con voce aspra, risonante: se non ero una strega
dovevo dimostrarlo, se non lo dimostravo ero una strega. Alzai gli occhi ed
entrai nei suoi, lessi la sua vita sordida e la sua morte, soffocato da un osso
di gallina; poi la mia luce gli disse chi ero: una strega. Riuscì a distogliere
lo sguardo e proruppe in una tosse irrefrenabile. Lo portarono via preso dalle
convulsioni.
Giustizio il Giustiziere volle vedermi. Entrò nella mia cella sarcastico e
spavaldo e uscì stravolto e invecchiato. Impugnando un paio di tenaglie roventi
Giordano da Sagrate, il capo carnefice, si fece avanti con mestiere; la luce
verde nei miei occhi guizzò nel suo sguardo opaco e lui scomparve nel fetore
della botola.
Mi fermai, non era più tempo di combattere; lasciai
che un pallido frate coprisse i miei occhi con una benda nera. Fui spinta nella
piazza del villaggio per essere lapidata dalla gente; il rogo non bastava più
né a Giustizio né a Felipe, e dovevano fare presto.
Mi tolsero la benda. Guardai la gente: non capiva,
sognava pace e dolce prosperità. Nessuno scagliò la prima pietra. Furioso,
Giustizio si avventò su di me con un pugnale, ma la mano di un bravo lo fermò;
l’uomo sorprese Giustizio, Felipe, i soldati, i carnefici, la gente. Saltai sul
suo cavallo e scomparimmo dal villaggio.
Ci fermammo nell’erba alta di una collina. Smontai da
cavallo e lessi negli occhi dell’uomo un destino vero: Giovanni Anzolano, il
bravo, presto avrebbe capeggiato una rivolta. Giustizio aveva i giorni contati.
Giovanni sorrise, mi urlò di fuggire e galoppò verso
la sua nuova sorte di patriota.
In copertina, Marina Kaminsky, “Donna” (2017), 50x100 cm., Tecnica
mista su tela.
Per leggere i precedenti capitoli, clicca qui:
Note dell’editore:
«Haria vive ritirata sull'appennino ligure-emiliano, e comunica
con il mondo esterno mediante i suoi libri, in cui dispensa la conoscenza di
cui è portatrice. Ove giovani donne, in secoli diversi, in fuga dal proprio
tempo, in fuga per la consapevolezza e la libertà. Nove vite, una vita, e una
luce negli occhi che le guida e le accomuna. Nove donne oltre il varco
sull'ignoto, per un magico, solidale destino.»
“La luce negli occhi”, Haria, Collana
Letteratura di Confine, Proprietà letteraria riservata, © RUPE MUTEVOLE, prima
edizione 2004, ristampe 2009-2012-2018.
Cristina del Torchio
https://www.facebook.com/RupeMutevoleEditore/
https://www.reteimprese.it/rupemutevoleedizioni
Marina Kaminsky
http://www.marinakaminsky.com
Andrea Giostra