Figura romantica per eccellenza, il mito di Faust, nella rivisitazione di Goethe, non smette di affascinare e ispirare opere teatrali, pittoriche, letterarie.
Affascina chi crea, affascina chi mette in scena, affascina chi guarda: evidentemente la vicenda tocca qualcosa che è scritto nelle profondità dell'anima dell'uomo di cultura europea, o forse dell'uomo tout court, forse si tratta di un vero archetipo, presente in tutte le culture. Non lo sappiamo, però la fascinazione che esercita è innegabile. E in chi si occupa di teatro nasce il desiderio di rileggerla, di metterla in scena, di confrontarcisi.
Affascina chi crea, affascina chi mette in scena, affascina chi guarda: evidentemente la vicenda tocca qualcosa che è scritto nelle profondità dell'anima dell'uomo di cultura europea, o forse dell'uomo tout court, forse si tratta di un vero archetipo, presente in tutte le culture. Non lo sappiamo, però la fascinazione che esercita è innegabile. E in chi si occupa di teatro nasce il desiderio di rileggerla, di metterla in scena, di confrontarcisi.
Ne è prova la versione attualmente in scena all'Opera di Liegi, in cui Stefano Poda ha esercitato tutte le forme espressive che ha personalmente maturato: la regia, la scenografia (un anello immenso in continua rotazione accompagna i vari momenti), i costumi, le luci e le coreografie portano la sua firma e la sua impronta, con l'intento di far vivere allo spettatore un'esperienza inedita, che lo invita a spogliarsi e a dimenticarsi di eventuali rappresentazioni precedenti, con un risultato che però ci ha lasciati perplessi.
Da quel che abbiamo visto, i primi due atti sono scivolati abbastanza indifferentemente: poca anima, poco movimento. La potenza dell'originale e bella scenografia non è suffragata da un'interpretazione altrettanto intensa dei protagonisti: Faust (Marc Laho) non è carismatico e Mefistofele (Ildebrando D'Arcangelo), per contraltare, si atteggia un po' troppo sia nella voce che nella postura.
Persino la direzione musicale del M° Patrick Davin ne risente, risultando così rallentata, poco coinvolgente.
La situazione e la narrazione cambiano decisamente in meglio nel terzo atto con Marguerite: la voce chiara di Anne-Catherine Gillet dà corpo e anima a un personaggio credibile e puro, come dev'essere, e le interazioni con gli altri artisti ne prendono forza a vita.
Gli ultimi due atti rispondono veramente a un progetto che nella prima parte sembra essere rimasto una bozza non sviluppata, senza profondità.
Nel IV e V atto tutti gli artisti danno il meglio, la musica fluisce corposa, i danzatori, i movimenti dei corpi, il gioco delle luci e la parte finale sono di alto livello: qui si riconosce compiutamente l'estro di Stefano Poda.